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Credo sia Amore

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di Daniele Bogani(StepV11)
Quella mattina pioveva forte, si sentiva il ticchettio della pioggia che aumentava e diminuiva seguendo le folate di vento.
Avevo i piedi al calduccio e solo spostarli dalla loro posizione mi creava un fastidio insopportabile. Insomma era possibile prendere il mio V11 ed andare al raduno? Una cazzata bella e buona. E allora non ci si può tirare indietro. Fin da ragazzo chi non si presentava agli appuntamenti in moto per il cattivo tempo veniva punito con una settimana di prese per il culo. Stavolta sono solo, ma anche solo davanti a me stesso non posso rinunciare
Tralascio lo sguardo di mia moglie quando vede che mi vesto per uscire in moto. Per la cronaca meteo il SUUNTO mi indica 6° C.

Al solito il V11 parte alla prima, lo faccio scaldare al minimo appena una decina di secondi e poi do i soliti due colpi di gas: la risposta non si fa attendere, si sposta sempre a destra in segno di gioia, non c’è niente da fare sarà un gran viaggio.

Arrivo al casello che viene giù il mondo, in pratica piove a sassate. E qui faccio il primo errore: sotto la pensilina mi tolgo i guanti per intascare il tagliando e quando me li rimetto li calzo accuratamente sopra le maniche della Spidi H2OUT. Vedremo in seguito come pagherò sì tale errore.

Parto gasato come pochi, in una sorta di mista consapevolezza di essere un bischero da una parte ed un grande dall’altra. Entro tranquillo nello svincolo e poi mi appare il nastro d’asfalto nuovo di pacca.
Questo asfalto drenante è eccezionale, niente aquaplaning, la moto scorre come sull’asciutto e solleva pochissimi spruzzi. Ed allora gas. 110, 130, 160…… e mi sembra di essere in Westfalia mentre provo la moto d’estate. Godo molto anche perché l’abbigliamento, casco compreso funge alla grande, niente incertezze quindi.

Che dire, il V11 mi da grandi soddisfazioni, mi metto sulla corsia di sorpasso e supero una ad una tutte le macchine che trovo, ma poi il tratto di asfalto nuovo finisce e contemporaneamente iniziano i problemi.
Le macchine davanti alzano notevoli nubi di acqua, e mi sembra di sentire una persistente e pungente sensazione di bagnato al polso sinistro. Maledizione l’acqua mi sta colando dalla giacca dentro i guanti.
Sulla Bonnie il manubrio era più alto e il guanti li portavo sopra le maniche così l’acqua scorreva via, sul V11 è esattamente il contrario. Sono fatto, in pochi km la felpa dei guanti è fradicia e inizio a sentire un po’ di freddo.

Poi vedo un autobus e mi accodo a debita distanza, va sui 100 e mi protegge dalla pioggia incessante che tira a vento frontalmente.
Sono pellegrini macedoni, ed a gruppi di tre-quattro si avvicendano al finestrino posteriore per vedere quel coglione che va in moto sotto quel diluvio. Dopo un po’, esaurito il pubblico, sfilo il bus e riparto verso il primo grill. I guanti sono fradici e le mani ghiacciate. Infatti prendo un caffè e li strizzo per bene.
Sia chiaro indietro non si torna. Sono a metà strada e non smette un attimo di piovere. E’ bellissimo viaggiare sotto l’acqua battente una volta che ti sei abituato alla situazione ed hai preso confidenza con l’insieme moto/asfalto, e sul bagnato il bestio è una roccia, finalmente i suoi 230 kg mi tornano utili sotto forma di una stabilità impressionante. Venite, venite giapponesi, che vi curo io.

Esco dall’autostrada e leggo il termometro:12° C, le mani non le perdo più, evvai.
Sulla Provinciale trovo un gruppo di motociclisti che si riparano sotto un cavalcavia e mentre li saluto non posso fare a mano di esaltarmi, io ed il mio V11 non ci fermiamo per due gocce di pioggia, e se non era per la cazzata dei guanti non ci si fermava nemmeno al grill. Infatti quando siamo ripartiti mi è parso un po’ stizzito, e non si è avviato alla prima come al solito. Nessuna moto mi ha mai fatto pensare questo. Credo sia amore.

Due ore di viaggio e sono arrivato. Parcheggio la moto in fila alle altre Guzzi, e rifletto: avrò anche fatto una bischerata, ma averla fatta, al solito, è stato bellissimo.

Moto, burro e marmellata (a volte è bello fermarsi)

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di Ponant

Ho in bocca un sapore che non sentivo più da anni, quello di un panino pane burro e marmellata, fatto con un burro giallo che non credevo neanche esistesse più, un burro profumato di fiori, di stalla con le taniche del latte in alluminio.

E la commessa del Bar guarda divertita la mia faccia mentre mangio, lentissimo,
questo panino che sembra arrivi da un altro pianeta e invece sono a Massa Lombarda, vicino a IMOLA, e con quel sapore in bocca la lunga strada intervallata da paesi garibaldini della bonifica mi sembra ancora più bella, ho diminuito i ‘giri’ di Osvaldo e da Anita a Comacchio sui fianchi del delta, il Po comincia a muovere la sua bacchetta magica, e con il casco aperto
comincio a sentire quell’odore…..

il sole, dopo tre lunghissimi giorni di pioggia comincia a riscaldare il delta e LUI come la schiena di un contadino curvo in mezzo al campo comincia a ‘rilasciare’ il suo sudore…

guardo la cartina sulla borsa del serbatoio e provo a immaginare traiettorie improbabili e ottimali in una regione che alterna strade dritte ed infinite a canali con ponti obbligati…

Comacchio, Pomposa, Bosco Mesola….e girata una strada dietro ad una abbazia la biscia cementata della Romea scompare… e ricompare il delta.

A quel punto non so se la velocita di Osvaldo e più vicina a quella di una bici o di una moto, ma non mi importa, ciò che mi importa e che ho ritrovato il ‘MIO’ passo ideale, quello che mi piace avere quando seguendo la strada non devo preoccuparmi di essere troppo veloce o troppo lento.

Sento che la velocita è quella giusta. Giusta per ricevere le immagini che corrono sullo schermo… come in un film girato a manovella scorrono davanti agli occhi Goro ,Gigliola, Ariano e passato sopra a un ponte a pagamento (che rumore le tavole di legno sotto le ruote…) e poi dallo schermo normale, esplode il technicolor della sacca degli Scardovari… e a quel punto il film si ferma.

Spengo il motore.

Metto il cavalletto, scendo, mi siedo sul bordo della strada, tolgo il casco e appoggio la schiena sulla ruota di OSVALDO.

20 minuti, una ora? che differenza fa? Sono qua seduto sul ciglio di una strada e guardo svassi e aironi cinerini, nutrie disturbate dal volo dei gabbiani che schiamazzano per rubarsi fra di loro un pezzo di un pesce di laguna.

Sono qua, fermo. Non c’è il prima, né il dopo, c’è solo il calore del sole, l’odore dell’acqua salmastra è il mio ‘contatto’ con il Delta, con un microsistema unico e bello che già avevo sfiorato altre volte, ma che mai prima d’ora avevo ‘sentito’ così forte.

A questo punto, dovrei ricominciare ridescrivendo la strada del ritorno. E invece la testa, il film restano li dagli scardovari… e la strada del ritorno, pur molto bella, sembra la sagra senza fine dei titoli di coda… e allora permettemi di aggiungere il mio modesto contributo alla fine di questa lettura.

I titoli di coda:

itinerario
Imola-Scardovari-Imola

KM percorsi
285

Driver
Maurizio ‘ponant’ Vallebona classe 1964

Moto utilizzata
Guzzi T5 ‘il burbero’ OSVALDO classe 1985

Carburanti Utilizzati
Benzina super 98 ottani
Pane burro e marmellata
Piadina e squaquerone (a mezzogiorno)

Durata dell’itinerario
8, forse 9, magari anche dieci (ore)

Registi lungometraggio
Sig Tonti Lino
Ing Carcano G.C.

Colonna sonora
a cura del centro di produzione audio-video
Moto guzzi S.p.A. di Mandello del Lario (LC)

Durante le riprese di questo film non sono stati utilizzati animali in cattività, o addestrati, o soggetti a pressione psicologica alcuna salvo il lancio di un pezzo di pane (senza burro)

Si ringraziano nell’ordine:

– il consorzio della bonifica
– il benzinaio della shell di ANITA
– la barista di Massalombarda
– l’agente polstrada sulla Romea che non mi ha fatto la multa per il sorpasso
– il colonnello Giuliacci delle previsioni del tempo
– il Vds Tiziano Nicastro
– La grullaia Assunta Loreti

I fatti riprodotti in questo film sono tutti realmente esistiti si tratta di luoghi, persone, sapori, odori che invito caldamente tutti a visitare e conoscere.

