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Conferenza tenuta dall’Ing. Giulio Cesare Carcano

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Le Moto Guzzi da corsa degli anni cinquanta, da uno a otto cilindri
Conferenza tenuta dall’Ing. Giulio Cesare Carcano il 5 novembre 1988 al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica, Milano. Monografia Aisa 4
Grazie a Lorenzo Boscarelli dell’AISA (Associazione Italiana della Storia dell’Automobile)

 

Parlare dei tempi trascorsi alla Moto Guzzi e, particolarmente, delle moto da corsa, è per me un onore e un piacere. Il tema riguarda le Moto Guzzi degli anni ’50, ma ritengo utile premettere una breve carrellata su quello che erano le Moto Guzzi da corsa prima degli anni ’50, ma con ricordi non così diretti per il periodo anteriore al 1936, anno in cui cominciai a lavorare alla Moto Guzzi.

Fin dagli inizi, la Moto Guzzi fu caratterizzata della originalità delle sue soluzioni, originalità spesso felice, qualche volta meno, ma certamente fu una macchina che precorse i tempi, basti ricordare il Campionato d’Europa del 1924, vinto a Monza dal compianto Nino Mentasti, per capire come allora la Moto Guzzi precorresse i tempi. Infatti, quel motore monocilindrico aveva la distribuzione monoalbero a quattro valvole in testa, la lubrificazione forzata con doppia pompa di mandata e recupero, soluzioni che sarebbero divenute di uso generalizzato sulle altre motociclette solamente molti anni dopo. Aveva, inoltre, la biella tubolare, un piccolo capolavoro di lavorazione meccanica, se pensate che questa era forgiata piena e poi forata.

La moto usata da Mentasti per aggiudicarsi il Campionato d’Europa era particolarissima perché non aveva cambio. Mentasti, infatti, aveva provato con il cambio a tre velocità comandato a mano, come si usava allora, ed aveva constatato che poteva girare a Monza in presa diretta senza usare il cambio, con qualche inconveniente nei punti in cui il cambio si sarebbe rivelato utile, per esempio alla partenza o alla prima curva di Lesmo; ma, a prove fatte, decise di correre quella corsa con la macchina in presa diretta ed, infatti, nei primi giri, pagò qualcosa in tempo e distanza per la difficoltà ad entrare in velocità con una moto di quel genere senza cambio.

Un fatto curioso è che lui si permetteva di circolare per le strade di Mandello e di andare al caffè con questa macchina senza cambio, che solo lui riusciva e a far partire e a governare, tant’è che nessuno degli altri corridori usò mai una macchina di quel tipo senza cambio.

Negli anni successivi, va ricordato il trionfo della Moto Guzzi nel 1935 con Stanley Woods all’isola di Man, quando, per la prima volta, una motocicletta da corsa utilizzò su quel circuito il telaio elastico, per altro già adottato su qualche moto civile, ma il cui impiego su moto da competizione era praticamente inesistente. Stanley Woods era uno specialista del Tourist Trophy, che vinse la bellezza di 14 volte. Si trattava di un circuito difficilissimo che, quando vi andai per la prima volta nel 1950, mi lasciò esterrefatto per la possibilità di ottenere medie così elevate su una strada con fondo asfaltato, ma molto granuloso ed ondulato, sulla quale quindi l’andatura della macchina, specie nei tratti veloci, era molto incerta ed inoltre con la caratteristica pericolosissima della continuità di muretti di pietra che fiancheggiavano la strada. Se un pilota cadeva dalla moto, si faceva veramente male ed era fortunato se poteva raccontare la sua caduta. Ho visto delle abrasioni e delle mutilazioni impressionanti provocate da cadute su quel circuito, che ha il triste primato di 130 centauri che hanno perso la vita in corsa o durante le prove.

Nel 1937, due anni dopo la vittoria di Woods, Omobono Tenni compiva un’impresa memorabile con la 250, vincendo la sua categoria, primo corridore “straniero” ad aggiudicarsi una prova nel Tourist Trophy. Tra le moto degli anni ’30 va ricordata anche una quattro cilindri di 500 cc con compressore, raffreddata ad aria, costruita nel 1931, una macchina che, in pratica, non corse mai; avrebbe, infatti, dovuto correre il Gran Premio di Mona, ma fu ritirata prima di correre. Il motore era ad aste e bilancieri, con teste di ghisa, molto pesante, non facilmente guidabile, e con una potenza non sufficiente per controbattere la Norton che, allora, era la macchina all’avanguardia e che, infatti, si aggiudicò quel Gran Premio delle Nazioni con Piero Taruffi.

Nel 1932, Carlo Guzzi ebbe l’idea di costruire la bicilindrica a V di 120°, utilizzando due cilindri della 250 cc ad asse a camme in testa, nata nel 1927, che aveva dato prova di avere un ottimo motore sia dal punto di vista del rendimento che della tenuta. Questa macchina di 500 cc è stata una di quelle che ha più resistito all’usura del tempo come macchina da corsa e, infatti, dal 1932, con modifiche successive che hanno interessato telaio, testate, ecc. ma mantenendo sempre lo schema originario, restò attiva fino a dopo il 1950.

