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Quando una Guzzi ti entra nella vita …?

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di Albano Salvatore (CAV)

Sono un MOTOAMATORE, almeno così amo definirmi per la mia passione per le due ruote intesa come stile di vita, come pensiero di libertà che solo una moto può regalare, e mai avrei pensato di “provare” a scrivere di moto…comunque sono in ballo e lo faccio volentieri proprio perché alla fine é di questo che voglio rendervi partecipi, del PERCHE’ scrivo…
La mia vita motociclistica inizia a quattordici anni, come tutti, credo, e continua con la prima patente, o meglio dire con la patente A, l’agognata patente per i sedicenni che si avvicinavano alla prima cilindrata targata, per poi arrivare a 18 anni e poter guidare (le leggi dell’epoca lo permettevano: patente A+18 anni= maximoto…senza accesso graduale…) così una Jappa che un mio zio mi regalò, una Yamaha TT 350: decisi che non me ne poteva fregare niente di una moto del genere e così, con i primi risparmi post-diploma-e-lavori-estivi, optai per una più tranquilla Jappa, una versatilissima Honda XL 600 Paris-Dakar…bella moto, affidabile, ma in me scemava sempre più la passione per le due ruote, sì, avete capito bene, SCEMAVA…
L’ho tenuta 4 anni, con reciproca stima, ma mi mancava qualcosa, che a dir la verità non trovai neanche nella successiva Teutonica di seconda mano con ben 47.000 km che mi comprai dopo: trattavasi di BMW K100 RT dell’ 87, che presa nel 98 facevano ben 11 anni di gloriosa carriera fatti con persone che sicuramente l’hanno amata e trattata come io volevo e voglio che vengano trattate le due ruote…Con questa mi sono approcciato ai primi moto-raduni e viaggi in compagnia fino alla decisione cha la moto doveva essere solo mia e le emozioni che doveva trasmettere dovevano appartenere solo al sottoscritto, quindi i primi viaggi in solitario per l’Italia con qualche puntata verso Nord (Europa); ma mi mancava ancora qualcosa…
Arrivano i primi problemi legati al lavoro e (non lo nego) alle finanze, morale dovetti vendere a malincuore la Tedescona che molto mi aveva dato…ma decisi che 1 anno e mezzo senza due ruote erano troppi…Spinto da un amico Nippoamante andai in concessionario dell’ala dorata per acquistare (ahimé) un’altra Jappa: vi giuro che era un acquisto del quale ancora oggi mi chiedo il perché, non tanto per la moto che già conoscevo e che sicuramente mi avrebbe dato soddisfazioni e affidabilità, ma quanto per la mia inguaribile predisposizione alla ricerca della moto che mi faceva battere il cuore…La onesta e tuttofare Transalp mi ha portato in molti posti belli, ha portato in giro donne di turno (ovviamente sempre come passeggere…) ma la vendetti, proprio perché una di queste donne di turno, che poi diventò quella del turno fisso, mi fece capire che un mutuo per comprare casa non poteva convivere con due auto ed una moto….sigh !!!
Siamo così arrivati all’anno 2007, anno della svolta lavorativa dove fortunatamente mi gira bene e la prima cosa che faccio cos’è…? NO, non l’acquisto di una moto, non volevo fare un altro “sbaglio”, ma mi lancio su internet e per puro caso entro nel sito MOTOGUZZI…….un colpo di fulmine, eppure avevo continui contatti con l’AQUILA DI MANDELLO, ma chissà perché l’ho sempre snobbata…IL PROTETTORE DELLA GUZZI MI HA PUNITO E MI HA FATTO INNAMORARE FOLLEMENTE DEL MITICO BICILINDRICO A V….
Ora possiedo una bellissima (perché le Guzzi sono tutte belle…) BREVA 750, contentissimo della scelta fatta e sempre più innamorato di questa meravigliosa storia della nostra Italia.
E così ho iniziato a scoprire i vari siti, forum, e tutto quello che ruota attorno alla Passione Guzzista e mi rendo conto solo ora di quello che ho perso negli anni, anche se ho acquisito la mia attuale esperienza…E poi c’è l’aspetto stiloso che non guasta mai: avete presente quando si arriva in un luogo di tendenza e parcheggi la Moto a vicino ad altre molto più costose della tua…? Ebbene, vi è mai capitato che c’è sempre qualcuno che ha occhi solo per i tuoi cilindri che sporgono…? E quando altri timorosamente si avvicinano per guardarla…? Beh, ragazzi solo chi ha una Guzzi può saperlo e questo io l’ho scoperto da due anni a questa parte…forse, inconsapevolmente grazie alla mia attuale compagna che mi aveva aperto gli occhi sulla vita di coppia…inconsciamente però i miei occhi si sono aperti anche verso un patrimonio che ogni motociclista che si rispetti non può ignorare…
Un ultimo aneddoto: mi trovo in un bar della Riviera Romagnola per un caffè con amici e arrivano vari Harleysti, molto simpatici devo dire, uno di loro inizia a puntare la mia SGUZZINA (così l’ho battezzata…) pensavo che si fermasse al fatto puramente estetico invece quando stavo per andare via capendo che ero il proprietario, con impeto quasi minaccioso si avvicina e con un sorriso quasi da ebete mi dice: “COMPLIMENTI, LA GUZZI NON TRADISCE MAI, EH? DAI, ADESSO FAMMI SENTIRE COME CANTA…”
CHE SODDISFAZIONE RAGAZZI …