Il Lato Ludico della Moto

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di Andrea (wvilla)
Una volta un amico mi disse che si inizia ad invecchiare quando si incomincia a ricordare con nostalgia il passato. Ora dopo questa mia esperienza che mi sto accingendo a raccontare credo invece che il passato, se ricordato con gioia e piacere, ci aiuti a vivere meglio il presente e ci dia la spinta per affrontare il futuro.
Inizio queste mie righe con il ringraziare prima di tutto la Moto Guzzi , senza la quale non ci sarebbe stata nemmeno la partenza di questa lunga storia e in secondo luogo Anima Guzzista che mi ha dato quel carburante per continuare il viaggio, o meglio riprenderlo dopo un lungo periodo di appisolamento.
Ieri ho partecipato ad un incontro tra guzzisti dopo circa 7 anni di quasi inattività motociclistica ed ho rivissuto momenti dimenticati, immagini che si erano affievolite nella memoria e che sono tornate a galla grazie ad alcuni di voi.
Tutto comincia agli inizi degli anni 80, io ero un ragazzino un po’ rompi, ma appassionato di moto come pochi, eravamo in due in quella strada , io ed un certo Davide, ed entrambi non vedevamo che moto, solo moto. Passavamo molto tempo insieme, come si dice dalle nostre parti, abbiamo fatto i bambini insieme ed insieme abbiamo coltivato la nostra passione per “e mutor”.
A me in particolare piacevano le Moto Guzzi, non so dire il perchè, ma il rombo che usciva da quegli scarichi, il colore rosso, le persone che giravano attorno a quella officina mi facevano fantasticare, immaginare motociclette in gara oppure lunghi viaggi alla scoperta di luoghi lontani, solo io e la mia Guzzi, io e la mia anima.
Allora la Moto Guzzi aveva ancora un largo seguito senza contare che tutte le forze dell’ordine erano dotate di Guzzi, in officina trovavi sempre qualche poliziotto municipale, noi li chiamavamo “i Falconi” (anche se ormai avevano abbandonato quella moto) con il quale scambiare quattro chiacchiere oppure un carabiniere con il quale soddisfare le nostre curiosità a volte impertinenti. C’era un gran giro attorno a quella officina un via vai di moto, rombi che si allontanavano e rombi che si avvicinavano in un susseguirsi di atterraggi e decolli, come solo delle vere aquile possono e sanno fare.
Rompevo il concessionario quotidianamente, tutti i giorni ero da lui, tutti i giorni guardavo e riguardavo le moto, le conoscevo a memoria, il California 2, il Le Mans 1000, il V75, il Lario, l’Imola, le custom, di loro ormai conoscevo ogni particolare ogni pregio ed anche ogni difetto, parlando con il meccanico mi spiegava cosa non andava, cosa si doveva fare per risolvere i problemi, ed anche se io sono stato sempre imbranato nella meccanica lo ascoltavo e fantasticavo come solo a 14 anni si fa.
Poi grazie ad un amico di famiglia sia io che Davide iniziammo a fare qualche giro in pista sugli 80 cc, cavolo per noi era il massimo ci sentivamo dei campioni arrivati, a scuola facevamo gli sboroni con le ragazze, perchè noi correvamo in pista con le moto, le invitavamo a venire a vederci e come capita di solito a qualunque maschio osservato da una femmina , andavamo ancora più forte, rischiavamo ancora di più e volavamo su quelle gomme strette strette iniziando ad imparare sin da giovani le dure leggi dello sport, e della vita, la vittoria e la sconfitta.
Piano piano quelle gomme si sono allargata e qualche soddisfazione me la sono tolta, sicuramente molte di meno di quante non se ne sia tolte Davide, ma abbastanza per ricordare quegli anni (fino ai primi 90) come favolosi.
Voglio però parlare della Moto Guzzi, della moto come passione, del lato ludico della motocicletta e non di quello pistaiolo (che è ludico pure, ma sotto altre vesti).
Nel 86 mi presi la patente e mi comprai la prima moto, finalmente Vittorio (il conce) vedeva coronati tutti quegli anni di disponibilità, quelle tonnellate di depliants regalati e quelle interminabili, per lui, ore che passavo nell’officina.
Proprio per staccare nettamente con la pista e per convincere mio padre, mi presi una custom, una Floriduccia 350, ricordo ancora la lotta con mio padre che non voleva assolutamente che oltre alla pista andassi in moto anche per strada, arrivò a promettermi una Lancia Beta Zagato (ce n’era una in vendita sotto all’ufficio dove lavorava) rossa e cabrio; io però ero inflessibile ed in fondo i soldi li avevo guadagnati io (il bello della riviera era che in una stagione da aiuto bagnino ti compravi una moto) ed io dovevo decidere come spenderli.
Quindi Florida 350 comprata come tutte le mie moto in pieno inverno. L’anno dopo primi viaggi, prima sperimentai un raduno a La Spezia per farmi le ossa e capire un po’ meglio le dinamiche dei viaggetti su due ruote, poi mi misi in testa di valicare le Alpi, il mio primo vero viaggio iniziò lungo la statale del Brennero, quindi arrivai ad Innsbruck, poi Garmish e dopo lungo la Romantische Strasse arrivai al lago di Costanza ritornando per la Svizzera via Lucerna, fu in quel viaggio che iniziai ad imparare cosa vuole dire essere motociclista, a salutare chi si incrocia, a valutare la moto non solo per quanto va, ma anche per dove va.
Partivo sempre solo, tanto sapevo che lungo la strada avrei sempre trovato qualche altro motociclista che per un pezzo di viaggio mi avrebbe fatto compagnia, e così i viaggi si moltiplicavano; anche in autunno sentivo il bisogno di partire, stavo a casa da scuola una settimana e me ne andavo in Yugoslavia (allora c’era ancora), oppure in Francia o in Italia stessa a zonzo per il bel paese, idem in primavera e via così.
Gli anni passavano ed appena fu possibile cambiare moto, cambiai solo cilindrata, prendendomi un Florida 650, ma non cambiarono le mie abitudini si partiva sempre io e lei, anche quando la morosa c’era (e non era purtroppo una costante) me ne partivo solo, magari anche per 4 o 5 giorni, ma solo.
Con una cilindrata più corposa iniziai ad osare un po’ di più, ed allora Francia, Spagna, Austria, Germania diventarono mete molto più accessibili, è impossibile raccontare tutti gli episodi vissuti, ma alcuni sono talmente vivi nella mia mente da sembrare accaduti ieri, come quello di un trasportatore tedesco che fermandosi e vedendomi senza benzina, chiamò al cb un suo collega che venne con rimorchio cisterna e mi riempì il serbatoio o come i due gendarme francesi che mi inseguirono sulla statale tra Besancon e Dijon, andavo talmente forte che non me ne accorsi e mi presero solo quando , a detta loro dopo venti minuti, mi fermai a fare rifornimento, erano tanto stanchi che dopo avermi chiesto i documenti mi dissero che il mio nome non era Andrea, ma che avrei dovuto chiamarmi gasgas e ridendo mi lasciarono andare; sono decine gli episodi occorsi, alcuni dei quali non raccontabili in un sito pubblico frequentato anche da bambini, e tutti hanno lo stesso comune denominatore il piacere di vivere ed il piacere di andare in moto.
I viaggi mi appassionavano sempre di più, ero quasi drogato dai viaggi e dalle moto, quindi decisi che era momento di cambiare anche il tipo di moto e presi la SPIII (moto che ancora possiedo), con quella bestiolina coronai i miei sogni, Olanda, Danimarca, Svezia, Portogallo, Grecia, per ogni viaggio serbo dei ricordi, in ogni occasione ho trovato degli amici; solo Capo Nord non riuscii mai ad agguantare, forse più per pigrizia che per reale impossibilità, ma tant’è ci si deve accontentare ed il gusto di viaggiare era sempre come la prima volta, ogni partenza aveva il brivido della novità.
Che bello fermarsi in una osteria e fare amicizia con delle persone che come te condividono una passione, la moto; che bello parlare per ore con degli sconosciuti come se facessero parte della tua vita da decine di anni, aiutare ed essere aiutati, soccorrere ed essere soccorsi per il solo motivo di essere motociclisti, di vivere sulla e per la strada emozioni che non si possono raccontare ne si possono capire senza averle mai vissute; in più la Moto Guzzi ti da quello che altre marche non ti danno, ti da uno spirito di appartenenza incredibile, i guzzisti amano la loro moto ed amano il loro motore, amando ognuno la stessa cosa è come se un po’ ci amassimo tra di noi, ci stimiamo senza conoscerci in virtù di scelte condivise.
Gli anni avanzavano e come si usa dire si doveva mettere la testa a posto, pensare alla famiglia, sposarsi e vivere più tranquillamente, ed è questo che anche io feci, la moto (sempre la SPIII) fu un po’ dimenticata , mai abbandonata, ma lasciata in disparte sì, sempre curata, come quando si serba una cosa per un evento, un qualcosa che non si sa quando accadrà ma di cui si è certi che, prima o poi, ci sarà.
Ieri grazie ad un incontro organizzato dalle anime guzziste siciliane, a cui ho partecipato, il primo dopo tanti anni, ho rivissuto emozioni sopite, piaceri che avevo dimenticato, gioie che solo l’essere motociclisti (specie se guzzisti) può fare provare, quell’evento tanto atteso sulla cui esistenza ero certo è finalmente arrivato.
Ho ritrovato la moto, ho ritrovato i motociclisti, ho ritrovato il piacere di condividere una passione, ognuno di loro ha dei ricordi più o meno indietro nel tempo, ognuno di loro ha delle esperienze ed ognuno di loro ha voglia di condividerle, ci siamo ritrovati da ogni angolo della Sicilia (alcuni hanno fatto più di 500 chilometri) per partecipare a questo incontro e con ognuno di loro, ma veramente con ognuno, era come se ci si conoscesse da una vita, come se ci si ritrovasse dopo un tempo trascorso in lontananza.
Gli aneddoti si sono sprecati e la cosa strana, ma poi non così tanto, è che ad ognuno di noi sono spesso capitate le stesse cose, spesso abbiamo vissuto le medesime esperienze a testimoniare che la vita di un motociclista passa per ben determinati passaggi, è connotata da strade assai simili seppure provenienti da angoli opposti
Ad una prima lettura il mio entusiasmo potrà esservi sembrato esagerato, ma è la verità, ho ripercorso con la mente tanti anni passati, sono riaffiorati decine di ricordi, ed il fatto di avere utilizzato ancora quella moto, la SPIII , mi ha veramente riportato indietro negli anni, certo il raffronto è impietoso, i pochi capelli rimasti ed i 20 chili in più sono tutti lì a testimoniare che il tempo è passato, ma in alcuni momenti della giornata mi sono sentito tornare un ragazzino, un ragazzino pronto a scrivere dei suoi primi 40 anni e dei suoi oltre 250.000 chilometri vissuti sulle Moto Guzzi.

Grazie a tutti.

Tre Amici due ruote

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di Giuseppe “Patato” Gullo
169 km. Questo recita il parziale della mia “BiCi Brevola” alle 18.30 di domenica 29/10. Una giornata passata a scorrazzare per le colline e le prime montagne intorno a Torino…

La giornata inizia presto, alle 7.40 suona la sveglia. L’entusiasmo è alle stelle, finalmente ho tutto il necessario: Moto, assicurazione e foglio rosa… oggi il primo vero giro con la mia nuova “belva”, il cavallo d’acciaio che ho aspettato per anni…
Mi preparo con calma, mi vesto da vero biker consumato ( laugh.gif ¨ ) salgo in sella e, dopo aver fatto il pieno, raggiungo il secondo componente della “compagnia dell’anello”. Fabio è l’unico “vero” motociclista del gruppo, biker da quando era un ragazzino, ha avuto praticamente ogni tipo di moto. Arrivo a casa sua in leggero anticipo e lo trovo ancora in pigiama, e candidamente mi sorride e dice “stavo guardando in tv Pippi Calzelunge, due minuti e sono pronto…”.