Prima della guerra, era consentito l’uso della sovralimentazione ed il problema che ci si era posto alla Moto Guzzi era quello di avere qualcosa di efficace per controbattere la Rondine, costruita a Roma dalla C.N.A. ad opera dell’Ing. Gianini, poi diventata Galera con una storia strana che non tutti conoscono, nel senso che ci furono delle trattative tra la C.N.A. e la Guzzi per l’acquisto di quella macchina, ma Carlo Guzzi pose un veto su questa ipotesi di accordo perché non concepiva che esistesse una Guzzi che non fosse progettata alla Moto Guzzi; e così la Rondine finì alla Gilera ottenendo i successi che tutti ricordano, grazie anche alle successive elaborazioni, prima col compressore, poi senza compressore. Alla Moto Guzzi ci si pose, quindi, il problema di avere qualche cosa di efficiente da contrapporre a questa macchina. Carlo Guzzi prima della guerra aveva messo in cantiere due soluzioni entrambe sovralimentate: la prima era una tre cilindri in linea a doppio asse a camme in testa e compressore Cozette. Questa macchina fece la sua apparizione sul circuito di Alessandria ed all’ultima corsa di campionato a Genova con Sandri, ma si rivelò molto pesante ed ingombrante e, probabilmente, non avrebbe potuto essere sviluppata ulteriormente.

L’altra soluzione che era stata studiata consisteva in un motore bicilindrico a V di 120°, sempre sullo schema del noto bicilindrico raffreddato ad aria, ma raffreddato a liquido e dotato di compressore. Questo motore fu provato in sala prove con risultati soddisfacenti, però venne giudicato troppo ingombrante, cosicché non venne nemmeno realizzato un telaio in grado di accoglierlo e non scese mai in pista. L’idea di raffreddare a liquido un motore di quel genere sovralimentato era buona nel senso che le precedenti esperienze fatte nel 1931 con la quattro cilindri raffreddata ad aria ed anche col tre cilindri successivo avevano dimostrato come il raffreddamento ad aria di un motore sovralimentato fosse un problema di non facile soluzione.

Questo, sinteticamente, fu quanto avvenne in campo sportivo alla Moto Guzzi negli anni anteriori al 1936, quando vi entrai come dipendente. Mi sembrava di aver realizzato un sogno; infatti, fin da bambino, io vivevo a Mandello d’estate, ero diventato molto amico di Ulisse, figlio di Carlo Guzzi, e ricordo che con lui andavano di straforo in motocicletta quando ancora avevamo i calzoni corti.

Il successo della Moto Guzzi nel Tourist Trophy 1935 mi aveva particolarmente colpito ed era stato per me veramente un piacere il fatto di poter entrare nell’azienda, finito il servizio militare, nel 1936. I miei primi lavori riguardarono le forniture di motociclette all’Esercito; venivano realizzate moto a telaio elastico, alcune potevano montare anche la mitragliatrice, ed un motocarrino anch’esso con possibilità di portare la mitragliatrice. Molti progetti venivano portati avanti per i militari, tra i quali ricordo l’attuale generale Garbari, allora giovane tenente, che ci proponeva nuove idee.

Dal 1936 al 1940, erano già in auge le corse per i corridori di seconda categoria, prevalentemente sui circuiti cittadini, organizzate dai vari MotoClub, e a quelle corse partecipavano corridori che avevano una macchina propria. Ricordo che allora la 500 in vendita di tipo sportivo adatta a queste corse era il tipo “C”, derivato dal tipo “W”, che si distingueva per il doppio scarico e quattro marmitte; era una macchina relativamente poco potente e molto pesante, che per questo non ebbe grande successo. Uno dei miei primi lavori in campo sportivo alla Moto Guzzi fu di derivare da questa macchina il “Condor”, che era una 500 cc ad aste e bilancieri, che arriva a dare 27+28 cavalli, a 5000 giri, pesava 130 Kg e risultava molto più maneggevole e meglio frenata della tipo “C”.

Ricordo una corsa che ebbe per me un particolare rilievo: il Circuito del Lario del 1939. Si trattava, come gli anziani ricordano, della corsa di casa, perché disputata proprio sull’altra sponda del lago su un circuito stradale impensabile ai giorni d’oggi, con gran parte del fondo non asfaltato, spesso con ghiaietto, sul quale era difficilissimo guidare una macchina molto potente. Questo circuito ci aveva insegnato negli anni precedenti come macchine di potenza inferiore, ma più maneggevoli, fossero avvantaggiate e a tale proposito ricordo le vittorie della Bianchi 350 di Nuvolari e di Prini con la Moto Guzzi 250. Macchine meno potenti delle Norton e delle Sunbeam a delle stesse Moto Guzzi nella classe maggiore, potevano, su questo circuito, sperare di ottenere la vittoria assoluta.

Il Circuito del Lario del 1939 si presentò per noi con una scelta da fare: allora si poteva correre col compressore ed il carburante era benzina o benzolo e noi avevamo una 250 monocilindrica molto a posto, molto competitiva, con la quale si poteva sperare di vincere il circuito nella massima categoria. L’avversario da battere era la Gilera 4 cilindri compressore, affidata a Dorino Serafini, prima guida Gilera, che era un pilota molto adatto ad una macchina di quel genere. Ricordo che, con Nello Pagani e con il “Condor”, godevo di pochissimo credito nella stessa Moto Guzzi, perché c’era moltissima gente che riteneva impensabile che, con una macchina di 28+30 cavalli, si potesse competere con una macchina di potenza doppia o più che doppia, sia pure su un circuito non molto veloce, ma dove la stabilità e la maneggevolezza contavano molto. Devo confessare che io stesso avevo qualche dubbio e ricordo che più volte Pagani ed io andammo al mattino presto sopra Civenna in un punto dove si poteva cronometrare il tempo impiegato da Civenna al Ghisallo e, con mia sorpresa, vidi che Pagani in quel tratto, soprannominato “le scale del Ghisallo”, era in grado non solo di non perdere, ma di guadagnare qualche secondo sui rivali più agguerriti. Tenni non poté partecipare a causa delle conseguenze di una rovinosa caduta che aveva avuto durante le prove, Sandri corse e vinse con la 250 compressore, ma la corsa fu memorabile per il duello a distanza (le partenze al Lario erano separate) tra Pagani e Serafini.

