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La banda del mosquito

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di Medardo Pedrini

 

Socchiuse leggermente le persiane, quel tanto che bastava per poterci vedere bene in faccia tutti quanti, poi fece due passi di lato considerando con attenzione il tempo e lo spazio, prese dalla tasca destra dei pantaloni un’esportazione senza filtro e l’accese con gesto lento guardandoci uno per uno negli occhi come a voler fare l’appello, una spirale di fumo gli uscì dalle labbra insieme a poche decise parole:
“E’ per stasera!”- un imperativo secco che non ammetteva replica.
Io lo guardavo dal basso in alto seduto a terra, aveva un anno più di me ed io, da lì a poco, avrei festeggiato il mio tredicesimo anniversario. Il suo nome era Gino ma da tutti era chiamato “Quattro tempi” perché c’aveva il Corsarino.
All’epoca i ragazzi della mia età si dividevano in tre fondamentali categorie, quelli che c’avevano la bici, quelli col motorino, e gli sfigati, coloro che agognavano l’una o l’altra cosa ma che ancora deambulavano con le scarpe da tennis e nulla più.
Tra coloro che possedevano il motorino si formavano altre due sottocategorie, quelli che possedevano il Corsarino a quattro tempi e tutti gli altri.
Infine tra quelli col Corsarino c’era l’elite, coloro che potevano vantare lo “ZZ”, esseri baciati dalla divina provvidenza e dei quali ognuno di noi si vantava di averne conosciuto almeno uno nella propria vita.
Gino c’aveva lo “ZT”, stava appena un gradino sotto al massimo livello raggiungibile, ma tutti lo trattavamo come se avesse il quarantotto più figo del mondo, in parte perché ciò corrispondeva al vero e in parte perché diversamente erano botte da orbi per tutti.
Io appartenevo alla categoria dei biciclettari, ma ogni tanto quando la sera mio padre rientrava più sbronzo del solito ed ero sicuro del suo rapido addormentarsi, gli sfilavo le chiavi dalla tasca dei pantaloni, scendevo in strada e gli fregavo il motorino, un ciclomotore con marce a manubrio, con il quale mi fiondavo nella notte a tutta manetta. Ma ciò succedeva raramente, e non perché non fosse sua consuetudine rincasare ebbro, ma perché la paura di essere scoperto il più delle volte prevaricava il mio desiderio di affrontare ai settanta all’ora la rotonda dello stadio, rotonda sulla quale ancor oggi restano i segni dei ginocchi dei più audaci di allora.
Al par mio, gli altri ragazzini lì radunati nello scantinato di Dario non possedevano nessun veicolo a motore.
Alla mia destra sedeva Luca, un ragazzo rubizzo soprannominato “Lucchetto”, e non per diminutivo, ma per la facilità con la quale riusciva a far saltare qualunque chiusura da catena col temperino, poi c’era Alfio, un ragazzino con una gamba di legno venuto dalla periferia. La casa dove era nato si trovava a pochi centinaia di metri da una piccola stazioncina dove tutti i giorni alle 12,45 in punto passava un trenino merci a velocità ridotta e il divertimento di alcuni ragazzi, al ritorno dalla scuola, era quello di rincorrerlo e salirci sopra al volo per poi ridiscendere dopo il ponte appena passato il fiume.
Alle 12,45, di un non precisato giorno dell’ottobre del 1959, Alfio partecipò a quel gioco per l’ultima volta.
Ciononostante il ragazzo dimostrava di non aver nulla da invidiare a tutti i suoi coetanei, almeno fisicamente, giocava anche a pallone ed era un ottimo portiere, un po’ impacciato nelle uscite sulle palle alte ma tra i pali era un fenomeno, era persino più bravo di me, che pure giocavo in porta ma a differenza sua con entrambe le gambe. Si narrava persino essere l’unico che una volta avesse parato un rigore a Rocco detto “Dinamite”, il centravanti della parrocchia di San Vincenzo, un energumeno di quattordici anni che già si radeva regolarmente da due e che in campo si riconosceva dai peli che, ricoprendogli i polpacci, gli scendevano sui calzettoni più lunghi delle stringhe delle scarpe, ma ciò forse fa più parte della leggenda che della realtà.