Ci conosciamo da anni, dalle superiori, e comunque continua a stupirmi simpaticamente ogni giorno che passa… E’ il classico “bravo ragazzo”, se non lo hai mai visto guidare qualcosa a motore… allora si trasforma in una specie di chimera metà Tazio Nuvolari e metà Valentino Rossi… E’ l’essenza del vero boy scout, senza mai esserlo stato (credo). La sua parola è una roccia, ‘amicizia un valore fondamentale…

Esce dal garage in sella al suo rumoroso bolide (Husqvarna SM610), una motard estrema tappezzata di adesivi misti tra il metallaro e l’appassionato di motocross. Ci aspetta una “tappa di trasferimento” di una trentina di km, che ci porterà sotto la collina di Superga, dove ci incontreremo con il terzo componente della banda.

Per fortuna la domenica mattina è abbastanza “spenta” in città, e sulle strade non troviamo traffico. Come da accordi, alle 9.45 siamo alla Dentera (per i non Torinesi, un trenino che collega la città con la basilica di Superga), in attesa di Federico.

Federico…un minimo di presentazione. Ci siamo conosciuti in ufficio, circa 4/5 anni fa (forse di +), e c’è stata intesa fin da subito… lui è l’estensione esterna della mia parte creativa… E’ un vero giramondo, nel senso che, per divertimento o avvetura o piacere personale, ogni tanto sceglie una nazione a caso sulla faccia del pianeta e ci si TRASFERISCE fino a che non si stufa. Poi rientra in Italia, medita per qualche tempo, e poi via di nuovo… Vorrei avere anche solo un quinto del suo fegato (anche xkè quel quinto sarebbe comunque distrutto dalla birra).
Il giovanotto (abbiamo la stessa età, ma mi piace pensare che il mio essere vecchio dentro abbia anche un effetto all’anagrafe) ha una caratteristica distintiva… come sceglie il paese per il prossimo viaggio, sceglie di giorno in giorno su quale fuso orario fasarsi… e normalmente non è mai GMT+1, il nostro…

Alle 10.15 vediamo un puntino giallo all’orizzonte che viene nella nostra direzione (telefono ovviamente spento o non raggiungibile) e che ci saluta allegramente. La sua cavalcatura è un Gilera Runner 200… insomma, il gruppo PIU’ ETEROGENEO POSSIBILE!!! (tutte italiane però!!!)

Facciamo colazione e il barman ci stupisce con effetti speciali di notevole effetto, che ci sentiamo in dovere di documentare

La strada che porta alla basilica, fino a domenica, l’avevo sempre percorsa in auto, e siccome c’è sempre il nonnino in pellegrinaggio che ti guida una “127 rustica” a 30km/h davanti, il tragitto arriva a durare anche una ventina di minuti… ecco, imparo immediatamente che la moto ha un altro metro di misura del rapporto spazio/tempo. In 5 minuti siamo alla basilica. Che facciamo? Due foto e via? ok…

“Allora? Direzione Colle della Maddalena? Dai dai, che c’è la strada panoramica, se mi ricordo bene, che è una meraviglia…”
Imbocciamo la panoramica che collega la basilica di Superga al Colle della Maddalena, senza prestare attenzione ad un cartello di “divieto di accesso ai motocicli” di circa 50cm di diametro… ci accorgiamo dello sbaglio quando, ormai a metà strada, ci rendiamo conto che i frequentatori di quella strada sono principalmete ciclisti e corridori, che giustamente, ci guardano come un orso potrebbe guardarti mentre gli rubi il miele… e vabbè, ormai siamo in ballo… arriviamo fino alla fine…

Arriviamo a destinazione… di nuovo in un tempo ridottissimo. Quello che io avevo pensato come un bel giro di una mattinata, si stava rivelando un giro di pochi minuti… TERRORE!!! TUTTA STA STRADA PER NIENTE?!?!?!
NO, OGGI DOBBIAMO INDOLENZIRCI LE CHIAPPE, SENNO’ CHE SIAMO VENUTI A FARE?
Avanti, due foto e poi si torna verso le montagne…

Purtroppo, come già la mattina, ritornare verso la valle di Susa richiede il noiosissimo passaggio dalla tangenziale di Torino, ma non ci abbattiamo e, alla folle velocità di 110/120 km/h percorriamo i 30 km che ci portano ad Avigliana.
Ora si può iniziare il vero giro piacevole.

Fino a quì, la maggior parte della mia attenzione era stata catturata dal pedale del cambio e dalla frizione, misto al dover frenare con una mano ed un piede, IL TUTTO CERCANDO DI RISPETTARE IL CODICE DELLA STRADA (frecce, precedenze, semafori…). E’ davvero dura essere un neofita…

Ma le cose cominciamo a cambiare… il piede adesso trova da solo le marce in accordo con la mano sinistra, la destra dosa in gas con dovizia…

però, non è poi così difficile, magari posso guardare anche il posto oltre che la strada…

E quì inizia un nuovo mondo. Gli occhi si schiudono ad una dimensione mai vista o provata prima. Tutti i sensi rispondono all’appello festosi. Quella strada percorsa decine di volte diventa ad un tratto nuova, ricca di profumi e di colori, di sensazioni forti e sottili mescolate in un cocktail di strada, uomo e moto.
Ed è quì che veramente mi rendo conto, che realizzo che quello che era stato un sogno fino ad ora, adesso è una realtà…

I tornanti si susseguono mentre saliamo lungo il monte Pirchiriano, passando in mezzo al bosco dai quali alberi cadono centinaia, migliaia di foglie… il passare delle ruote sull’asfalto le solleva in vortici, e il forte odore di sottobosco si infila nel casco. Quando arriviamo in cima sono in silenzio…

Non mi basta… NE VOGLIO ANCORA… Proseguiamo fino al culmine della strada, sul colle Braida e poi giù fino a Giaveno. La (mia) mogliettina ci aspetta con la pappa pronta intorno alle 13.30. Arriviamo a casa, siamo tutti e tre elettrici (anche Fabio che, nella mia testa, avrebbe dovuto essere più refrattario, data l’esperienza di anni in sella). Mangiamo raccontando il giro a Simona, che ci guarda come la mamma che sente il resoconto della partita di pallone del figlio 15enne. Sono davvero contento, quella felicità incontrollata e scalpitante che non provavo dalle prime tagliate (marinare la scuola/bigiare/fare sega) a scuola per andare a giocare con gli amici.

Il pomeriggio ci porterà ancora a Forno di Coazze

ma io termino quì il mio racconto, una storia semplice ma vera, una realtà fatta di amicizia costruita in tanti anni, tra alti e bassi, tra risate e birre, che oggi si arricchisce di nuove emozioni, legate ad un mezzo che mi sta dando grande gioia. Emozioni condivise con qualcuno che le apprezza e che ha il potere di arricchirle, nei miei ricordi e nel mio cuore, di tanti dettagli speciali.

Grazie Fabio, grazie Federico.

Ciao a tutti.

Il Mio Primo Elefantreffen

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Il Mio Primo Elefantreffe

di Marco Sardina (Marsa)
Era da tre anni che ci volevo andare e non ci ero mai riuscito. Quest’anno sembrava quello buono e poi ci si sono messi gli impegni di lavoro e all’ultimo anche il tempo. Tutto incerto fino all’ultimo minuto. E mi sono detto che l’elefanten è così, e va metabolizzata questa filosofia. Volerci essere ed essere pronti ad affrontare le incertezze e gli eventi. E’ Martedì. Preparo la meticolosamente la moto, rabbocco d’olio, controllata alle candele, regolazione punterie, coprimanopole montati e pronti all’uso e per finire un abbondante strato di silicone spray su tutto.
Il giorno dopo sarò proprio a Monaco per lavoro e non so ancora se riesco a rientrare.
Giovedì sera invece riesco a saltare su un volo di rientro e arrivando a casa sento già l’agitazione della partenza. Io con il rischio di ghiaccio ho paura, non semplice paura, me la faccio proprio sotto.
Va beh, non pensiamoci e a nanna.
Alla mattina di venerdì sono sveglio prima della sveglia, una occhiata fuori… azz!!! Ha nevicato… uno straterello bianco copre tetti e prato… ma non la strada!! Un attimo di riflessione e poi prendo la decisione. Vado!!! Se va male tornerò indietro ma non posso rinunciare adesso. Mia moglie terrorizzata mi saluta e sicuramente ha pensato che sono pazzo. Faccio del mio meglio per tranquillizzarla ma dubito di esserci riuscito. E a 48 anni compiuti sto per partire per il mio primo Elefantentreffen.
Mi preparo, pronto in un lampo e via al punto di incontro davanti a Pogliani a Sesto. Lungo la strada all’agitazione della partenza subentra una sorta di eccitazione, sto andando davvero!!! Stento ancora a crederci.
L’appuntamento è con un veterano dell’Elefanten che scrive su QdE, “il franz” e con chi altri non lo so ancora. Il motto è “chi c’è ,c’è”.
Arrivo ben prima dell’ora fissata e mentre mi fumo la prima sigaretta mi accorgo che le “liquid chain” (quella pasta che stesa sul pneumatico bagnato dovrebbe solidificare funzionando come una vera catena) le ho lasciate a casa.
Sto ancora riflettendo sulla grande filosofia dell’essere un minchia che arrivano i due soci della prima parte del viaggio. Il franz e wolf, BMW R1100RT e Kawasaki Ninja 900 (!!)
A parte i commenti sulla Kawa del Wolf protetta da improbabili “cuscini” tenuti da cinghie nella speranza di proteggere la carena da eventuali scivolate, e con paramani artigianali “costruiti” ad hoc, partiamo sotto il nevischio che a intervalli ci accompagnerà per tutta la strada. Ma prima abbraccio un caro amico, veterano dell’Elefanten che quest’anno non potendo partecipare è passato a salutare!!
A Trento Nord ci congiungiamo con altri tre compagni d’avventura e proseguiamo verso il Brennero con la temperatura che progressivamente si abbassa (-4, -6, -8°C) e continua e nevicare fine. Fortunatamente la strada rimane sufficientemente pulita. Verso Insbruck inizia ad esserci un po’ più di neve e il freddo inizia a farsi sentire nonostante gli strati di materiale tecnico. Le uniche calde sono le mani grazie a manopole riscaldate più coprimanopole e i piedi grazie anche al paraspruzzi della Norge. Il viaggio a parte il freddo si svolge senza particolari problemi e verso le 5 del pomeriggio arriviamo al bed and breakfast conosciuto dal franz. Un piccolo problema per le stanze prenotate che erano state per errore assegnate ad altri ma alla fine troviamo tutti posto letto. Doccia bollente e riscaldati tutti nella stube sottostante dove troviamo che ci aveva inconsapevolmente ciulato le stanze. Il lambretta club Lombardia. Tre lambrette e una vespa PX all’Elefantentreffen!!! Dei miti, simpaticissimi. Insomma la serata con una bella tavolata è volata tra stinchi, gulasch e birre!!!
Alla mattina, il risveglio assaporando il giro fino alla fossa, viene interrotto dal primo sguardo fuori……..uno spesso strato di neve copre tutto incluse le moto!!!