Pagani riuscì a vincere con il “Condor” il Circuito del Lario, l’ultimo che fu disputato stabilendo anche il record sul giro.

Questo fatto tecnicamente fu molto importante perché mi convinse che la sola ricerca della potenza massima nei motori era una via pericolosa, talvolta necessaria, ma che non bastava disporre del motore più potente per vincere su tutti i circuiti; era altrettanto importante disporre di una macchina che fosse ben frenata, stabile, facile da guidare, e che avesse in definitiva tante qualità più facilmente ottenibili su di un mezzo leggero che su uno pesante.

Ricordo ancora l’ultima corsa disputata prima delle guerra, a Genova, dove venne schierato, dopo il debutto avvenuto ad Alessandria poche settimane prima, quel tre cilindri con compressore di cui ho già parlato. In quella corsa s’impose Ferdinando Balzarotti, che proveniva dalla seconda categoria, e che divenne così un corridore ufficiale Moto Guzzi per i Gran Premi.

 

IL DOPOGUERRA

Durante la guerra, alla Moto Guzzi cessarono le prove e gli esperimenti e, alla ripresa, la formula venne cambiata, il compressore non era più ammesso nelle competizioni e, quindi, fu necessario rifarsi una mentalità. Risale a quell’epoca il mio incontro alla Moto Guzzi con due validi collaboratori: il “Moretto” Agostini, conosciuto su tutti i campi di corsa, mancato nel 1988, all’età di 87 anni, che era il capo dei motoristi e dei meccanici del reparto corse, e Carlo Bacchi, forse meno noto all’esterno, ma molto bravo nello sviluppo dei motori sia normali che da competizione, che vive tutt’ora a Lecco.

Nel 1945, ricominciarono le competizioni con i circuiti cittadini, praticamente si correva ogni domenica, specie nell’Emilia Romagna, dove la passione per la motocicletta non era mai venuta meno. Il primo lavoro che feci nel dopoguerra fu una elaborazione del “Condor”, che venne un po’ alleggerito e potenziato, arrivando a 28+30 cavalli, a 5000 giri. La moto così modificata prese il nome di “Dondolino” e, con le successive modifiche, arrivò ad avere 31+32 cavalli a 5500 giri. Devo ricordare brevemente il Gran Premio delle Nazioni corso a Milano attorno alla Fiera campionaria nel 1946, che fu, a mio parere, una corsa notevolissima perché gli organizzatori ebbero l’adesione della Norton che iscrisse Harold Danieli e Bell, famosi campioni, della Gilera che schierava sulla 4 cilindri Bandirola, passato anche lui dalla seconda alla prima categoria, ed il “Saturno”, macchina monocilindrica elaborata nel dopoguerra dall’ing. Salmaggi, che ne era il padre, che era la classica antagonista del nostro “Condor” sui circuiti di seconda categoria.

Gareggiavano per i colori della Moto Guzzi tra gli altri: Balzarotti, che portava in corsa il Gambalunga – che era un’ulteriore evoluzione del “Condor”, con un telaio più leggero, una nuova forcella, dei freni più efficienti – e Lorenzetti, per il quale alcuni mi rinfacciavano una simpatia smodata. Lorenzetti l’avevo conosciuto prima della guerra; lo ricordo nella prima corsa della stagione 1937, ai primi di marzo a Verona in occasione della fiera dei cavalli. Lorenzetti allora aveva una Triumph 250, una macchina minuscola, molto piccola per lui, molto alto e magro; subito mi impressionò il suo stile di guida e il suo modo di ragionare, raro per un corridore. Lorenzetti normalmente partiva male, faceva i primi giri perdendo qualcosa sui primi, poi trovava la possibilità di riguadagnare, si avvicinava nel finale e, nell’ultimo giro, vinceva. Spesse volte vinceva non per merito suo ma per errore degli altri. Un corridore che si trovava in testa, quando gli veniva segnalata la rimonta di questo strano avversario, era indotto a sbagliare. Lorenzetti era strano perché allora la mentalità era certamente diversa da quella dei corridori attuali e lui fu il primo corridore “razionale”. Già prima della guerra, Lorenzetti aveva acquistato una 250 ed una 500 che si metteva a punto da solo, con il nostro aiuto saltuario, ed era caratteristico l’arrivo sui campi di gara di Lorenzetti con il suocero, che gli faceva da meccanico, seduto sul parafango posteriore della moto da corsa, portando con sé una cassettina con dentro non si sa cosa e che, arrivato sul posto, prendeva i tempi e faceva tutto il necessario.

Questa caratteristica figura di Lorenzetti ebbe la sua conferma negli anni ’50, quando divenne l’uomo di punta della Moto Guzzi, e collaborò con noi sia nella preparazione delle macchine che come corridore, ottenendo diversi campionati italiani, il campionato del mondo della 250 e molte vittorie internazionali. Tornando alla corsa disputata attorno alla fiera Campionaria, questa fu caratterizzata dal fatto che, contro gli inglesi della Norton, noi avevamo schierato Freddie Frith, un grande campione, cui era stata affidata la bicilindrica. Questo corridore era stato ingaggiato dal nostro presidente Giorgio Parodi, ma gli inglesi non si trovavano bene sui nostri circuiti cittadini, molto diversi dalle piste sulle quali erano abituati a correre e così né Daniell né Frith fecero nulla in questa corsa, che fu accesa da un iniziale duello furibondo tra Tenni con la nostra bicilindrica e Bandirola con la Galera 4 cilindri.