L’ultima California

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di Giancarlo Rosini “greybike”

Tutto cominciò un afoso giorno di Settembre del 2016. Andrea Corradi era intento al solito cazzeggio su un forum di un sito internet.
Ormai erano tanti anni che frequentava quel sito di pazzoidi innamorati delle moto costruite a Mandello del Lario. Dopo gli anni bui della gestione Piaggio le cose stavano andando bene per la Guzzi, al secondo anno in Superbike aveva già centrato tre vittorie e le vendite andavano ancora meglio. Sbirciando fra i vari argomenti del forum si imbattè su di una discussione su quale fosse il modello più rappresentativo della casa Lariana, a quanto pareva era la California a strappare i maggiori consensi, specialmente quelle più vecchie, non gli ultimi 1400 ottovalvole considerati forse un po’ troppo snob.
Andrea fu soddisfatto, anche lui ne aveva una, 1100 Classic bianca del 2008 che lo aspettava giù nel parcheggio. Prima di spegnere il computer dette un’occhiata all’ultimo messaggio, un certo Gandalf scriveva “La California è la miglior moto prodotta da Guzzi …. anzi dirò una cosa: Il giorno che al mondo non ci sarà più nessuna California allora il mondo non avrà più ragione di esistere” col solito contorno di faccine sghignazzanti.
Un brivido percorse la schiena di Andrea, “minkia che bella profezia” disse. Ma ora si erano già fatte le 17,30 era ora di andare, spense il computer salutò i colleghi e giù verso il parcheggio dove lo aspettava la sua “Dama Bianca”. Sulla strada verso casa pensò ancora un attimo alle parole di Gandalf, un altro brivido lungo la schiena, poi una serie di curve prese il soppravvento nei suoi pensieri.
Un colpo di gas cancellò quel ricordo.

Milano 12 aprile 2318

Arnamolder si era alzato presto quella mattina, era domenica e non doveva andare al lavoro. Indugiò un po’ sulla colazione poi accese l’olovideo per vedere il notiziario, subito le immagini presero forma al centro della stanza, lo speaker assonnato recitava le solite notizie: “Papa Silvio IV in visita in Nuova Britannia”, “arrestato politico corrotto”, “incidente fra due autoplani” e via discorrendo.

Eh già Arnamolder odiava quei “cosi” volanti che, da pìù di un secolo, avevano in pratica sostituito la vecchie automobili. Certo ne possedeva uno per motivi di mobilità, ma lui amava sempre gli antichi motori a scoppio, l’odore della benzina e il rumore degli scarichi, non il freddo ronzare dei motori a energia solare. E soprattutto amava le “motociclette”, quel nome dal sapore antico, erano quasi due secoli che non se ne producevano più, erano state vietate da tutti i governi mondiali e quindi nel giro di un decennio i produttori rimasti avevano chiuso i battenti, chi una moto ce l’aveva poteva ancora usarla, poi basta.