Il Mio Primo Elefantreffen

Scendiamo dopo colazione e la situazione è critica. Girello a piedi per verificare le strade. Impossibile muoversi. Solo “Pier il polso” con il suo 1200GS prova a fissare dei ragni alla ruota posteriore e tenta l’avventura. Sapremo poi che è dovuto tornare indietro dopo poco tempo. E se è tornato indietro lui……

Il Mio Primo Elefantreffen 2

Gli altri si dividono e la decisione è di arrivare alla fossa anche a piedi (15Km). Io e il mio “socio” (Bebba) partiamo e iniziamo a camminare. Secondo atto del minchia è stato dimenticare a casa anche un cappello qualunque….Compro in fretta e furia un cappellino con visiera e ci incamminiamo. Riusciamo ad evitare qualche kilometro soprattutto grazie a un camionista tedesco con un carico di birra che ci dà un passaggio per un tratto, fumando e bevendo birra e guidando a velocità folle sulle strade coperte di neve e ghiaccio. Ancora vivi nonostante l’esperienza, dopo gli ultimi 3Km con una salita al 14%, fatta a piedi, riusciamo ad arrivare alla fossa e le gambe paralizzate riprendono vigore.

Il Mio Primo Elefantreffen

E’ davvero un colpo d’occhio unico. Tra moto e sidecar che tentano di affrontare l’uscita verso la strada spinti dagli uomini dell’organizzazione, la gente che si assiepa per l’iscrizione, le foto di rito sotto lo striscione, i fuochi accesi con il fumo che si alza in cielo, le bandiere nazionali dove sono raccolti i gruppi più numerosi. Le moto e i personaggi più strani.

Ma arrivano anche i lambrettisti. Dei miti viventi. Sono riusciti ad arrivare alla fossa dove gli enduroni hanno fallito!!

Il Mio Primo Elefantreffen

E non possiamo dimenticare il manipolo di eroici disperati che è arrivato dall’Italia con il Ciao Piaggio….

Il Mio Primo Elefantreffen

Le sensazioni sono uniche. L’atmosfera sembra surreale e fuori dal tempo. Giriamo dentro al raduno godendo lo spettacolo variegato che offre, inclusi i preparativi per pranzi non esattamente dietetici.

Il Mio Primo Elefantreffen

Il rientro in albergo è stato celebrato con un’altra mitica tavolata e da una piacevolissima serata pur nell’incertezza sulla possibilità di ripartire il giorno successivo, per la neve che continuava a cadere, se pur meno intensamente.

Ma alla mattina le strade erano decenti e dopo i primi chilometri prudenti per raggiungere l’autostrada ci siamo messi in marcia abbastanza spediti nonostante il vento fortissimo che ci ha accompagnati fino a Rosenheim. E proprio il vento molto forte complice anche una nostra leggerezza mi ha fatto finire la benzina mentre ero in coda al gruppo. Inutili i lampeggi per avvisare chi mi precedeva, la moto si ferma e la spingo in una area pic nic poco distante attendendo che qualcuno torni indietro. Ma nel frattempo si ferma una giovane coppia in macchina. Il ragazzo, in inglese, anticipa la mia spiegazione e tira fuori dal bagagliaio una tanica di benzina che versa nel serbatoio della Norge mentre mi dice che avendomi visto spingere ha fatto inversione di marcia ed è tornato indietro. Era molto orgoglioso di avermi aiutato e ho faticato non poco per fargli accettare almeno 5 euro (non voleva categoricamente di più). Mi ha solo chiesto “quando vedrai un motociclista tedesco in difficoltà in Italia ricordati di aiutarlo”
Incredibile.
Da lì in poi, a parte la fatica, è andato tutto liscio fino a casa, con gli addii che si sono disseminati sulla strada a seconda delle mete finali di ciascuno e i quasi continui saluti agli motociclisti che rientravano. Era quasi un’altra festa nella festa!

Per queste ore non ci sono stati schieramenti di marche, di tipi di moto (bellissimo passare il gruppo dei Ciao salutando con il massimo rispetto) eravamo tutti uguali e solidali, tutti motociclisti. E soprattutto eravamo lì, La gente per strada che ti chiede da dove vieni, dove si trova il raduno, ascolta le risposte….e ti sorride facendo i complimenti e forse sognando l’avventura. Immaginavo potesse essere così ma esserci stato per me è stata una soddisfazione incredibile e ha cambiato alcune cose dentro di me.
Questa impressione unita alla soddisfazione di avere affrontato la paura del ghiaccio e di cadere mi rimarrà profondamente scolpita nell’anima.
Un ringraziamento ai miei incredibili compagni di viaggio, il franz, bebba, pier il polso, wolf e anche a tutti gli altri dei quali (mi scuso) non ricordo i nomi.
L’anno prossimo ritornerò.

10 Minuti a Ceparana

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di Piero Mombello
Un SMS: “noi si va”. Sono i Pippi con le Giappe, mi avevano accennato all’intenzione di bigiare. Ma si’, ho pure qualche commissione da fare.. comunico che li raggiungo a meta’ mattinata, avviso che non vado al lavoro e mi butto a valle per negozi e uffici. Alle 10 ho finito, tuta e via.
Gli itinerari sono sempre quelli, Scoglina, Bracco, Centocroci. Sosta per il pranzo: “ma a Varano gireranno?” E che ne so.. certo che ci scappassero un paio di turni.. e comunque e’ una meta come un’altra. Niente, la pista e’ presa dall’Alfa, tutto chiuso. Vabbe’, si fa la Cisa, benza ad Aulla. “Passiamo da Ceparana?” per gli altri sta bene, ok, allora via da Gallina!
Penso a Giuliano, lo avverto? Ormai gia’ siamo li’, magari Roberto nemmeno c’e’.. pazienza, semmai Giuliano mi perdonera’!
In effetti Roberto non e’ in negozio, e nemmeno in officina. Stiamo per andarcene ma ci vede il figlio. “no, niente, volevo seccare tuo padre coi tempi andati, chiedergli di uno che correva, Mandolini..” “Ah, si, Mandolini! Papa’ e’ sopra, ti accompagno.” Come? Avra’ 20 anni e conosce Mandolini, incredibile.. intanto siamo arrivati alla torre, l’officina “segreta”. Roberto e’ li’ in tuta che lavora sulla Tamburini da gara.”papa’, c’e’ uno che vuol sapere di Mandolini..” “Vieni, vieni! Siete andati a fare un giro?Mandolini, si’, l’ho ancora visto che saranno un paio d’anni, e’ venuto a cena. Dai, guarda qui.. stiamo diventando matti con l’acquisizione dati, e domenica abbiamo una gara..” ha in mano una staffa autocostruita e un affare che immagino sia un trasponder, sta cercando di piazzarlo al meglio da qualche parte sotto al serbatoio. Sono disinvolto come un’antilope in mezzo ad un branco di leoni affamati: questo ha corso con Agostini, Saarinen, con chiunque.. ha vinto due titoli mondiali (Lucchinelli e Uncini), e’ qui nel suo santuario che prepara la moto del figlio per una gara, arrivo io a rompere i marroni, un minchia qualsiasi che lo ha incontrato si e no 3-4 volte per strada.. e lui mi riceve come se mi conoscesse da sempre, come se tra i Read e gli Hailwood ci fosse stata anche la mia faccia ebete. “dai, cosa fai li, vieni a vedere!” Farfuglio: “Eh, oggigiorno.. tutta elettronica..””eccerto, ma guarda: piu’ sensori e cavi che motore, tra un po’!” E’ inutile, quest’uomo mi fa morire, e mi fa sentire piccolo piccolo. Come quando qualche anno fa mi racconto’ dell’incidente di Monza e di come lui salvo’ la pelle per pura combinazione.. cosi’, come si racconta tra vecchi compagni di scuola. E io mi sento sempre piu’ piccolo e impacciato. “Mandolini, si’, che volevi sapere?” “Ecco.. Barcellona, nel ’70, arrivo’ a podio..” lui da’ un’occhiata all’aquila sulla mia tuta, gli ridono gli occhi “Si, aveva la Guzzi!” “ma cos’era, un mono?” “certo, il mono..” “ma il bialbero?” un punto per me (grazie, Vanni!), sembra compiaciuto “non ci giurerei, ma e’ molto molto probabile che lo fosse.””ma la moto, che moto era, dove l’aveva presa.. sai.. sembra che non ne sappia niente nessuno..””ah, ma la moto era sua, se l’era fatta lui!” Eggia’, che pirla che sono..ovvio no? Ma che vuol dire, aveva preso un telaio di qualche Guzzi e lo aveva modificato, era Guzzi solo il motore, le sospensioni, i freni.. ma il suo sorriso e’ disarmante: “la moto se l’era fatta” dice gia’ tutto, per lui e’ pacifico che io abbia capito. Non ho il coraggio di replicare. Intanto il trasponder (?) e’ finito sul banco, Roberto si pulisce le mani con uno straccio e ha un’aria complice: “Mandolini e’ un amico, mi piacerebbe rivederlo, ma mia moglie..” e mi fa intendere che la moglie (molto morigerata e “tosta”) non lo vede di buon occhio per via di qualche sua scappatella.. e parte a raccontare! Si, ma la Guzzi del ’70, la gara di domenica prossima, il lavoro sulla Tamburini.. No, me ne devo andare, non posso continuare a fargli perdere tempo! “Grazie, Roberto, grazie davvero! Dai, scappo, senno’ non combini piu’ niente!” Sorride ancora, mi stringe la mano. Una stretta forte e sincera, da gente semplice, come mi capita sempre piu’ di rado di ricevere. Me ne vado con un sorriso ebete stampato in faccia, uno dei Pippi mi dice: “ma chi e’ ‘sto Gallina? mi sembra di averlo gia’ sentito nominare..” “E’ un gigante. Alto almeno tre metri, credimi” gli rispondo.
Poi salgo in moto e pian piano ci avviamo verso casa.