Poi, se ricordo bene, c’era Tonino il figlio del gelataio che godeva di grande considerazione fra tutti noi squattrinati che andavamo dal padre ad elemosinare un cono di crema e cioccolato da cinquanta lire, al costo di uno da trenta, promettendo in cambio particolari riguardi nei confronti dell’erede quando giocavamo allo schiaffo del soldato armati delle ciabatte della signora Pina.
Infine c’era Tommaso, il più giovane di tutti, frequentava per la seconda volta la prima media e voci di corridoio lo davano per spacciato anche per quell’anno. Il suo problema era la matematica, non c’era verso di convincerlo che se da un rubinetto escono quattro litri d’acqua al minuto per riempire una vasca da bagno contenente trentadue litri occorrono otto minuti, lui insisteva che la vasca da bagno in casa sua non c’era mai stata e non erano problemi suoi, inoltre lavarsi gli faceva proprio schifo e non vedeva perché dovesse rispondere ad una questione che non lo riguardava minimamente.
E proprio sul matematico perduto era concentrata l’attenzione di noi tutti, e quella di Quattro tempi in particolare, quella sera sarebbe stata la sua sera, la sera di Tommaso.
Cosa stava succedendo è presto detto.
Ognuno dei presenti aveva dovuto affrontare il battesimo delle due ruote a motore, l’iniziazione alla motocicletta, quella cosa rilucente e scoppiettante che era nei sogni di noi tutti ma che vedevamo ancora lontana, ancor più lontana dell’oggetto delle nostre masturbazioni notturne, quello con un po’ di pazienza e buona volontà, prima o poi sarebbe arrivato anche gratis, la moto invece bisognava comprarla e i soldi in quel momento erano una realtà dalla quale ci sentivamo del tutto avulsi da lì ai prossimi anni.
La difficoltà del battesimo a motore non consisteva tanto nel dar prova di abilità o particolare coraggio nel lanciarsi a pazza velocità nella notte, quanto nel reperire un motorino che ci desse la possibilità di mettere in atto quanto programmato. A parte Gino nessuno di noi possedeva tale veicolo e Quattro tempi si sarebbe autocrocefisso all’albero dei rusticani piuttosto che darci in mano il suo mezzo anche solo per un breve giretto.
Fortunatamente nella strada in cui abitavamo, a fianco della porta in cui fino a pochi anni prima la Betti metteva i servizi di procaci fanciulle a disposizione di tutti i maschi che avevano a cuore la buona salute della propria prostata, abitava Nello il pescivendolo.
Nello era un individuo sui settant’anni, alto fino all’insegna del barbiere e magro come la pertica che usavamo per andare a rubare le albicocche, un tizio apparentemente burbero, perennemente col toscano in bocca e che sputava a terra in ogni luogo, anche nel negozio del salumiere, ragione per la quale, dopo l’ennesimo scaracchio, una volta venne inseguito dal medesimo fino alla sua bottega e abbattuto con una mazzata di stoccafisso in piena fronte.
Fu una tragedia che percorse tutta la strada in pochi attimi.
-“Aristide ha ammazzato Nello.”- andavano riportando voci di cortile in cortile.
-“Che, si è accorto che gli scopava la moglie?- chiese accorato l’imbianchino dall’alto del trabattello.
-“Macché – rispose il fruttivendolo – pare che abbia scatarrato nel suo negozio, proprio in mezzo ai piedi della Maria.”-
-“Beh! E dove sta la novità? Non c’è un centimetro in zona che non sia stato annaffiato dal pescivendolo.”- rimandò il calzolaio affacciandosi alla finestrella della sua bottega.
-“Sarà, ma per me se non si è portato a letto la moglie si è sicuramente scopato la sorella.”- proferi una voce ignota dall’interno di un androne.