Ad Arnamolder sarebbe piaciuto vivere agli inizi del terzo millennio quando frotte di “motociclette” scorrazzavano libere per le strade, quando meccanici unti e sudati lavoravano attorno ai vecchi motori per migliorarne le prestazioni, quando si poteva ancora “dajergass”. Gli piaceva quella parola “dajergass” l’aveva sentita da piccolo da suo nonno.

Quante cose gli aveva insegnato suo nonno, si chiamava Tatuato, solo Tatuato, come lui si chiamava solo Arnamolder, da tanto tempo per comodità non si usavano più i vecchi “nome e cognome”.

Lui era orgoglioso del suo, sapeva che veniva dai tempi antichi, quando Globalnet si chiamava ancora internet, insomma i tempi delle “motociclette”.

Il nonno di suo nonno aveva trovato dei vecchi aggeggi che chiamavano computer, era riuscito a leggere il contenuto delle memorie e aveva trovato tracce di un sito in cui si parlava di “motociclette” che pare avessero addirittura un’anima.

Gli utenti dell’epoca si presentavano con un nome di fantasia, l’antico nickname,ecco forse perché col tempo si era pensato di abolire “nome e cognome” e sostituirlo con un solo nome da usare sempre, sia su Globalnet sia nella vita reale.

Nella sua stirpe erano stati tutti appassionati delle vecchie “motociclette”, quelle con l’anima, l’antico marchio MotoGuzzi; da un po’ aveva capito da dove veniva i suo nome e anche quello dei suoi parenti e antenati.

Il suo albero genealogico era pieno di Macio, Marsa, Fange, Olimpino, Ranabout, Samside, Bombos detto “lucchetto” (questa non l’aveva mai capita), Drogo, Le zie Piratessa, Pandora e Verdenevada e centinaia di altri coloriti nomignoli.

Ah!! il vecchio sito Animaguzzista, era riuscito a salvare molti scampoli di discussioni di allora, tarature di carburatori e corpi farfallati (lui li chiamava “sfarfallati” gli sembrava più bello), sospensioni, gomme, cardani, raduni, bevute, rincoboys (anche questa non l’aveva capita bene), pensò a quella volta che girò mezza italia per cercare il bar di Tulla, boh chissa se c’era mai stato veramente.

Pervaso da atavici ricordi si rese conto che aveva voglia di andare giù, nel garage sotterraneo.

Scese di corsa le scale.

Accese la luce.

Lei era lì, sotto al telo bianco, come sempre.

Con calma accese il riproduttore multimediale, e selezionò alcuni brani. Roba di tre secoli prima, quello che un tempo chiamavano rock, ma sempre roba entusiasmante.

Neil Young attaccò le prime note di ”Cowgirl in the sand”, e Arnamolder si avvicinò con rispetto alla cosa sotto al telo bianco.

Tolse il telo, e gli apparve la vecchia signora.

Moto Guzzi California Classic, colore indefinito che una volta forse era stato bianco, aveva in casa un consunto foglio emesso da una fantomatica “motorizzazione civile” che diceva che quella “motocicletta” era stata immatricolata il 6 giugno dell’anno 2008 ed era appartenuta ad un certo Andrea Corradi.

Lui sapeva solo che la moto era sempre appartenuta alla sua famiglia da svariate generazioni.

Aveva anche un nome, si!! una volta davano anche un nome alle cose, su di una targhetta arrugginita attaccata alla fiancatina destra stava scritto “Dama Bianca” e anche suo nonno e suo padre l’avevano sempre chiamata così.

Per curiosità si collegò col suo palmare a Globalnet, c’era un sito che raccoglieva gli ultimi “motociclanti” rimasti sulla terra, controllò gli iscritti, erano ancora in 1064.

“Mica male” disse ad alta voce, poi diede una rapida occhiata ai modelli e marchi presenti.

Harley, Guzzi, Ducati, Bmw, svariate Triumph, tre giapponesi e qualche special hand-made degli anni seguiti alla chiusura di tutte le fabbriche di “motociclette” .

Controllò meglio i modelli, di California restava solo la sua, in un certo senso si sentì fortunato, però un brivido gli percorse la schiena.

Giusto un paio di giorni prima aveva ritrovato un vecchio messaggio del 2016 di un certo Gandalf che diceva “La California è la miglior moto prodotta da Guzzi…. anzi dirò una cosa: Il giorno che al mondo non ci sarà più nessuna California allora il mondo non avrà più ragione di esistere”

Poi ci rise sopra, “ammazza quanto eri catastrofico caro Gandalf”.