Piero

Il Mio Primo Giubbotto di Pelle

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Il Mio Primo Giubbotto di Pelle

di Alysee Veltre (Figlia di Valter)
Io sono una bambina di nove anni,e da quando ne ho tre,vado in moto con il mio papa’. Io non ho mai avuto paura perche’ il mio papa’ e’ un pilota molto prudente e sono certa che mai vorrebbe il mio male. A lui piace andare in moto e pure a me.
Quando ero piccola il massimo della strada che facevamo erano un paio di chilometri che ci dividevano dalla “casa del popolo” di Grassina dove insieme si mangiava un gelato e si tornava indietro, ora che sono piu’ grande da Firenze siamo anche arrivati a San Gimignano e Siena.
Il mio papa’ ogni volta che salgo in moto controlla se il casco e’ allacciato bene, se indosso i jeans imbottiti e se porto gli stivaletti, io all’inzio non volevo essere trattata come una bambola e piu’ volte ho fatto le bizze… a me non piace viaggiare con i guanti… ma papa’ ha ragione.
Oggi e’ un giorno speciale, perche’ papa’ mi comprera’ il primo giubbotto di pelle, nero bianco e rosso, quello che ho visto al mercato di san Lorenzo, tutto imbottito, pieno di cerniere e bottoni argentati. Non so quanto costa ma a me piace tanto.
Al mio papa’ piacciono le MOTO GUZZI e la prima volta che sono salita in sella mi ricordo di una moto grandissima tutta nera con un manubrio immenso e il rombo del motore che faceva scappare tutti i gatti del cortile. Poi ce n’e’ stata un’altra simile, ma il serbatoio
era tutto lucido, ora questa nuova, e’ nera e bianca, bellissima, moderna, con il cupolino, mi sembra che corra piu’ forte. Ma io non ho paura, quando raggiungo dalla Francia papa’ prendo l’aereo.

E’ mattino presto, il negoziante del mercato di san Lorenzo tira giu’ il giubbotto dallo stendino e io lo provo. E’ della mia misura. 85 euro dice. Il mio papa’ mi guarda e sorride…
Il mio papa’: ho 50 euro se per te vanno bene…
l mio cuore si stinge, perche’ io con questo giubbotto… ci dormo pure di notte…
Il negoziante guarda il mio papa’ e fa: questi piccoli costano di piu’…
Il mio papa’: e’ vero, ma ho solo 50 euro…
Il negoziante: ma che moto hai?
Il mio papa’: siamo Guzzisti.
Io: (SIAMO GUZZISTI!)
Il negoziante: allora va bene.vorra’ dire che quando la bambina crescera’ ci rifaremo con il prossimo.

Il mio papa’, dopo aver pagato: se a lei piacera’ ancora andare in moto…
Io, con il giubbotto indosso stringo forte la mano al mio papa’, non ci resta che fare via nazionale attraversare la stazione di santa maria novella, prendere i caschi che abbiamo lasciato nell’ufficio di papa’ raggiungere la moto all’angolo e partire. Ah dimenticavo, io mi chiamo Alysee e sono figlia di Valter e questa e’ la storia del mio primo giubbotto di pelle.

ciao

Piccole “bimbe” crescono

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di Lorenzo Cammunci

Cazzo se è freddo stamani, un freddo micidiale.
Massimo mi chiede di sbrigarmi, i funghi non possono attendere tutto il giorno…e mi prega di vestirmi pesante perchè non vuole sentir frignare, alle 5:00 nel bosco fa freddo.

Non vuole portarmici, non ama avere compagnia quando si dedica alle sue passioni per staccare un po’ la spina dalla routine. Come quando i pomeriggi di agosto , dove aver fatto “compagnia” alla famiglia si concede una gita col suo motore, di rado ci porta anche mia madre…solo in sella alla sua aquila….
Non appartiene a gruppi, stormi o branchi mio padre…è un falco solitario, un tipo burbero che non concede sorrisi a nessuno, ma da un cuore solido e fondamentalmente buono…….piccoli flash che mi riportano alla sua memoria….

La macchina arranca sulla collina, la macchina….una vecchia Niva 4*4 di estrazione russa, sembra debba collassare da un momento all’altro , ma arranca comunque orgogliosa e puntigliosa….trovare posto non è così difficile , nonostante la preoccupazione di Massimo di trovare altri “clienti”.
Solo un bastone gli fa compagnia , nella ricerca….mi chiede nonostante tutto di andare avanti, di fargli strada. Mi districo nel bosco in maniera goffa, non ci sono mai stato, non conosco la natura….lui da dietro ogni tanto borbottando mi dice di fermarmi….ne ha beccato un’altro….e così fanno già 3 porcini e 5 prataioli…..il mio cesto è vuoto, l’occhio di falco non perdona.

Massimo ad un certo punto inchioda….mi dice di fermarmi subito…..i suoi occhi sono rapiti da tutt’altra cosa che un accampamento di funghi….primo pensiero che ingenuamente mi suvviene. Ha visto qualcosa, ma non sa ancora bene cosa…..si butta nella macchia….con fiato ansimante…non l’ho mai visto così febbricitante…non è certo un tipo da rendere pubbliche le sue emozioni, non lo è mai stato, neanche con mia madre…almeno non davanti a noi. Torna fuori con la frase: “Lorenzo, vieni a darmi una mano….ho visto una stradina, magari con un po’ di fortuna e qualche colpo di paraurti riesco a portare qui la macchina!!”

Penso….”Ma che ha visto un cervo??”

No, non è un cervo…è un rottame, tutto bruciacchiato dal quale spunta una scritta inequivocabile da un cilindro….MOTO GUZZI…..è ridotto ad un stato pietoso, probabilmente rubata e abbandonata nel bosco….la targa dice Firenze….36….ecc ecc….anche discretamente giovane….per quel periodo.
Alle mie spalle, chiari rumori di frasche e alberi che cadono , mi fanno capire che la strada anche se non l’ha trovata, Massimo, è in procinto di
costruirla a suono di stridore di cinghia….e marcie ridotte ( nella Niva non c’erano , ma erano ridotte comunque) . Io sono praticamente inesistente….ha trovato un terzo figlio….io sono la manodopera necessaria per portare a compimento un sogno,….e farlo crescere….Mi corregge non è maschio, ma femmina…si tratta probabilmente di una Nevada…e a logica , dalla grandezza del cilindro di una Nevada 350. Per me è come sentir parlare arabo…d’accordo lui ha un California …ma per me è comunque arabo…io amo le moto da Cross…anche se per ora ho solo “portato” un Grizzli ..e un fifty TOP, massimo che ho fatto è stato cambiargli la marmitta con una Molossi.

Caricare il rottame a 2 ruote su quello a 4 è tutt’altro che semplice…ma niente potrebbe far desistere Massimo. Arriviamo a casa….mentre in auto è una tomba…..ogni tanto quarda dallo specchietto retrovisore come sperando in un movimento, un sussulto di vita…..io penso: “mio padre sta male, o quantomeno non è normale ora”.

In men che non si dica, in una settimana si presenta a casa con una persona, con la stessa luce negli occhi che possiede lui, ma di una 30ina di anni più vecchio….aprono il bandone del garage…osservano la Nevada, ancora bruciata, ancora morta…gli occhi del vecchio  uccicano….esordisce con “maledetti figli di troia”…..si gira a sinistra e vede il Cali…..”bellissimo!!!!” difatti lo è: Massimo lo lucida almeno una volta a settimana, con prodotti fatti arrivare dalla Germania….lo smonta e rimonta una volta al mese….sembra immacolato e ha circa 250.000 km….ancora segnato sul contakm vecchio stile….non quelli nuovi che a 100.000 ripartono da 0……. Il vecchio dice che gli piange il cuore ma non ha la possibilità di sistemarla…anche perchè possiede altri mezzi importanti….ma nel dirlo la chiama Bimba…….da lì il nome….Massimo si offre volontario e vanno all’ACI…, l’anagrafe delle moto per dichiarare il nascituro.

Si chiude in garage per giorni….chiamando a destra e a manca per i pezzi, i mercatini d’epoca e le rottamerie aprono i battenti alla sua foga, alla sua ricerca spasmodica di pezzi. Un giorno quando è a lavoro, scendo a curiosare….non sembra neanche lei….il motore è sul banco….ma il telaio e la carrozzeria…mio Dio….che moto bellissima….Massimo mi sorprende alla spalle…mi dice di andare al banco con lui….e mi spiega le leggi del motore a V, il bicilindrico, la carburazione….ma io non lo seguo…come faccio?? Non ne ho mai sentito parlare prima!!!….

Mia madre è incazzata di brutto, a scuola trascuro un po’ il lavoro, ma la sua preoccupazione maggiore è che possa diventare come mio padre , con questa passione per le moto…..lei non ci è mai voluta salire….fin’ora. All’arrivo di un nuovo fratello , anzi sorellina….ho riscoperto il piacere di avere un padre…..Massimo, che difficilmente scorderò anche se la sorellina in futuro non dovesse esserci più. Ho scoperto anche un altra gran cosa: anche Massimo sorride………

Mia madre ogni tanto mi chiede di portala a fare un giro……e ogni volta scende dalla moto coi lucciconi.

A distanza di 14 anni da quei giorni molte cose sono cambiate….la bimba che aveva 25.000 km…ha percorso un giro completo più altri 52.000 ….il conto totale fatelo voi. Mio padre, Massimo, che per me è stato un vero padre….soprattutto rendendomi partecipe di questa grande passione, ci ha lasciato 3 anni fa per una malattia che l’ha corroso…a tal punto che al primo anno di malattia ha venduto il Cali ….anzi rottamato credo….dopo una vita da invidiare: 325.000km.

Io torno in moto, nonostante le mie condizioni di salute non siano bellissime , e faccia cure devastanti…..ho fondato un motoclub per ricordarmi di lui….ho fondato un motoclub per diffondere questa mia passione verso altri…con i pro e i contro che trovo nella vita da motoclub purtroppo parlando. E’ la prima volta che racconto questa storia….non senza una punta sia di timidezza,amarezza,,ma anche di orgoglio….mi sento fortunato….oltretutto è una storia che avevo promesso ad amici come Rinaz, Valter, Stefano, Gennaro…e molti altri.