Ma Nello non era morto, bastò, per restituirlo a nuovi vitali entusiasmi, un buon bicchiere di Sangiovese portato prontamente da Ida, la corpulenta signora che si recava quotidianamente di casa in casa a somministrare iniezioni a coloro che ne necessitavano, il che capitava così frequentemente dalla scoperta dell’antibiotico, novella cura per ogni male, da non consentirle più, come lei stessa andava raccontando, di riconoscere coloro che le si ponevano con atteggiamento da faccia da culo in quanto ormai in vita sua aveva visto più culi che facce.
Nello possedeva un mosquito, non un trabiccolo attaccato ad una bicicletta vecchia maniera, ma uno di quelli d’ultima generazione, col serbatoio lungo tipo canna da bici da donna e il meccanismo propulsore posizionata alla base vicino ai pedali. Un gioiellino fine anni cinquanta che tutte le notti lasciava in strada chiuso con un lucchetto così timido che Luca poteva aprire anche per via telepatica.
Inoltre Nello possedeva un altro grande pregio, era l’unico in tutto il quartiere a tener testa a mio padre in quanto a sbronze, aveva un consumo etilico da far impallidire un alpino con il fegato all’ultimo stadio e il suo conto da Nando, l’oste del rione, era più lungo della messa in latino che il parroco ci costringeva a sorbire ogni domenica prima di consentirci l’utilizzo del campetto da calcio.
Tutti, ma dico proprio tutti, almeno una volta avevamo fatto un giretto sul mosquito di Nello.
Ci recavamo sotto casa sua verso le undici di sera e aspettavamo che rientrasse barcollando, poi, dopo una decina di minuti, sicuri che non si fosse neppure spogliato prima di cullarsi in intensi e mirabolanti sogni, aprivamo il lucchetto con la facilità con la quale scartavamo una caramella alla menta e davamo sfogo a tutti i nostri istinti di centauri in erba, salvo poi riportarlo diligentemente al suo posto e richiuderlo con ogni cura, anzi Luca dava pure un colpetto magico alla serratura, un suo segreto, diceva ,con il quale era certo che nessuno avrebbe potuto aprirlo senza l’apposita chiave, a parte lui stesso naturalmente, e questo non tanto perché ce ne fregasse qualcosa se glielo rubavano sul serio ma perché, se ciò fosse accaduto, non avremmo saputo più da chi altri noleggiare un motorino per le nostre scorribande.

-“Allora stasera alle undici al solito posto – terminò Gino spegnendo la cicca sotto il tacco – e chi non c’è non si faccia più vedere in giro per i prossimi sei mesi.”-
Tutti ci rigirammo a guardare Tommaso, aveva un’espressione inebetita, attendeva quel momento da tempo ed ora che era arrivato sentiva salirgli alla gola un groppo, le fantasie che si era fatto fino ad allora su quanto sarebbe successo da lì a poche ore stavano lasciando il posto ad un certo timore, muoveva lo sguardo in giro in cerca di conforto, di qualcuno che gli desse una pacca sulla spalla, ma noi, stronzi come dei veterani che già avevano avuto il battesimo del fuoco nei confronti dell’ultima recluta, lo lasciammo solo con i suoi pensieri e ci allontanammo in ordine sparso, solo Tonino si girò un attimo prima di uscire e gli sussurrò:
“E vedi di esserci altrimenti per te i gelati da domani costano cento lire.”

Alle undici eravamo tutti in postazione. Io arrivai per primo con dieci minuti di anticipo, mi piaceva molto annusare l’attesa dell’avventura ogni volta che se ne presentava l’occasione, poi arrivò Dario con la maglietta strappata sulla schiena.
“Cazzo, mia madre non voleva farmi uscire stasera, ho dovuto scivolar fuori dalla buca del cane.”-
Poi fu la volta di Tonino che ci raggiunse a lenti passi dando l’ultimo morso a un cono al pistacchio, quindi Gino che parcheggiò il Corsarino in un punto buio dove non si potesse distinguere facilmente e infine Tommaso.
Mancava solo Alfio, ma sapevamo che non sarebbe venuto, se c’era da scappare in fretta non ce l’avrebbe fatta, e sapevamo pure che l’avremmo perdonato, come d’altronde avevamo fatto altre volte nelle quali c’era da usare più le gambe che la testa.

“Bene eccoci qua, è rientrato?” –chiese Quattro tempi.