Avvolto dalle note di “Thick as a brick” tirò fuori la chiave e la infilò nell’apposito blocchetto di Dama Bianca.

Aveva una gran voglia di andare a “fare un giro”.

Diciamo subito che andare a “fare un giro” nel 2318 non era così facile come trecento anni prima. La benzina era carissima c’erano solo un paio di raffinerie nel pianeta che la producevano, giusto per accontentare i folli amanti del motore a scoppio.

Oramai tutto funzionava a energia solare; “gratis e pulita” dicevano i politici, cosa volere di più, insomma la benza costava sui 45 eurodollari al litro, roba da limitare al massimo le uscite in “motocicletta” , per non parlare di eventuali parti di ricambio che andavano di volta in volta ricostruite in esemplare unico.

I pneumatici poi, li produceva solo un fabbricante e li vendeva a peso d’oro “peggio dei dentisti” pensava Arnamolder (chissà perché, ma ce l’aveva a morte coi dentisti).

Girò la chiave e premette il pulsante di “START”

Un sommesso borbottio copri il flauto di Ian Anderson.

Anche stavolta l’ammasso rugginoso, che un tempo vide altri splendori, aveva preso vita.

Casco, giubbotto, guanti

Il motore ogni tanto dava qualche sussulto per poi riprendere il suo caratteristico minimo zoppicante.

In sella, dentro la prima con un clock fragoroso e via. Si era svenato ma almeno il serbatoio era pieno, aveva deciso di uscire dalla afosa città per andare verso il lago, magari in quel quartiere periferico di Lecco dove un tempo sorgeva il paese di Mandello del Lario. Pare che nel 2210 Ube, il sindaco di Mandello, lottò strenuamente per non permettere l’annessione del suo paese alla città di Lecco, ma tutto fu vano.

Si era lasciato dietro le spalle la città già da un pezzo e stava viaggiando a bassa andatura godendosi quel poco di verde che ancora rimaneva fuori dalle grandi metropoli.

La bassa andatura era dovuta a due motivi piuttosto seri.

Dama Bianca aveva più di trecento anni, non sapeva quanti e quali pezzi del suo motore fossero stati sostituiti e rifatti, quindi non era il caso di sollecitare oltre il lecito la sua vetusta meccanica.
L’asfalto non era proprio quel che si dice “un biliardo”. Da quando i mezzi di trasporto più diffusi erano gli “aggeggi volanti” le amministrazioni non avevano tanto interesse a mantenere curate le strade.
In altri tempi l’avrebbero definito “fermone”, rise fra sé nel casco al pensiero di questa strana parola.

E poi fermone o no, aveva le gomme quasi pietrificate, non era il caso di rischiare anche qualche osso.

Poi, quella curva.

Quella maledetta ghiaia.

Fu un attimo, Arnamolder si senti sbalzare dalla sella verso il prato che costeggiava la strada mentre Dama Bianca prendeva tuttaltra direzione.

All’impatto con la strada il vecchio serbatoio non resistette, squarciandosi.

Poi furono scintille, provocate dal metallo che strisciava sul ruvido asfalto.

Poi le fiamme avvolsero la povera California, che con cigolii sinistri cominciò a fondersi in un unico ammasso di ferro fuso.

Si rialzò. Niente di rotto per fortuna.

Quanto tempo era rimasto svenuto ?

Pensò subito a Dama Bianca, quello che rimaneva di lei stava là a dieci metri, un’ammasso fumante.

Quando non ebbe più voce per imprecare la malasorte prese il palmare per chiamare l’aerotaxi. Voleva tornare subito a casa, non poteva più stare lì, la vista di Dama Bianca morente lo faceva stare male.

Nel tragitto di ritorno verso casa pensò alla sua California, “l’ultima California”.

Ancora sentì quel brivido lungo la schiena. “La profezia di Gandalf” .

Idiozie, pensò. Figuriamoci se devo dare retta a uno stupido messaggio di trecento anni fa.

Giunto a casa si preparò qualcosa da bere e accese l’olovideo per distrarsi un po’.

Apparve subito l’immagine di un giornalista, sembrava spaventato, accanto a lui un’astronomo che aveva già visto in altre trasmissioni, sembrava letteralmente terrorizzato.