I due si scontrarono così irruentemente che, dopo un terzo di gara, si trovarono fuori entrambi e Balzarotti, che seguiva col Gambalunga, presa la testa. Lorenzetti era in 4° o 5° posizione, essendo partito male come suo solito, ma stava rinvenendo. Continuando a recuperare, al penultimo giro passò a mezzo secondo da Balzarotti e, quindi, ci si aspettava un arrivo tra i due drammatico; di fatto, però, Balzarotti, sotto pressione per resistere all’attacco di Lorenzetti, cadde nella curva di fronte all’ingresso principale della Fiera, Lorenzetti riuscì a non investire Balzarotti, ma non riuscì ad evitare la motocicletta, cadde anche lui, dovette rialzarsi e rimettersi in condizioni di ripartire perdendo secondi preziosi e così la corsa fu vinta da Artesiani sul “Saturno”.

Tra i piloti che meglio conobbi, debbo ricordare Omobono Tenni, un uomo che aveva due caratteri, assolutamente contrastanti. C’era il Tenni giù dalla motocicletta, che era un uomo pieno di buon senso, un ragionatore, un calmo, ed il Tenni sulla motocicletta, che era assolutamente irriconoscibile, era un uomo che doveva andar forte in qualunque condizione. Ho parlato tante volte con lui e ricordo che una volta mi disse: “Tu pensi che la gente vada a vedere le corse in motocicletta per vedere se vince Moto Guzzi o Gilera? No..! la gente va a vedere le corse perché vuole vedere andar forte, quindi uno che è davanti e va piano tradisce il pubblico, e quindi un “campione” deve sempre dare il massimo, anche se perde la corsa, anche se va contro il proprio interesse”. A questo proposito va ricordata una gara di Campionato Italiano, corsa a Bologna attorno ai giardini di villa Margherita, nel corso della quale ci fu una terribile battaglia tra quattro Moto Guzzi con compressore e tre Benelli, battaglia che fece una quantità inopinata di vittime perché della squadra Guzzi arrivò solo Tenni. Infatti, Sandri, che era di Bologna, non voleva assolutamente cedere ad Omobono Tenni e nella battaglia iniziale cadde e fu eliminato; Pagani, che era la giovane speranza del motociclismo italiano, da poco arrivato alla Moto Guzzi, voleva restare con Tenni, ma con Tenni era difficile restare e così anche lui cadde; Alberti era solo preoccupato di non disturbare Tenni quando lo avrebbe doppiato; questo dava un’idea del carattere del nostro uomo di punta. Per la Benelli correvano Soprani e Rossetti. A un giro dalla fine erano rimasti in corsa solo Tenni e Soprani ma Soprani stava per essere doppiato da Tenni. Malgrado tutte le nostre segnalazioni, ignorate da Tenni, questi doppiò Soprani in corrispondenza del cancello d’ingresso dei giardini di Villa Margherita, passandolo all’interno e non toccandolo credo per un centimetro. Se si fossero toccati sarebbero probabilmente saltati per aria tutti e due; potete immaginare con quale consolazione di tutti noi della Moto Guzzi.

Tenni era veramente un uomo coraggiosissimo e un irriducibile. Per lui non esistevano problemi di stabilità; non l’ho mai sentito lamentarsi perché la macchina era poco stabile o poco frenata. Lui aveva solo bisogno di avere “del motore” e di “camminare” e, infatti, “camminava” sempre e questo gli è costato tante volte la perdita di tante gare già vinte. Però, per questo suo modo di correre, aveva, come facilmente intuibile, un ascendente enorme sulle folle, che lo adoravano. Tenni morì in Svizzera a Berna, nel circuito del Bremgarten, in prova, nello stesso tragico giorno, il 1° luglio 1948, in cui perse la vita anche Achille Varzi. Io quella volta non c’ero, ero a Roma per forniture militari, e la telefonata che mi pervenne con quella notizia mi addolorò profondamente. Tenni è rimasto nel cuore di tutti i vecchi della Moto Guzzi ed ancora oggi tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo lo ricordano con tanta simpatia.

Negli anni successivi, mentre la 250 con successive evoluzioni, da “Albatros”, era diventata “Gambalunghino” ed era arrivata ad avere 29+30 cavalli a 8000+8500 giri, si profilava la minaccia tedesca con la NSU bicilindrica, che aveva certamente più potenza e disponeva di uno squadrone di ottimi corridori, e questo ci fece pensare che l’era del glorioso monocilindrico 250 stesse per finire.

Per tentare di migliorare la nostra posizione, nel 1948, fu realizzato un bicilindrico, riprendendo un progetto di prima della guerra, per il quale era stata prevista la possibilità di montare il compressore.

Questa macchina, che però era poco più potente del monocilindrico, fece poche apparizioni, vinse un Tourist Trophy nel 1949, dopo di che fu abbandonata perché non vedevamo possibilità di ulteriori sviluppi.

 

IL TOURIST TROPHY

Nel 1950, Giorgio Parodi finalmente mi convinse ad andare al Tourist Trophy. Io non ci ero voluto andare, con sua grande meraviglia, per le ragioni che avevo già esposto. In quella prima occasione vidi, nel corso delle prove che svolgevano alle quattro della mattina perché la strada era chiusa al traffico, per la prima volta un grandissimo campione della Gilera: Geoff Duke, all’epoca sconosciuto a livello internazionale.

Va ricordato che il Tourist Trophy è un circuito ad andamento misto, con una parte bassa pianeggiante ed una salita che porta alla cima di una montagnola cui segue una discesa pericolosissima sia per la pendenza che per il fondo stradale molto ondulato con curve da percorrere a 170 km/h tra due muretti di pietra.