Come molti sanno “heaven”il mio california special ora è in officina per un brutto incidente fatto a dicembre….dal quale io ho smesso appena di riprendermi “piccolo viandante” è da una vita in fase di restauro la cara BIMBA…invece ha un problema più serio: dopo più di 170.000 km…la centralina è partita….se qualcuno ha quindi la possibilità di suggerirmi un posto ove averla usata…..sarebbe un amico…..per ora non posso comprarla nuova…non mi è concesso nel rispetto alla mi donna e alle spese che dobbiamo sostenere. Sono appiedato…che non si addice per un neo presidente di un motoclub….ma lo sono…..per ora tutto è fermo in attesa di essere riportato a nuova vita, anche col vostro sostegno…..per ora vi ringrazio di aver ascoltato la mia storia…..mi sono “addormentato” per un po’ , ma sto cercando di tornare presto in sella.

Approdo in Indonesia

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Approdo in Indonesia

di Uros Blazco

In questo terzo episodio, vi racconto un’altra tappa del giro del mondo in moto fatto da Uros Blasko, tratto dal suo terzo libro. Si tratta di un attimo di separazione tra Uros e la sua Moto Guzzi Quota, nel momento del loro trasferimento dalla Malesia all’isola di Sumatra. Si coglie in queste righe che seguono, il rapporto che un Motociclista, (Uros è un Motociclista con “M” maiuscola), ha con il suo destriero a motore, soprattutto nel caso in cui si trovi dall’altra parte del mondo solo con la sua moto.
Sostene Chiaranda

La conquista dell’isola esotica

Il mio programma d’itinerario è semplice: viaggiare da una isola all’altra. Da Sumatra a Java, poi a Bali e Lombok, e infine a Timor e in Papua Nouva Guinea, praticamente conquistare tutta l’Indonesia. Forse è un itinerario troppo audace, ci sono troppe cose che non conosco, ma vedremo che cosa mi riserverà il destino.
La barca si avvicina alla costa, all’orizzonte appare la linea verde delle palme. Subito tra il verde si vedono le palafitte, che sembrano dei ragni, davanti ci sono i moli e le barche dei pescatori. Tutto è costruito dello stesso materiale e colore; con assi di legno grigio. Più la costa è popolata e più si diradano le palme e rimangono solo le case. Ci stiamo avvicinando a Tebingtinggi, una località situata a nord-est dell’isola di Sumatra, sul mare di fronte alla Malesia, e dove ancora oggi ci sono “moderni pirati” che a bordo di veloci motoscafi attaccano le navi in transito per saccheggiarle e a volte uccidono tutto l’equipaggio. Qui non c’è altro che un porto piccolo e isolato, il molo doganale è composto da una piastra di cemento, legata tra dei pali di ferro. Il “visto” per l’Indonesia ce l’ho, ma non ho il permesso per l’importazione della moto. Mentre un poliziotto raccoglie i passaporti, sono molto preoccupato sul come si evolveranno le cose. Secondo la legge mi possono rimandare indietro in Malesia, ma, penso tra me: “Loro non sanno che possiedo una moto!”. La nave da carico con cui sta arrivando la mia mitica Guzzi Quota, si chiama Curniahu ed è ancora in mare e arriverà solo questo pomeriggio. Decido di fare il doppio gioco, prima mi dichiarerò un “normale” turista e dopo che avranno posto il timbro di entrata sul mio passaporto, allora dichiarerò che sono qui con la moto. Gli Indonesiani sono di pelle più scura dei Malesi e sono vestiti molto male, mostrano i loro denti rotti quando sorridono, non parlano inglese, e anche gli Ufficiali non hanno un aspetto molto curato. Siamo i primi passeggeri della giornata e dubito che oggi ce ne saranno degli altri. I viaggiatori del posto scesi con me dalla barca vengono subito lasciati andare, mentre io vengo portato immediatamente al posto di Polizia.

Aspettando la moto e i documenti

Il posto di Polizia non è la parola giusta, è una baracca aperta da tutti e quattro i lati, e così non hanno né problemi di mancanza d’aria, né di odore di chiuso! Gli Ufficiali parlano la loro lingua e preparano il tè, uno prende il mio passaporto e mi domanda qualcosa, ma non avendo capito niente di cosa mi avesse chiesto, non gli rispondo, e lui lo rimette sul tavolo. Non so di che cosa stiano chiacchierando. Una barca arriva al molo e qualcuno di loro gli va incontro per controllare i documenti, dopo ritorna e si siede. Mi offrono una tazza di tè e parlano tra di loro, come se io non ci fossi. L’attività nella baracca si svolge lentamente, “Perché nessuno si occupa di me?” penso, “In che razza di posto sono capitato? Cosa staranno aspettando questi?” Insomma, la preoccupazione riguardo al mio futuro cominciava ad aumentare!!! In attesa che qualcuno mi dica qualcosa di comprensibile, guardo l’acqua fangosa, e penso tra me “Siamo sul mare o sulle rive di un fiume?”. Non ho provato a sentire se l’acqua è salata o no, l’ultima volta che ho fatto un bagno in mare ero sull’isola Samui, in Tailandia, dopodiché ho guardato le onde del mare da lontano. L’oceano per me è solo un ostacolo tra due continenti, mentre alcuni ci vanno solo per il gusto di bagnarsi nelle sue acque. Penso tra me che andrò al mare quando ritornerò a casa, e porterò anche mia moglie Metka con me, o forse faremo un bagno già in Australia, dove lei mi raggiungerà.

Sono qui seduto da un’ora, non succede nulla, ufficialmente io non sono entrato in questo Paese, mentre materialmente ci sono già da un po’, che cosa faranno di me i Poliziotti ? Ad ogni modo, io sono a Sumatra, davanti agli occhi ho le immagini, come un bambino, di una giungla folta e piena di serpenti velenosi, dove i feroci Dajak scoccano le loro frecce con le punte avvelenate contro i loro nemici. Probabilmente oggi questo non succede più, almeno credo! Dell’Indonesia non so nulla e ogni chilometro di viaggio sarà una nuova scoperta. Mi vorrei dirigere verso il nord del Paese, anche se me l’hanno sconsigliato. A che distanza ci saranno le stazioni di benzina? Sarà transitabile quella strada segnata sulla carta e accetteranno le carte di credito? Ma soprattutto, che cosa diavolo stanno aspettando i Poliziotti? Si avvicina la sera e penso che è il 24 dicembre e domani è Natale, come lo potrò festeggiare in questo paese musulmano? Loro hanno già il loro Hari Raya (il loro anno nuovo), ma io, come posso spiegare che non ho nessuna voglia di passare le ferie alla Polizia, senza parlare la loro lingua? In Indonesia si parla il Bahasa, che è simile alla lingua Malese, ma ho imparato solo alcune parole, come: terima kasi – grazie, selamat pagi – buon giorno e tolong saya – ho bisogno d’aiuto. Ma come spiegargli: fate svelti, voglio andarmene da qui, quando potrò aver quel maledetto timbro sul passaporto ?!?! Cerco di fare due parole con un poliziotto, ma di tutto il suo discorso capisco solo la parola Curniahu. Ma, è il nome della nave che trasporta la mia Guzzi! Allora loro sanno che non sono a piedi e che sta per arrivare anche la moto! Ma come l’hanno saputo? Forse è per questo che mi stanno trattenendo, immaginano che sono qui con qualche mezzo di trasporto, e in attesa di capire che cos’è, non vogliono che vaghi liberamente per Tebingtinggi. Sia come sia, forse tutto andrà bene e mi riuscirà l’entrata dalla porta posteriore (un modo per dire di entrare in un Paese senza tutti i documenti in ordine). Vedo una nave che si avvicina, un poliziotto la controlla con un binocolo, ed ad un certo punto, grida: “Curniahu!”. Adesso tutti si danno un gran da fare, timbrano il mio foglio d’entrata e mi invitano di salire su uno scooter che mi porta per un chilometro lungo costa, dove c’è la dogana.

Rigorosa sorveglianza doganale

Entro in un grande hangar, il terreno fangoso finisce nel molo, dove c’è già la mia vecchia conoscenza, la nave da carico Curniahu. La vecchia nave di legno segnata dal tempo attracca al molo con calma. La cabina si trova dietro, e il carico davanti. E’ coperta da una quantità incredibile di sacchi rossi, e sembra un enorme gelato! Salgo sulla nave e cerco la mia moto, ma dappertutto ci sono solo sacchi! “Dov’è la mia moto?!” chiedo a un marinaio e lui punta il dito in mezzo al cumulo di sacchi. Intorno si radunano gli scaricatori con degli “stracci” sulla testa. Se li incontrassi a un posto isolato ed oscuro, mi farebbero paura. Gli “erculei” mi sorridono e mi raccontano qualcosa, che non capisco. Con il cuore in gola, provo a dirgli che la mia moto si trova in mezzo di mucchio di sacchi e loro mi fanno capire che non c’è problema, che sono qui giusto per questo, per scaricare i sacchi della nave. Mi chiamano nella baracca della Dogana, dove c’è una sola tavola. Sopra la tavola si trova un piatto di riso con del sugo. L’ufficiale mi invita a mangiare un po’ della sua cena e siccome è da ieri che non mangio, non me lo faccio ripetere. Mangiamo il riso con le mani, senza fermarci finché è finito, poi mi chiede i documenti. Li prende con le dita tutte unte e li mette nel cassetto, e cerca di spiegarmi qualcosa, ma non capisco assolutamente niente! Poi mi ricordo che il Capitano Amrizal parla inglese, abbiamo parlato ieri mentre caricavamo la moto. “Dove é il capitano?” chiedo invano, ma dopo poco nella baracca entra il Capitano Amrizal. “Dov’e la mia moto?” gli chiedo subito, lui mi risponde, che hanno prima caricato la moto e sopra 200 tonnellate di cipolla!!! “Ma non ti preoccupare”, mi dice, “La moto è al sicuro, è come un uccellino nel suo nido, come ti ho promesso.” Poi spiega tutto ad un ufficiale della Dogana, che poi timbra finalmente i miei documenti e me li restituisce. Così finalmente, la battaglia delle carte è finita, ora rimane solo da trovare la moto in mezzo a tutte quelle cipolle!!!!!!!