Parlavano dell’orbita terrestre, qualcosa era successo, qualcosa si era spostato, sembrava che la terra si stesse avvicinando pericolosamente verso il sole.

Poi ci fu un disturbo alla trasmissione, le immagini olografiche sparirono, incominciò a fare caldo, sempre più caldo.

Arnamolder finì il suo drink, oramai aveva capito tutto, la profezia di Gandalf era terribilmente vera.

E mentre l’aria si faceva irrespirabile guardò fuori dalla finestra e vide che le cime di alcuni alberi sotto casa sua stavano prendendo fuoco.

Puntò il dito su di un albero a caso.
Le sue ultime parole furono “mi sei simpatico, è per questo che ti brucerò per ultimo”

Ho visto una Guzzi

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Racconto di stefano qv

Oggi quassu’ è stata una giornata di merda… volevo (anzi dovevo) fare un bel giro in moto e fermarmi sui monti in una certa gelateria dove lavora una certa ragazza…
Quindi questa mattina, mi alzo bel bello e motoguzzo fino alla palestra, faccio le mie cose palestrose, e quando esco per tornare a casa noto che l’aere non promette proprio una giornata bellissima… ma nonostante questa premessa, metto in moto la Cali e arrivo fino a casa,pensando che tra un paio d’ore sarei stato bello bello seduto in quella gelateria e a perdermi negli occhi di quella poveraccia, che non ha idea di che razza di deficente le abbia messo gli occhi addosso… accarezzo questo pensiero e la giornata non mi sembra piu’ nemmeno tanto uggiosa… anzi, sono sicurissimo di aver intravisto qualche sprazzo di sole da qualche parte.

Comunque,arrivo a casa… saluto il cano,bevo il mio bibitone proteinico… mi faccio la barba,e già che ci sono mi rifaccio la doccia (sono un ragazzo pulito io) poi mi preparo… devo essere figo… massì, mettiamoci la giacca di pella vintage e il casco aperto… con il california fanno pendant!
Gia che ci sono prendo il completo antipioggia…tanto la Cali ha le valigie laterali… quindi anche se so che non lo userò, non mi darà nessun fastidio portarmelo dietro.

Ok,sono pronto… tempo di preparazione…1.45 minuti…nemmeno Amanda Lear ci mette così tanto… esco di casa… PIOVE!

Ma piove davvero… piove da sopra e anche di traverso!

Mi siedo sopra al V11 e dalla casetta di legno dove si trovano le moto guardo la pioggia… come se guardandola riuscissi a far smettere… niente da fare, il mio sguardo non è abbastanza penetrante.
Cosa fare?
Io devo andare a vederla!
Io so che lei mi aspetta!
E’ due settimane che al sabato vado a mangiare il gelato piu’ schifoso della germania solo per attaccare bottone con lei!

… ma piove veramente tanto… anche per un Minkia come me!

Decido che è ora di pranzo… potrei andare al Mac con la macchina… mangiare… e sicuramente smetterà di piovere!
E’ la soluzione ideale!
Detto fatto, mi tolgo la giacca e l’appoggio sul cali, rientro in casa,risaluto il cano (il mio cano mi vuole troppo bene) prendo le chiavi e via sotto la pioggia.
Piove piu’ forte di quello che pensavo… i tergicristalli fanno fatica a tenere pulito il vetro (queste macchine krukke, manco l’acqua dal vetro sanno togliere…), è un casino guidare,le rotaie del tram, i tedeschi che attraversano, i tedeschi che guidano… ci sono tedeschi dappertutto qui!
E c’è anche il semaforo rosso!
mi fermo e aspetto il mio turno… ma attraverso il vetro punteggiato di gocce,cosa vedo?
Una moto!
Ma chi caxxo è il cogxxxne che va in giro con quest’acqua?
Non starà mica andando in gelateria sui monti anche lui?
E che razza di moto è?

La moto in questione non è molto riconoscibile… è parecchio lontana da me,si vede solo che è rossa,ha una gigantesca carenatura che ricopre tutta la parte anteriore,ha una gigantesca borsa nera sul serbatoio e un orriderrimo tris di bauletti bianchi (bianchi! Shocked )…

Proprio matti sti krukki!

Ma non riesco a capire che moto sia!