“Non ancora – risposi io – sono sul posto da una decina di minuti e non l’ho ancora visto, ma ormai è ora, di solito non tardano troppo a buttarlo fuori dall’osteria.”.
Fui profetico, di lì a qualche minuto si stagliò sulla luce del lampione una sagoma da vatusso col verme solitario.
Avanzava col solito incedere dinoccolato ma non pareva tanto brillo, anzi appariva stranamente saldo sulle gambe, neppure la mattina all’alba quando apriva la pescheria sembrava così franco nei gesti, non che noi a quell’ora fossimo già alzati per poterlo constatare, ma così ce la raccontavano.
Arrivò al portone di casa, si girò per un ultimo sputo, gettò il mozzicone di toscano ancora fumante e salì le scale.
Guardai gli altri -“Cazzo facciamo, rimandiamo?”-.
-“Mai – ribadì Gino – dovessimo aspettare tutta la notte che si addormenti.”-
E così facemmo, ci portammo sul lato della strada opposto alla sua finestra e naso all’aria attendemmo che spegnesse la luce.
Passò un tempo interminabile durante il quale Tommaso pareva l’unico soddisfatto della situazione, credo ancor oggi che in cuor suo sperasse che si facesse mattina senza che nulla potesse accadere. Ma così non fu. Ad un certo punto la stanza cadde nel buio, ci facemmo un segno d’intesa e attendemmo ancora un quarto d’ora prima di muoverci, quindici minuti durante i quali Tommaso andò a pisciare dietro la colonna per quattro volte.
A un cenno di Quattro tempi Luca si avviò verso il motorino, mi parve che neppure lo toccasse, forse schioccò solo le dita e il lucchetto si aprì, Dario che era lì accanto lo prese e lo portò fino a noi, Tommaso guardava salivando e deglutendo.
“Ecco, qua – gli disse uno di noi – è facile, parti pedalando, fai una ventina metri poi tiri questa leva e il motore parte, fai il giro dell’isolato a tutto gas e torni qua.”
Controllammo un’altra volta la finestra del primo piano prima di far salire il ragazzo sul sellino, era tutto in ordine, tutto a parte Tommaso che continuava a martoriarsi le mani facendo schioccare ripetutamente le nocche delle dita.
“Non ti cagherai mica sotto?” – lo investì Gino squadrandolo di brutto.
“Chi, io ?….. dà qua” – e così dicendo il nostro saltò in sella e iniziò, a pedalare.
Pedalò per una ventina di metri, poi altri venti, arrivò ad una cinquantina e si fermò, rigirò il motorino e ritornò sempre pedalando.
“Non parte” disse con un filo di voce.
“Macchè, non parte, sei tu che non sei capace, dà qua che ti faccio vedere io” – esclamò Dario prendendogli di mano il Mosquito. Poi prese a pedalare, fece i soliti cinquanta metri e ritornò ancora pedalando.
-“Cazzo, non vuole proprio saperne di partire”
“Mmmmh! – Quattro tempi si strofinò il naso – potrebbe essere la candela, fa un po’ vedere.” – iniziò ad armeggiare con la pipetta, tirò il cavo, guardò bene coll’accendino, poi sentenziò:
-“ Adesso è ok, vai Tommy.”
E Tommy andò, partì pedalando e tornò uguale a prima col fiato rotto in gola.
“Non c’è un cazzo da fare.”
A quel punto Tonino, che fino al momento era stato in disparte, aprì la bocca con fare saputo:
“Il cicchetto, non avete dato i cicchetto, invorniti.”
-“Già il cicchetto – Gino si abbassò e pigiò tre o quattro volte sulla pompetta della miscela –
Vai adesso ragazzo e non tornare prima di aver fatto il giro dell’isolato.”-
E Tommaso il giro dell’isolato lo fece, sempre pedalando però. Ritornò dopo una cinquina di minuti sudato come una fetta di pancetta dimenticata al sole di luglio e la lingua di fuori.
“Io non voglio più saperne un cazzo, andateci voi su questo cesso.”