La prima volta che vidi Duke fu in prova, lungo quella discesa che ho descritto, e davanti a lui c’era Artie Bell, allora considerato il corridore di punta della Norton e senz’altro il più veloce della squadra Norton. Io vidi Duke seguire Bell, che stava facendo cose incredibili con quel fondo e su quel circuito, e rimasi talmente impressionato che prognosticai a Parodi che il giovane Duke, salvo incidenti, avrebbe vinto facilmente il Tourist Trophy nella 500, e che, per la nostra bicilindrica allora guidata da Foster, ottimo corridore inglese, le possibilità erano assai scarse. Infatti quella corsa fu un’esibizione spettacolosa di Duke che, partendo con il n° 57 (le partenze al Tourist Trophy erano a coppie ogni 30”), si permise di superare tutti quelli partiti davanti a lui e di arrivare, quindi, primo anche in tempo reale; e questo dopo 426 km di corsa, dando una dimostrazione chiara di capacità e potenza.

Infatti, il seguito della carriera di Duke dimostrò che era un raro esempio di corridore veloce, coraggioso e ragionatore, che contribuì non poco con le sue doti ai successi della Gilera nel Campionato Mondiale.

 

IL QUATTRO CILINDRI

La situazione della nostra 500 era, però, quella che era: non potevamo pretendere che la gloriosa bicilindrica, nata nel 1932 e ancora sulla breccia nel 1951, potesse avere un avvenire contro i quattro cilindri Gilera e poi MV e contro il bicilindrico BMW, che rappresentava sempre un pericoloso rivale in campo internazionale.

Il nostro Presidente Giorgio Parodi decise allora di commissionare all’Ing. Gianini, che era il padre della prima “Rondine”, un quattro cilindri raffreddato a liquido che, a mio parere, soffriva di un peccato originale nel senso che era stato concepito come un motore automobilistico, ossia in asse longitudinale tra le ruote del telaio, con il cambio e la frizione in linea.

Si trattava di un vero e proprio piccolo motore automobilistico, bi-albero raffreddato ad acqua, con un particolare sistema di iniezione, che ci avrebbe forse creato delle grane regolamentari e che, comunque, non adoperammo mai perché, quando la macchina arrivò a Mandello, dovemmo rifare il telaio praticamente subito e, nell’evoluzione del motore, passammo ai carburatori, appunto per non avere quelle possibili grane regolamentari.

La macchina dava 50/52 CV, che era una potenza buona per quei tempi, a 9000 giri, ma aveva il grosso inconveniente comune a tutti i motori con asse disposto longitudinalmente di avere un comportamento diverso a seconda se si curvava a destra o sinistra, perché da un lato tendeva a raddrizzare, mentre dall’altro tendeva a chiudere la curva.

Questo inconveniente, che è assolutamente irrilevante per una motocicletta da turismo, com’è la BMW o il nostro “V7”, ha sempre dato qualche noia in corsa e la BMW, infatti, ebbe molto più successo nei sidecar che non con le moto sciolte, proprio per questo motivo.

Io allora avevo la qualifica di “Direttore degli esperimenti e prove” e di esperimenti e prove, alla Moto Guzzi, ne facemmo in grandissima quantità e di questo devo dare atto sia al Presidente Giorgio che a Enrico Parodi, che ricordo ancora con molta nostalgia ed affetto, sia a Carlo Guzzi, che era molto largo di vedute in fatto di esperimenti e che si interessava di qualsiasi prova e ricordo che proprio con lui ne facemmo di ogni genere. Ricordo uno speciale motore che consentiva di provare tutti i rapporti possibili di alesaggio/corsa, cambiando naturalmente cilindro pistone e testa ed, infatti, era soprannominato “Esagera”.

Prima che nascesse il “Galletto”, Guzzi era curioso di sapere se un motore a corsa cortissima avesse qualche inconveniente ignoto; e mi ricordo che provammo a cilindrata fissa rapporti alesaggio/corsa esagerati nei due sensi e ne ricavammo una certa esperienza.

Ed il “Galletto”, fra le creature più originali di Carlo Guzzi, non solo come aspetto e concezione, ma anche come motore perché, tra l’altro, non aveva un albero a gomito tradizionale, ma la biella lavorava su un volantino a sbalzo ed una corsa molto corta, trasse ispirazione da alcune delle prove che facemmo col motore “Esagera”.

 

LA GALLERIA DEL VENTO

Nell’ambito di questa apertura agli esprimenti vi fu anche la famosa galleria del vento, che nel 1950 fu realizzata alla Moto Guzzi, ed anche in questo caso, con una preveggenza che oggi è facile intuire quanto fosse felice; noi potemmo provare oltre alle carenature per le motociclette da corsa molte altre cose, tra cui la carenatura del famoso bob progettato per le Olimpiadi del 1956 (che vinse la medaglia d’oro con gli Ufficiali della Aeronautica Militare Italiana).

Questa carenatura fu costruita e provata alla Moto Guzzi perché noi eravamo certi di poter dare all’equipaggio italiano un vantaggio valutabile tra 1,5+2 sec. in una discesa sulla pista olimpica.

Il nostro tunnel nacque con un motore di aviazione Fiat di 900 cavalli che faceva un tremendo rumore e che fu presto sostituito con un motore elettrico; venne installata un’elica a tre pale a passo variabile e potevamo provare nella camera di prova con motocicletta e corridore al vero, e riuscivamo ad ottenere una velocità di 220+225 km/h.

Noi lo usammo molto, tanto è vero che tutte le carenature della Moto Guzzi ufficiali furono messe a punto nel tunnel e noi riuscimmo a controbattere la NSU, che disponeva di motori più potenti dei nostri, soprattutto grazie alla galleria del vento.

L’inconveniente era che, poco tempo dopo aver visto le nostre carenature, anche gli altri ne avevano di analoghe ed il nostro vantaggio risultava di breve durata; bisognava, quindi, risolvere il problema del 500 non affidandosi solamente all’aerodinamica. Il problema poteva, a mio parere, essere risolto in due modi: o costruendo un monocilindrico leggerissimo, che pesasse circa 100 kg, e già avevamo raggiunto con la 350 il peso di 98+100 kg, mentre con la 500 eravamo a 105+110 kg, che però potesse disporre di almeno 50 cavalli, oppure battere l’altra strada di avere una potenza ragguardevole, cioè la massima ottenibile, rinunciando a quei pesi così ridotti.