All’incrocio ci siamo solo io e lui… io sono fermo per il semforo rosso,mentre lui parte perchè dalla sua parte è diventato verde… la moto mi passa davanti… è a circa 30 metri da me… ma non riesco comunque a capire che moto sia… piove veramente forte… sembra che ci sia la nebbia.
Intanto scatta il mio semaforo e istintivamente mi getto all’inseguimento della moto e lo riprendo al semaforo successivo.
Me lo ritrovo prorpio davanti, mi sposto un pò di lato per vedere la moto di trequarti e individuare il modello

E’ una Guzzi!

Vedo e riconosco subito i cilindri attraverso la carenatura.
Guardo meglio i particolari, il serbatoio con la scritta in stampatello, le marmitte nere e sporche con le ventoline allo scarico… e leggo la scritta sul fianchetto “850 le mans”!

Il semaforo scatta e io seguo il tipo,ci immettiamo in autostrada,e io osservo questo povero pirla che con una moto che ad andar bene avrà almeno 30 anni,bardato come un rifugiato del kosovo,che affronta la pioggia con la moto carica come un mulo… Impressionante vedere quella moto in quel contesto!

L’immagine del Vero Motociclista!

L’ho seguito per un pò,seguendo la nube d’acqua che tirava su e abbassando il finestrino per sentire il rumore dei Lafranconi… poi mi sono affiancato,ho abbassato il finestrino destro e l’ho salutato con il pollice, quello mi guarda, mi sorride e ricambia con il pollice.

Mi ha messo di buon’umore questa cosa…chissà quante volte ho visto motociclisti durante i temporali… io stesso ho preso la mia razione…ma questa Guzzi oggi mi ha proprio colpito!… un’altra moto non mi avrebbe fatto lo stesso effetto.

Che coglione che sono… ma che figata essere Guzzisti!

P.s.
Ha smesso di piovere… e io sono andato a fare il cascamorto… e sono pure stato fortunato,in un certo senso,perchè la tipa mi ha dato appuntamento per stasera… ma sono caduto dalla moto mentre tornavo a casa…niente di grave… ma ho dimenticato un polpaccio sotto alla pedalina del passeggero… e sono andato in bianco!