Alle undici della sera il mucchio delle cipolle è molto più basso e si comincia a vedere l’entrata della stiva. Anche sotto nella stiva è tutto pieno di sacchi. Il capitano non sa esattamente dove si trova la moto, perché al momento del carico non era presente. Supplico i facchini di scaricare i sacchi sul lato destro, ma la moto non si vede. Non si trova neanche nell’angolo sinistro, così comincio veramente a preoccuparmi. Sono le due di mattina, sono già partiti sei autocarri pieni di cipolle e sta per partire il settimo. Ma è mai possibile che la Moto Guzzi sia sparita ? “Non ti preoccupare”, mi dice il Capitano Amrizal e mi invita nel sua cabina per prendere un te, “Troveremo la tua moto di sicuro!” Alle quattro di mattina scorgo tra i sacchi qualcosa di nero. “Scaricate qui!”, grido agli uomini, e dopo qualche minuto appare la moto, al primo impatto mi sembra un po’ schiacciata, il viaggio sotto le cipolle é stato duro per la mia Quota. Il cavalletto laterale è rotto e così anche il parabrezza, il manubrio e gli specchi sono storti, le borse laterali sono piegate e la borsa porta-attrezzi è sparita! La mia gioia diventa rabbia, con il cavalletto in mano entro nella baracca, “Chi pagherà tutti questi danni?” grido ad un Ufficiale della Polizia. “E’ questo il modo di trattare il carico?” Lui mi calma facendomi gesti con due mani e chiama il Comandante per tradurre. “Sei stato presente tutto il tempo durante lo scarico della merce!” mi dice, “Abbiamo rubato noi la borsa con i tuoi attrezzi?” e poi, “Siamo stati noi a caricare la moto e sopra le cipolle? No! E allora non arrabbiarti con noi, rivolgiti ai Malesi!” Mi rivolgo al Capitano Amrizal, ma lui alza le spalle, e mi dice: “Ti ho detto che non ero presente al momento del carico. Calmati, insomma non è poi così grave come sembra. Per dire la verità avevo paura che si fosse rotto tutto quanto. Vai e mettila in moto, prima che sparisca qualcos’altro!” La mia Guzzi parte subito e il motore respira a pieni polmoni! L’appoggio contro il muro e saluto tutti quanti. Gli operai sono meno stanchi di me, e sono felici di aver finito il lavoro. “Aspetta” mi grida il capitano, “Dove vai a quest’ora? Puoi passare la notte nella mia casa e domani che sono libero da impegni di lavoro, andremo in un’officina per saldare il tuo cavalletto. Poi faremo un giro in moto!” Penso che sia una buona idea e dopo averlo ringraziato, gli chiedo: “Che cosa vuol dire Curniahu?”. E lui risponde: “Sai, il mio padrone si chiama Curnia. In una demolizione per navi, ha comprato l’intera flotta e ha chiamato le navi in ordine analfabetico. Questa, sotto il mio comando è l’ottava, e porta la lettera H.”

Un’Aquila in Sudamerica

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Un'Aquila in Sudamerica

Seguito de: “Il Cammello di Mandello” di Uros Blazko

Introduzione e traduzione di Sostene Chiaranda

In questa seconda puntata, Vi racconto alcuni episodi relativi al proseguo del viaggio di Uros e Metka con la famigerata Guzzi Quota nell’America del Sud, e precisamente in Peru’ ed in Colombia.
Anche in questo racconto metto insieme episodi ed aneddoti tratti dal libro scritto (in lingua Slovena) da Uros.

LA STRADA DELL’INFERNO
Sbarchiamo in America del Sud, siamo in Perù, e scambiamo quattro chiacchiere con un tassista e quando costui viene a sapere che è nostra intenzione andare al Lago di Titicaca, attraverso Puno ci dice: ”Ahi, ahi, ahi caramba! Lavoro e guido da dieci anni in questa zona, però lassù non ci sono mai stato e non credo ci andrò mai!”. A queste parole, io e Metka ci scambiamo uno sguardo, ma dopo qualche istante di silenzio, decidiamo di partire.
Dopo dieci chilometri l’asfalto non c’è più e poco dopo siamo sopra Arequipa; vediamo le cime delle montagne circostanti alla nostra stessa altezza, ma la strada si alza ancora.
Ad un posto di blocco un poliziotto, controllandoci i documenti, ci chiede: “Perché avete scelto questa strada?” “Perché, che c’è di male?” gli dico io, e lui mi risponde ridandoci i documenti: “Lo vedrete strada facendo!”
Ripartiamo carichi di perplessità e poco dopo ci ritroviamo a viaggiare in mezzo alle nuvole e i tubi di scarico e la coppa dell’olio motore sbattono di sovente sulle rocce. Sto guidando piano, in prima marcia; sulla nostra destra c’è un’enorme muro di roccia, mentre a sinistra, nascosto dalla nebbia, c’è un abisso. Di colpo sento un urto violento, e al tempo stesso un aumento della rumorosità del Guzzone, capisco al volo che si è staccato un tubo di scarico e perciò mi fermo nel tentativo di risistemarlo. In questo punto, avvolte dalla nebbia, ci sono cinque croci, sistemate in una maniera tale da dare l’idea di cinque persone in una macchina, che quasi sicuramente sono finite nel vuoto.
Penso tra me e me, “Questo posto mi fa paura” ma non dico niente a Metka, che al rumore di un camion in avvicinamento, gli corre incontro per avvertirlo che siamo fermi dietro la curva, in modo che non succeda qualcosa di simile a ciò che era accaduto a quelli delle cinque croci!

Risistemato lo scarico della moto, ci accingiamo a ripartire e in lontananza vediamo le montagne coperte di neve, mentre intorno a noi ci sono dei laghetti dove pascolano i lama, attorniati da cicogne ed altri uccelli. Arriviamo in uno dei vari villaggi di questa zona, tutti simili e composti da alcune “case” costruite con lamiere metalliche, alcune di queste sono “ristoranti” dove si può trovare del cibo caldo. Sul muro di una delle case c’è un cartello con scritto: “Vendita benzina”, esce un ragazzino e ci offre un bidone di plastica. Io gli rispondo: “Non ne ho bisogno!”, poi quasi istintivamente, controllo il serbatoio del Guzzone, e con mia grande meraviglia, vedo che è quasi vuoto! Capisco che su una strada così, viaggiando con marce basse, il consumo di carburante aumenta in maniera incredibile, ed è per questo che dappertutto ci sono cartelli che indicano la vendita di benzina. A quel punto, gli corro dietro, e dopo aver trattato il prezzo della tanica di benzina, concludo l’affare. Verso il carburante nel serbatoio del Guzzone, e via lungo questa strada d’inferno. Dopo cinque chilometri la moto incomincia a strappare e alla fine il motore si ferma. Incomincia una “via crucis” fatta di smontaggi e pulizie del filtro carburante e delle varie tubazioni, ma niente! Il ragazzo ci ha venduto benzina sporca, e questo aggiunto al fatto che siamo sopra i 4.000 metri di altitudine, fa si che la moto abbia perso parecchia potenza, e quel che è peggio è che la sporcizia che c’è nella benzina intasa il filtro carburante e il motore si ferma.
Dopo alcune ore passate a ripetere queste operazioni, giungiamo finalmente in un altro villaggio, dove troviamo un specie di “locanda” che reca la scritta “TODOS VUELVEN” (tutti ritorneranno), e dove c’è l’ennesimo cartello di vendita benzina. Buttiamo la benzina rimasta nel serbatoio, e ci riforniamo con del nuovo “liquido” che sembrava benzina, o almeno ne aveva l’odore. Ormai è tardo pomeriggio, la giornata è stata pesante e faticosa, è inutile andare in cerca di ulteriori avventure, ed il proprietario della locanda ci dice: “Tra poco sarà buio, l’aria si farà gelida e la temperatura scenderà sotto lo zero, potrete dormire nella locanda”. E così, dopo aver mangiato qualcosa di caldo, portiamo dentro anche il Guzzone al coperto e prepariamo i nostri “giacigli” per la notte. Il mattino seguente, dopo una rapida colazione, siamo pronti a partire. Il proprietario esce e ci dice: “Metti in moto e vai!” La moto “teneva” il minimo a malapena, ed il proprietario della locanda sembrava felice che la moto funzionasse.

Partiamo lasciandoci il villaggio alle spalle, il motore “gira” in maniera soddisfacente, ma dopo circa dieci chilometri, quando la temperatura del motore si è alzata, la moto si ammutolisce all’improvviso. Tra mille imprecazioni, ricomincio a soffiare nel filtro carburante e nelle tubazioni, ma invano, la moto rimane muta, e mentre maledico il proprietario della locanda, non so più cosa fare!
Ad un tratto sento un rumore, si avvicina un motorino. E’ un uomo che ha capito che eravamo nei guai, e sapeva anche il perché! “Ti hanno venduto una miscela di petrolio per lampade, in quel posto lo fanno sempre!”. L’uomo mi porge una tanica di benzina e dopo averlo pagato e ringraziato cento volte, ci salutiamo. Finalmente il motore “gira” con vigore nonostante l’altitudine, e il viaggio prosegue. Dopo alcuni chilometri trascorsi su un fondo impegnativo, ma con tranquillità, ecco l’ennesimo problema, e neanche lieve!
Mentre sto viaggiando ad una buona andatura, sento un “botto” e la moto si solleva per un istante, mi fermo e guardando verso il basso mi accorgo che sotto al motore c’è dell’olio. Ho centrato in pieno un sasso con la coppa dell’olio motore!
L’olio scende a terra, e così anche il mio morale, il danno sembra grave, ma non c’è nemmeno il tempo per disperarsi: io comincio a smontare la coppa dell’olio, mentre Metka ritorna a piedi al villaggio precedente a cercare dell’olio motore. Pulisco bene la coppa e poi, utilizzando dell’alluminio in pasta che mi ero fortunatamente portato appresso, riesco a ripararla. Io ho finito il mio lavoro, la coppa è rimontata, ma Metka non arriva! Dopo un’ora, arriva sbuffando, (a questa altitudine manca l’aria) e con il naso spellato dal sole. Questo inconveniente alla fine ci ha fatto perdere la giornata, e quando arriviamo al primo villaggio, Katy, a 4.340 metri di altitudine,è già buio. Grazie alla gentilezza del proprietario di una Locanda ci rifugiamo all’interno con la moto e dormiamo in mezzo ai tavoli.