In effetti, scegliemmo entrambe le strade, e questo apparente controsenso mi fu fatto notare; ma io ritenevo che, se si volevano ottenere dei risultati, bisognava esplorare le soluzioni limite per poi, eventualmente, adottare una soluzione intermedia.

A quell’epoca il 4 cilindri Gilera ed il 4 cilindri MV, che erano molto simili, anche perché l’Ing. Remor era passato dalla Gilera alla MV, avevano anche il vantaggio di disporre di piloti eccezionali quali Duke e McIntyre. L’idea di fare un quattro cilindri trasversale a immagine e somiglianza dei due sopracitati, che inoltre avevano il vantaggio di essere ormai ben collaudati e perfezionati, non mi sembrava valida.

Il sei cilindri, che poi fu fatto dalla MV, aveva certamente una larghezza eccessiva.

 

IL MOTORE OTTO CILINDRI

L’otto cilindri a V sembrava la soluzione più interessante, perché molto stretto e ben equilibrato.

All’epoca avevamo già fatto qualche motore bicilindrico a V di 90°; avevamo, quindi, qualche esperienza e quindi adattammo lo schema che ci poteva dare qualche speranza di ottenere potenze superiori a quelle delle macchine concorrenti. Con i miei validissimi collaboratori: Umberto Todero, tutt’ora affezionato collaboratore della Moto Guzzi, Enrico Cantoni, che dopo il 1976 andò alla Dell’Orto carburatori, e l’Ing. Renzetti, che oggi è consulente della Ferrari e che, dopo aver lasciato la Moto Guzzi, ebbe una brillante carriera alla Fiat, realizzammo in un tempo molto ristretto l’otto cilindri e lo portammo al banco alla fine del 1955. Questo motore, col quale speravamo di ottenere 70/72 CV, ci sorprese perché diede subito potenze più elevate di quelle che ci aspettavamo. Va ricordato che il primo otto cilindri era un doppio quattro, con le manovelle a 180°. Avemmo inizialmente qualche noia, legata essenzialmente alla lubrificazione.

Il motore aveva cinque supporti: i tre centrali su cuscinetti ad aghi ed i due laterali erano uno su cuscinetto a rulli e l’altro su cuscinetto a sfere.

Tentammo varie soluzioni, quali: gabbie in duralluminio con centraggio esterno e con centraggio interno, fino a che potemmo adottare i colli costruiti in Germania dalla Hirth, che ci risolsero ogni problema.

La macchina fece le primissime uscite nel 1956 e, nel 1957, era già abbastanza a punto, vinse con Colnago a Siracusa la prima gara di Campionato Italiano, dopo un bellissimo duello con gli amici della Gilera e vinse con Dicky Dale la Coppa d’Oro ad Imola.

Nell’ultimo anno di corse di questa macchina, va ricordata la battaglia tra Duke e Bill Lomas, in Germania alla Solitude, che si concluse con il ritiro di entrambi dopo sette giri di duello furibondo.

Devo ricordare anche Campbell, che fu Campione del Mondo nella classe 250 e che, con la otto cilindri, nel Gran Premio di Spa a Francorchamps fece il giro più veloce e condusse la gara fino a quando non fu costretto al ritiro a causa di un guasto all’accensione.

Noi arrivammo a Monza, quell’anno, con la macchina a punto, ma senza i corridori; infatti, Lomas non si era ancora ripreso da una caduta, Dale era indisponibile ed anche Campbell, nostro uomo di punta, ebbe una caduta e così la macchina non poté correre.

Fu un vero peccato perché, in prova, la macchina aveva percorso la bellezza di tre Gran Premi senza inconvenienti.

 

LO STOP ALLE CORSE

Alla fine del 1957, mi trovavo a Modena per una corsa, quando ricevetti la notizia che Moto Guzzi, Gilera e Mondial avevano firmato un impegno a non correre più.

La cosa mi addolorò profondamente, non tanto perché questo significava un cambiamento nella mia vita, ma per il fatto di non essere stato avvisato. Probabilmente, anche se lo fossi stato, non avrei avuto peso sufficiente per far cambiare una decisione sicuramente ben ponderata dai miei dirigenti; ma, il fatto di apprendere dal giornale della fine di una carriera gloriosa di tutto il reparto corse della Moto Guzzi, mi addolorò profondamente, anche e di più perché avevamo in preparazione diverse novità, quali: un 500 leggero che nessuno aveva ancora visto, una testa a quattro valvole per il nuovo 500 e varie modifiche per la otto cilindri, che era arrivata a 72 CV alla ruota, ma che prometteva ulteriori sviluppi, avevamo dei nuovi radiatori che ci risolvevano il problema del raffreddamento, avevamo intenzione di mettere un radiatore per l’olio che sapevamo essere troppo caldo in certe circostanze ed infine un collo nuovo fatto in casa Guzzi.

Avevamo, in complesso, molta carne al fuoco, e questo dover troncare di colpo mise tutti noi in una condizione di grande disagio.

Quando tornai a Mandello fui consolato dai miei dirigenti con la nomina a Direttore della progettazione e, con i miei amici collaboratori, ci mettemmo a lavorare alla realizzazione delle varie macchine che ancor oggi sono in circolazione.

Il V7, che ci era stato richiesto dai Corazzieri come macchina di rappresentanza, fu uno dei nostri primi lavori.

Realizzammo anche lo Stornello, ed alcuni motori sperimentali fra i quali il motore a V di 90°, nato di 500 e poi portato a 600 cc, che fu montato su una Fiat 500, riconoscibile esternamente per una fascia rossa.