Traversata delle tre Americhe in moto – Santa Monica

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di Claudio Giovenzana

Da San Francisco a Santa Monica sono 600 km, diverse ore in sella con due possibilità: o la strada costiera o la direttissima.
Scegliere la strada più veloce non sempre significa stancarsi meno. Viaggiare due ore in più mantenendo i 90 km orari in mezzo a un paesaggio mozzafiato può essere meno stancante di correre 40 km più veloce su una highway per meno tempo. Hai meno vento contro e più coinvolgimento con il paesaggio circostante, l’esperienza della moto si distingue maggiormente su questo genere di percorrenze. La costa di Santa Lucia misura 80 miglia, forse 90, è fatta di curve adiacenti a pini marittimi e scogliere. L’odore della salsedine mescolato alle resine dei pini vale da solo la scelta di abbandonare la highway, mi inebrio con respiri profondi e mi immagino che se una persona mi chiedesse ora da dove provengo gli direi fieramente “Io sono l’uomo che viene dall’altro oceano”. Dall’atlantico al pacifico sono passati tanti giorni e tanti km, storie che a raccontarle si riempirebbero tranquillamente serate intere tra amici.
E sono solo all’inizio. Fantastico.
Gli ultimi giorni a San Francisco sono stati un recupero dell’ “anima pantofola” e una perdita momentanea dell'”anima del viaggiatore”, troppo tempo inchiodato al computer, troppi contatti con riviste e periodici, troppa amarezza e frequente la sensazione di non cavarne un ragno dal buco ma di essere invece preso per i fondelli. Fatte salve ovviamente alcune persone che hanno dimostrato partecipazione concreta, anche nei fatti, al mio viaggio. All’incirca il 5% di quelli contattati tramite mail e il 10% di quelli contattati tramite telefono.
Preparare la moto è stato come uscire da un sonno letargico pieno di sogni non sempre belli. Una notte ho sognato Giorgio Bettinelli, non mi ricordo il contenuto del sogno, a giudicare dall’agitazione era forse una sorta di anticipazione onirica della sua morte che mi è stata comunicata tre giorni dopo per mail. Al ricevimento della notizia le lacrime prima e poi una sorta di “effetto rimbalzo” che ha messo a tutta forza la sala macchine facendomi desiderare di nuovo la strada. L’idea che nasceva in quella vampata di desiderio e movimento interiore, dopo la triste notizia, era raccogliere il testimone da lui lasciato e iniziare a correre. O almeno continuare per un pò in una staffetta simbolica dove venderesti l’anima al demonio pur di correre il tuo maledetto pezzo, viverlo, assaporarlo e raccontarlo. E così giorni dopo alzo finalmente il culo piatto dalla sedia e inizio a cinghiare zaino e tenda sulla schiena del ferro che si desta anch’esso con il suo fare da “monocilindrico” pigro. Quando dopo pochi secondi anche l’altra metà di motore si accende non rimane che dare gas e allontanarsi.
Attraverso un banco di nebbia e pioggerella che dura tutta la costa, il paesaggio è ugualmente bello e percorrerlo è una piccola goduria. Arrivo a Santa Monica che è buio, mi fermo in un parcheggio e aspetto l’arrivo di Todd, fondatore di Guzzitech, il sito maggiorente frequentato dai Guzzisti americani. Arriva su una jeep e ci abbracciamo senza convenevoli. Sarò ospite in casa sua per qualche giorno, con lui la sua compagna e i due figli di lei, gente a posto, gente della california meno vulnerabile alla frenesia della Est coast, forse perchè temperata nel carattere dalla continua esposizione al sole, senza inverni depressivi.
I giorni sono trascorsi più rapidamente che a San Francisco, sono riuscito a indaffararmi facendo il tagliando alla moto nell’officina- garage di Todd.
Cambio degli oli, filtro olio e combustibile, registrazione valvole e la sostituzione del rubinetto della benzina con uno meccanico più affidabile. Il vecchio casco mi lasciava un punto rosso costante sulla fronte e mi faceva perdere capelli quotidianamente. Ne ho comprato un’altro, più comodo e leggero. La borsa da serbatoio che stava insieme con le spille da balia è stata anch’essa rimpiazzata con una più robusta. Invece i pantaloni antipioggia con la lampo rotta e “l’infiltrazione facile” con un paio a corpo unico più leggero e senza cerniera. Ho comprato uno scotch nero robusto e ho iniziato ad avvolgere quasi ogni parte cromata della moto facendola diventare decisamente più brutta e apparentemente danneggiata: non mi piace luccicare nel terzo mondo. Attiro abbastanza l’attenzione per una serie di motivi e non ne voglio aggiungere altri. Con Todd siamo andati a un motoraduno e infine su e giù per colline di Malibu, una volta abbiamo fatto una discesa di 5 minuti a motore spento che sembrava di condurre a vela. La moto di Todd è il medesimo modello della mia ma leggermente “riveduta”: condotti scarico valvole centralina ed estetica sono stati personalizzati con il risultato di 90 cavalli alla ruota e un look fantastico. Non c’è verso di starle dietro anche perchè Todd nella guida sportiva non conosce molti rivali. Quando aveva due anni con il suo triciclo si è buttato giù dalle scale che portavano in cantina, dopo aver rotolato sino a rovinare sul pavimento la prima cosa che gli è uscita dalla bocca è stata “Ancora!!”
Rimaneggiando un’espressione di Bettinelli io mi considero un “guzzista di lungo raggio” perciò accantono la guida sportiva e mi concentro sulla lunga gittata. Verrò lasciato solo a casa con i figli per qualche giorno, poi anche loro se ne andranno, trascorrerò da solo l’ultimo giorno approfittando dell’ultima connessione “facile” a internet per cercarmi articoli e documenti.

La mattina della partenza compro una guida e una mappa del Messico e parto per attraversare la “grande cicatrice”.