Al mattino, nonostante il sole che brucia, fa freddo, e mentre “lotto” coi buchi sulla strada, penso: “Ci è accaduto di tutto, ormai che altro ci può succedere?”. La strada sale, siamo sulla sella dell’Alto Toroya a 4.700 metri di altitudine, questo sarà il punto più alto di tutto il viaggio. Dentro al casco, felice, penso: “Adesso che siamo arrivati fin quassù, siamo imbattibili, nulla ci può fermare!”. Il Guzzone avanza a fatica, noi respiriamo con difficoltà, all’improvviso la moto si ferma! Un brivido mi attraversa la schiena, non ci metto molto a capire che il problema è la pompa della benzina. Il piccolo componente si è stancato di “pompare” tutta la sporcizia che c’era nella benzina degli ultimi giorni!
Batto contro la pompa, nella flebile speranza che riparta, ma niente! Non si sente nessun rumore, all’infuori del vento che soffiava gelido. La pompa è sigillata, non si può aprire, e non ne ho una di scorta! Non rimane che provare a smontarla, la sera si avvicina, il sole ormai ha perso la sua forza, non possiamo passare qui la notte, la tenda non resisterebbe a questo vento e i nostri abiti non ci permettono di passare tutta la notte sotto zero. Se non riesco a sistemare la moto in un’ora, dovremo abbandonarla qui e cercare a piedi un rifugio per la notte!
Mi metto al lavoro, apro il corpo della pompa come una scatoletta, mi tremano le mani, non so bene se dal freddo o dalla paura di non farcela. Mentre controllo come è fatta internamente, la pompa mi cade ed escono rulli e rondelle… ”Quanti rulli c’erano? Le rondelle vanno sotto o sopra? Se riesco a far ripartire la pompa, come farò a sigillarla?”. Questi pensieri mi attanagliano la mente.
“ Ci vorrà molto?” mi chiede Metka, ignara delle mie paure, “Ho freddo!” “Ancora un attimo”, le dico facendomi coraggio! Aiutandomi con un lamierino, della pasta per guarnizioni e delle fascette metalliche, metto insieme rulli e rondelle e riesco a richiudere la pompa, adesso è arrivata l’ora della prova cruciale.
Prima di collegare i fili alla pompa, guardo verso le montagne il sole che si spegne, mentre il vento freddo mi gela il cuore e intanto penso: “ Funzionerà ???”. Da questo dipendeva se avremmo camminato o se avremmo potuto riprendere la strada in groppa al Guzzone.
Collego la pompa, giro la chiave, la vita mi scorre tra le dita, un getto di benzina mi bagna i pantaloni!! “Evviva” un urlo seguito dall’eco si espande tra queste montagne.
Riprendiamo il viaggio, dentro il casco urlo, canto, sono al settimo cielo! Ormai è sera e finalmente ritroviamo l’asfalto, la strada dell’inferno è finita!
Sono così felice che mi fermo, scendo dalla Quota, e lasciandomi cadere sulle ginocchia, bacio il terreno come fa il Papa in terra straniera! E’ stata molto dura, per fare 224 km ci sono voluti tre giorni interi!

COLOMBIA
Dopo l’attraversamento dell’Ecuador, ci apprestiamo ad attraversare il confine con la Colombia; un soldato al posto di controllo guarda la foto sul mio passaporto, “Questo nella foto sei davvero tu? Allora dimmi il numero del tuo passaporto!”. Per fortuna che con tutte le volte che l’ho trascritto sui vari documenti me lo ricordo a memoria. Il soldato dopo questo “controllo”, mi restituisce i documenti, e senza un minimo sorriso ci augura buon viaggio. Arriviamo a Pasto, nel sud del Paese; la strada in questo punto sale e scende dalle montagne e l’ambiente è molto diverso da quello degli ultimi giorni, intorno a noi non ci sono rocce o paesaggi aridi, ma una fitta giungla. L’acqua scende dappertutto, dei torrenti attraversano la strada e noto moltissimi autolavaggi, dove si fermano soprattutto gli autocarri, che quando escono da queste boscaglie non si sa neppure di che colore siano realmente. Questi autocarri sono di produzione Americana, di molti anni fa, e dai loro tubi di scarico sprigionano un fumo denso, e questo fumo ci permette di sapere in anticipo, viaggiando in mezzo alla vegetazione fitta, che troveremo a breve un altro autocarro da sorpassare.
Ad un certo punto, tra le foglie delle palme, vediamo del fumo, ma questa volta non è di un autocarro, bensì quello di una trattoria! Col tempo abbiamo capito che anche qui vale la regola che se nel parcheggio della trattoria ci sono alcuni camion, la cucina è ok.
Qui in Colombia il cibo è migliore di quello del Cile o dell’Ecuador, ed è molto piacevole fermarsi a mangiare in una di queste trattorie lungo la strada.
Nelle trattorie e nei ristoranti si preparano tanti tipi di carne; a volte le mangiamo senza neanche sapere da quale animale provenga. Gli Indiani nella giungla si nutrono con carne di scimmia, di tapiro, di vari uccelli e altri animali esotici. Da queste parti una carne molto prelibata è quella di tartaruga, ma noi non abbiamo avuto l’occasione di assaggiarla, e nella maggior parte dei casi troviamo da mangiare carne di maiale o di pollo. Al posto del pane qui usano delle pagnotte di farina di tapioca chiamati “arepa”. Abbiamo trovato molto buona una piatanza fatta con farina di granoturco, mescolata con pezzi di carne, uova e zucchero, cucinata al forno o in padella. Un’altra “specialità” sono le formiche lunghe un paio di centimetri che si friggono nell’olio e si mangiano come “chips” (patatine). Qui si mangiano varie insalate, ma quelle che più ci attirano sono quelle di frutta: in Colombia cresce più del 50% delle specie di frutta del mondo e nemmeno i Colombiani le conoscono tutte! Ogni giorno proviamo qualcosa di nuovo e di strano, i gusti di questi cibi sono incredibili. Esistono sei tipi di banane, che vengono fritte, stufate e perfino cucinate in una specie di brodo. In Europa vengono esportate le banane più grandi e dai colori pi ù belli, ma prive di sapore.
NELLE ZONE DELLA GUERRIGLIA
Siamo sempre nel sud della Colombia, a Popayan; la popolazione locale è composta in prevalenza da Indiani, li vedi per strada a piedi o a cavallo. Un pastore con le sue vacche ci viene incontro e ricambia il nostro saluto. Poco più avanti all’ombra di un albero enorme ci sono alcuni uomini che guardano i passanti, portano dei “macete” alla cintura, decorati con nastri di cuoio colorati; quasi tutti hanno stivali di gomma e cappelli a tesa larga. Sono troppo curiosi per lasciarci in pace, ci fermano e cominciano a farci varie domande. “Da dove venite?” ci chiede uno di loro, “Dalla Slovenia” gli rispondo io, sicuro che mi chiederanno dov’è mai quel Paese, ma lui mi dice subito: “Anche voi avete una guerra come la nostra!”. La cosa mi ha lasciato senza parole, non avrei mai immaginato che questa gente, coi problemi che ha, fosse così informata dei fatti di casa mia!
Proseguiamo il viaggio, noto che ad ogni entrata e uscita dei villaggi ci sono dei posti di guardia, e circondati da sacchi di sabbia, ci sono soldati con le mitragliatrici. Sono preoccupato, spero che nessuno ci crei problemi, ma poi noto che le mitragliatrici sono puntate verso la giungla, e i soldati sono seduti sull’erba, visibilmente annoiati. Ci fermiamo a riposare il fondo schiena e a bere qualcosa in un’osteria, e chiediamo alla proprietaria informazioni riguardo i soldati nelle postazioni. “Sono soldati del Governo” ci dice mentre ci porta un paio di birre, “Gli uomini della Guerriglia controllano tutto il territorio, tranne la strada. Il Governo la ritiene importante, e vuole che il traffico si svolga senza problemi da nord a sud, per questo ha mandato tanti soldati.”
Tra me pensavo: siamo a posto: sulla strada, della nostra sicurezza se ne occupa l’Esercito del Governo, mentre nella giungla se ne occupano gli uomini della Guerriglia! I Colombiani sono abituati a convivere con la guerra, ci abitueremo anche noi.
Dal posto di guardia arrivano due soldati, li invito a bere una birra con noi, loro accettano volentieri, si siedono con noi e uno di loro fa un cenno ai suoi compagni per avvisarli che è tutto a posto.
L’altro ci dice: “Siamo armati così bene, che i guerriglieri non si faranno vedere!”.
Il tempo passa, le bottiglie di birra si svuotano, e i due soldati ci raccontano cose molto interessanti.
“In Colombia combattono tra loro tre Forze Armate; l’Esercito del Governo, la Guerriglia (che è divisa a sua volta in tre gruppi) e le Forze Paramilitari. Tutti portano la stessa uniforme, infatti queste vengono rubate da un gruppo all’altro, a distanza non riesci a distinguere di quale gruppo si tratti, e quando ti fermano è troppo tardi!” “Ma come fate a distinguervi tra di voi?” gli chiedo io, “Ogni gruppo usa una parola d’ordine, che viene cambiata ogni settimana, e poi usiamo dei soprannomi per nascondere la nostra vera identità, Guerriglieri e Paramilitari fanno la stessa cosa”.
“Per voi io sono Vasquez e il mio amico Valdez, ma i nostri veri nomi non li saprai mai!”.
Da dietro i sacchi di sabbia delle postazioni, si sentono i fischi degli altri soldati che hanno sete, e allora Vasquez e Valdez ci ringraziano e salutandoci, portano da bere ai loro compagni.
Sorseggiando l’ultima birra, penso come dev’essere dura convivere con una guerra che dura da più di trentanni!
Dopo qualche altro giorno passato tra la giungla e villaggi Colombiani, arriviamo alla nave che ci porterà in Panama, e poi in moto in Nicaragua attraversando il Costa Rica.
Da qui, piccolo trasferimento aereo fino in El Salvador e poi via col Guzzone in Guatemala, Messico, Texas, Louisiana, Mississippi, e su fino a New York, dove carichiamo il Guzzone sull’aereo che ci riporta a casa.
E’ stato un viaggio affascinante ed infernale, che ci lascerà ricordi ed emozioni indelebili, e mentre l’aereo decolla, sto pensando che un giro in Asia …

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