Il nostro motore dava 36 CV, invece dei 19+20 del 500 Fiat, e consentiva di avere prestazioni brillantissime, specie in salita ed in ripresa, e di ottenere una velocità massima di oltre 135 km/h.

Fu naturalmente un esperimento che non ebbe seguito.

Ricordo anche, tra le escursioni automobilistiche che fece la Moto Guzzi, che realizzammo con un vecchio motore BMW di 750 cc, residuato bellico, una vetturetta da corsa che anni dopo venne ritirata da Ruffo, che la utilizzò per disputare qualche corsa in salita nel Veneto.

Quella vetturetta era da ricordare perché costruita sullo schema delle attuali vetture da corsa ossia con motore posteriore, con i due cilindri che uscivano ai lati della scocca, la trasmissione era stata realizzata adattando un gruppo differenziale, con i freni adiacenti al differenziale, di provenienza Lancia Aprilia, e le quattro ruote erano indipendenti.

I motori Moto Guzzi, oltre che sulle motociclette, vennero montati su vari altri veicoli, quali: il primo “Bisiluro” di Taruffi, che stabilì numerosi record, i vari “Nibbio” del Conte Lurani, che ottennero altri record e, per ultimo, la strana vettura costruita da Gino Cavanna, che veniva guidata stando bocconi e agendo su due leve, che ottenne dei record sull’Autostrada del Sole non ancora aperta al traffico, superando i 200 km/h con un motore di 250 cc con compressore.

Moto Guzzi stabilì anche dei record motonautici con Gino Alquati che, col nostro 250 ad asse a camme in testa, realizzò uno strano fuoribordo raffreddato ad aria, che superò i 90 km/h.

 

DOPO LA MOTO GUZZI

Il mio incarico alla Moto Guzzi è durato fino al 1966.

In questo ambiente ho avuto la fortuna di lavorare per trentun anni, ma gli ultimi anni non furono certo piacevoli come i primi. Debbo confessare che la mia gioia di lavorare alla Moto Guzzi finì nel 1957; dopo di allora, purtroppo, mi venne a mancare quello che a poca gente al mondo è stato concesso di provare, di poter cioè lavorare per il piacere e non per il denaro.

Posso dire che avrei pagato di tasca mia tanto era il piacere e l’entusiasmo con cui lavoravo alla Moto Guzzi.

Nel 1966, la Moto Guzzi si trovava in difficoltà. Della vecchia guardia era rimasto solo Enrichetto Parodi, che ricordo come uomo troppo generoso per poter fare l’industriale; Giorgio Parodi era morto a Genova nel 1954 ed anche Guzzi era morto nel 1964. Nel novembre di quell’anno fui chiamato improvvisamente dal liquidatore, Prof. Marcantonio, che, con buone parole, mi disse di andarmene ed io, da un giorno all’altro, me ne andai.

Lasciata la Moto Guzzi, ricevetti parecchie proposte di lavoro da parte di persone che mi conoscevano.

Fra tutti ricordo il Conte Domenico Agusta, che mi avrebbe voluto a Gallarate alla MV e che mi offriva la possibilità di dedicarmi a quello che preferivo: motociclette da corsa o di serie, elicotteri, aeronautica…

In un pomeriggio nebbioso e piovigginoso, andai con mia moglie a trovare il Conte Agusta e francamente mi si strinse il cuore al pensiero di cambiare la mia casa, le mie abitudini, di lasciare i miei gatti, che già allora erano i padroni di casa, non me la sentii di accettare e così bastò uno sguardo a mia moglie per capire che la mia scelta era fatta e che non avrei mai più lasciato Mandello.

Dopo il 1966, con Cantoni e un altro disegnatore ex Moto Guzzi, aprii uno studio di progettazione nautica e mi dedicai anima e corpo alla realizzazione di barche a vela, non per lucro, ma, anche in questo caso, riuscendo a lavorare con molta soddisfazione alla realizzazione, per clienti amici, delle barche che mi piacevano.

In complesso, ritengo di aver avuto una vita molto divertente, dal punto di vista professionale, e di aver trascorso degli anni indimenticabili alla Moto Guzzi, almeno fino al 1957, anni che rimpiango veramente e di cui mi resta vivissimo il ricordo di tanti amici, dei piloti, della gente.
* * *

Domanda: Quali furono le esperienze in Moto Guzzi sull’impiego di motori motociclistici su autovetture?

L’esperimento di montare il motore bicilindrico a V sulla scocca di una Fiat 500 non era avvenuto dietro richiesta o previo accordo con la Fiat; si trattava, invece, di uno dei tanti esperimenti che, in quegli anni, alla Moto Guzzi eravamo liberi di compiere.

Quando quel motore fu costruito e provato, il nostro Enrico Parodi ne parlò in Fiat e la cosa ebbe un seguito, perché quella vettura fu portata a Torino e fu provata dai collaudatori Fiat, ma la cosa finì lì.

Questo era abbastanza logico. Infatti, come la Moto Guzzi a suo tempo non volle adottare, nel caso della “Rondine”, una macchina fatta da altri (e fu un errore, a mio parere), così non era facile che il maggior costruttore automobilistico italiano equipaggiasse una sua vettura con un motore costruito da altri.

Comunque, dalla Fiat, ricevemmo lusinghieri apprezzamenti sulle qualità di questo motore.

Lo schema da noi adottato, che pur risultava ottimo dal punto di vista delle vibrazioni e del bilanciamento, aveva il difetto di avere gli scoppi non equidistanti e, quindi, girando a un minimo veramente basso, questo motore sembrava zoppo.

Questo fenomeno, però, non dava praticamente nessun fastidio, tant’è che nelle moto da turismo ancora in circolazione la cosa risulta impercettibile.