Ci stringemmo tutti in cerchio attorno al veicolo e iniziammo a fissarlo come se si trattasse del povero estinto, dando ognuno, tra una grattata di capo e l’altra, una versione più o meno allucinata sulla ragione di quell’inspiegabile mancamento.
Eravamo tutti assorti a cercare di capire cosa non funzionasse in quel dannato motorino quando un globo catarroso dal peso specifico indefinito sfiorò la testa di Gino e andò a stamparsi sul selciato formando una pozzanghera di dieci centimetri di diametro.
Immediatamente alzammo lo sguardo alla finestra del primo piano alla quale trovammo affacciato Nello col toscano in bocca.
“La prossima volta, se me lo dite prima, vi faccio trovare anche una tanica di miscela, non lo vedete che è a secco, branco di chiavapecore deficienti?”-
Rimanemmo tutti basiti a guardarlo mentre incrociava le braccia, solo Tonino dopo qualche istante si riprese e balbettò:
“Facevamo mica niente Nello, l’abbiamo trovato così con il lucchetto aperto e ci stavamo chiedendo cosa fare perché non te lo rubassero.”
L’uscita ci parve geniale, continuavamo a guardare verso l’alto nella speranza che se la fosse bevuta, ma un altro sputazzo olimpionico che evitò il piede di Dario di un paio di centimetri ci fece immediatamente propendere per il contrario.
“Guardate che io bevo, ma non mi sono ancora bevuto il cervello. Pensate che non lo sappia che ogni tanto venite a prendere il Mosquito per fare un giretto? Se vi è andata bene fino ad ora è soltanto perché ve l’ho sempre lasciato fare. Ma adesso m’avete rotto le balle, mettetelo via prima che scenda e non toccatelo mai più, che vorrei anche andare a dormire.”
Non so chi di noi si sia sentito più merda in quel momento, di certo tutti stavamo con gli occhi bassi mentre appoggiavamo il motorino al muro. In parte ci sentivamo coglioni, ma la cosa peggiore era la consapevolezza di aver infranto due magie in un sol colpo, la soddisfazione di sentirci ganzi per le nostre furberie e la possibilità di renderci centauri nella notte, questo almeno fino a quando non avremmo posseduto un motorino nostro, il che era ancora lontano da venire.
Luca chiuse con cura il lucchetto.
“Ehi, Nello, gli ho dato il colpetto magico, così non te lo rubano.”
Un sonoro vaffanculo giunse dall’alto, poi l’ennesima massa mucosa si spiaccicò al suolo sollevando schizzi immani e la finestra si chiuse.
Ci allontanammo tutti sparpagliandoci nella notte, senza neppure salutarci, ognuno con il proprio orgoglio fra le gambe. Nessuno si voltò indietro.
Quella sera tornando a casa, forse per non pensare troppo all’eventualità che il pescivendolo potesse raccontare tutto ai nostri genitori, mi concentrai sul fatto che almeno Alfio si era risparmiato quella figura da coglioni che tutti avevamo praticato e che forse, chissà, manco gli avremmo raccontato per la vergogna. Questo mi sollevò in parte dal magone che mi portavo dentro.
E così fu, quando lo incontrammo non dicemmo nulla sull’accaduto, né lui mai ci domandò, forse bastavano le nostre facce a raccontare tutto.
Il vecchio Alfio, da lì a poco andò ad abitare in un altro quartiere e sparì dalle nostre attenzioni.
Per moltissimo tempo non l’ho più rivisto, ma spesso pensavo a lui e me lo immaginavo trai pali, in qualche campo di periferia, a sbattere la gamba di legno sull’erba.
Poi un giorno lontano l’ho incontrato per puro caso su un passo di montagna, con il casco in mano e la sua gamba dentro a una tuta di pelle.
Lui sì davvero con la motocicletta, una due ruote sportiva e grintosa appositamente preparata e omologata per la sua menomazione.
L’incontro durò poco, quel tanto che bastò per rendermi felice, poi lo vidi allontanarsi rombando.
Da allora sono passati quasi trent’anni e di lui non so più nulla, ma mi piace ricordarlo così mentre sparisce dietro ad una curva piegando fino a terra il ginocchio della sua protesi.