Domanda: Come ha influito sul dimensionamento del motore e sulla scelta del rapporto alesaggio/corsa il limite alla velocità lineare del pistone?

Il motore sperimentale Moto Guzzi, senza alcune intenzioni corsaiole, era stato costruito in occasione della realizzazione del “Galletto”, per tentare di ovviare ad un inconveniente tipico delle moto a motore orizzontale: il grande interasse del telaio che era provocato dalla lunghezza del motore.

Infatti, tutte le Moto Guzzi, sia da turismo che da corsa, avevano in generale un passo superiore a quello delle analoghe macchine fatte dalla concorrenza.

Questo fatto, non rilevante per le macchine da turismo, poteva costituire un inconveniente per le macchine da corsa.

La velocità lineare del pistone, all’epoca, non superava i 20+21 m/sec. Nelle nostre esperienze arrivammo ad un limite massimo di 23 m/sec. Nelle nostre macchine da corsa vennero di regola adottati dei motori sottoquadri, a partire dal famoso 88×82 mm del “quattrovalvole”, seguì la 250 e la bicilindrica, che erano quadre 68×68 mm, l’otto cilindri era leggermente sottoquadro, ma non riuscivamo a ridurre la corsa facilmente, tant’è che il collo che avrebbe sostituito quello attualmente montato avrebbe portato ad una corsa leggermente più lunga dell’alesaggio per una questione fisica alfine di poter ottenere dei più alti rapporti di compressione.

Con la 350 avemmo la possibilità di effettuare molte prove, perché si trattava di un motore nato dalla 250 maggiorata nell’alesaggio; le prime uscite nella 350 furono, infatti, compiute con dei 250 alesati che avevano cilindrata di poco superiore al 250. Poi realizzammo un motore di 320, lontano quindi dal limite della categoria, ottenuto ancora con la corsa 68; poi, quando passammo al vero 350, avemmo la possibilità di provare sempre dei motori sottoquadri e dei motori quadri; ma non andammo mai sulla corsa lunga.

L’unica escursione Moto Guzzi nella corsa lunga fu il “Gambalunga”, che aveva tanti vantaggi come macchina, ma non come motore, tant’è che gli ultimi esemplari che corsero facilmente erano dotati di motori “Faenza” ancora sottoquadri.

Per la nostra esperienza dell’epoca, non conveniva mai, salvo casi di forza maggiore imposti dall’elevazione del rapporto di compressione, ricorrere a motori a corsa lunga.

Domanda:Quale angolo delle valvole veniva impiegato in Guzzi e quale era la geometria delle teste che veniva adottata?

La Moto Guzzi non ha mai usato teste emisferiche con valvole a 90°; l’angolazione delle valvole normalmente si aggirava sui 30° rispetto all’asse cilindrico, cioè 60° complessivi.

Quando venne fatto il quattro valvole di 250 cc, nel 1950, l’angolo era stato ulteriormente ridotto a 27° ed avevamo in progetto per la 500 di diminuirlo ulteriormente.

Il problema era che, con angoli molto aperti, si potevano avere valvole molto grandi, ma peggiorava la forma della camera di scoppio e, quindi, per avere rapporti di compressione sufficienti, bisognava avere il pistone a tetto che dava altri inconvenienti.

Domanda: Quale fu la genesi delle soluzioni telaistiche Moto Guzzi più originali?

I telai delle Moto Guzzi erano costruiti totalmente in casa, salvo la forcella che, su tutte le moto da corsa di prima della guerra, doveva essere obbligatoriamente la vecchia “Brampton” inglese, e non era chiaro cosa avesse di speciale questa forcella, del resto analoga alle altre forcelle dell’epoca.

Una delle prime prove che feci, ancora prima della guerra, fu quella di adottare sulle macchine da corsa quella strana forcella impiegata dalla OEC, che non aveva il cannotto di sterzo, ma era costituita da un trapezio superiore ed uno inferiore deformabili, e col perno ruota che si muoveva parallelamente a due foderi collegati ai trapezi deformabili.

Il sistema era molto attraente perché consentiva di guadagnare i 15+20 cm d’altezza richiesti dal cannotto di sterzo.

Realizzai, prima della guerra, un telaio per una 250 destinata a tentativi di record, particolare in quanto comprendeva anche l’ossatura della carenatura ed il pilota era in posizione prona analogamente a quanto fece qualche anno dopo Ray Amm con la Norton “Kneeler”.

Provammo con Tenni a Monza quel telaio, ancora privo di carenatura, montato con la forcella a trapezi deformabili.

Il pilota era racchiuso dentro la struttura del telaio e per l’arresto la moto era dotata di un carrello che poteva scendere a comando e mantenerla in equilibrio da ferma.

Feci a Tenni tutte le raccomandazioni di prudenza, prima dell’inizio prova, e infatti, nel primo giro sull’anello, fece 162 km/h di media, e nel secondo giro uscì di pista sulla curva alta, per sua fortuna senza troppi danni.

Il secondo tentativo con la forcella a trapezi deformabili fu fatto con il 500 cc a quattro cilindri in linea, che era piuttosto alto e, quindi, poteva essere interessante vedere se si riusciva ad abbassare il telaio.

In questo caso provai io stesso la motocicletta, rendendomi conto che non andava bene e che, se l’avessi data in mano ad un corridore, questi probabilmente sarebbe caduto. In conseguenza di questi fatti, decisi di accantonare quella soluzione.

La forcella che adottammo sul “Gambalunga”, e poi su tutte le Moto Guzzi, con ottimi risultati, era a biscottini oscillanti bassi, le parti non sospese ridotte al minimo, ammortizzatori e molle inizialmente nei foderi, che vennero poi portati all’esterno per facilitarne la regolazione e sostituzione.