MESSICO

“Quanto costa questo orecchino?”
“10 dollari.”
“Ah ah, buona questa, guarda che non sono un “gringo””
“Ah vedo che sai come si tratta… ”
“Si un poco, perchè non facciamo in pesos ok?”
“Ok, ti faccio 60 pesos”
“No no, posso darti 20”
“50”
“40”
“No 50”
“ok va bene 50 la coppia”
“guarda che 50 è il prezzo per uno solo”
“ahh.. io pensavo per due… senti ti dò 30 per uno solo”
“no no.. senti facciamo 45 per tutti e due, ok?”
“ok”
E così da 10 dollari (120 pesos) per un orecchino pago 45 per due, un sesto del prezzo di partenza per la coppia. Questo è ciò che mi tocca fare, a volte con gran piacere e a volte meno, nei mercati dei paesi meno modernizzati. In queste realtà la strada diploma gli individui meglio che la scuola e i mercati sono le prime università. Non è solo il luogo degli affari ma anche di perle di cultura e folklore, una palestra per i modi di fare e una vetrina per vedere il bello e il brutto come il vero e il falso. Anche questo è Messico, “l’altra parte del confine”, il nemico-amico degli States. Appiccicato come un gemello monozigote condivide interessi commerciali e giochi economici dove però quelli che “stanno sopra” sono sempre gli Stati Uniti.
Arrivo la notte a Tijuana, tanto per cambiare, il cellulare non funziona e non riesco a contattare Juan, cerco a spanne di trovare il suo indirizzo chiedendo tra chioschi che vendono “birri” avvolti nell’odore delle carni e delle spezie. Trovo la strada dopo qualche tentativo alla cieca e qualche indicazione approssimativa. Conosco così Juan, gentilissimo, mi mette subito a mio agio e mi offre un letto degno di questo nome e il bagno per la doccia.
Iniziano a cambiare i connotati esterni e interni delle case: portoni arrugginiti e intonachi scrostati, cortili polverosi con materassi e cianfrusaglie accatastate. Mi sento bene, è questo il mondo che cercavo, la povertà che risalta sostanza e semplicità, le superfici rovinate e la polvere danno più smalto alle persone e agli incontri. Ci sarà tempo per contemplare la bellezza della natura ma per il momento ho solo occhi per un mondo così diverso e affascinante. Lo stesso che visitai tre anni prima per poche settimane con lo zaino in spalla. Ora ho il tempo che voglio e una moto per andare dove voglio. Inizio concretamente dal bagno di casa sua.
La luce si accende avvitando la lampadina, le cucrachas con sei zampette e due antennine seguono i loro percorsi sulle pareti, non fanno male a nessuno.
La doccia è del modello: “Scegli la tua morte”
Busta A: giri una manopola e muori ibernato da un getto assomigliante a una stalagmite che si protunde fino a intrappolarti in una prigione di ghiaccio.
Busta B: giri l’altra manopola e muori bruciato da un getto di acqua a 90 gradi.
Le manopole non sono contrassegnate altrimenti tutti sceglierebbero l’ibernazione.
Con la delicatezza e il polso di uno scassinatore di cassaforte si tratta di trovare la combinazione giusta per un flusso d’acqua di umana sopportazione. Trovare il flusso giusto dopo 2 giorni senza doccia è come per il surfista cavalcare l’onda perfetta.
Dopo un paio di ustioni superficiali ho successo e mi godo il mio flusso.
La moto è parcheggiata fuori. Juan mi assicura che non corre pericoli, i tre cani che ci fanno le feste quando entriamo appena ce ne andremo diventeranno tre Gargoyle impiantati a sorvegliare la proprietà. Se qualcuno dovesse entrare verrebbe assalito immediatamente… anche dall’ultimo dei tre che assomiglia a un salsicciotto semovente di due spanne. Una sera quando sono tornato da solo ho aperto il cancello e mi sono chiesto in cuor mio se i tre avessero già registrato il mio odore a sufficienza per considerarmi un amico. Fortunatamente mi sono venuti incontro scodinzolando.. bene.. Il più grande dei tre, sguardo triste e pelo nerissimo, si chiama “negro” che in castigliano significa semplicemente “nero”, è affettuoso e mansueto ma per difendere il suo territtorio è capace anche di saltare il cancello coronato da punte di ferro rischiando di sventrarsi.
Tijuana è pericolosa.
Mi sveglio la mattina, accendo la televisione: questa notte sono stati 10, uno in più della media. Nove secondo la classica regolazione di conti a pallettoni e uno misteriosamente trovato in scatola di montaggio in mezzo all’immondizia. Braccia, gambe e testa staccate dal tronco.
Faccio due passi nella Avenida Revolucion, un tempo talmente piena di turisti e militari americani alla ricerca di divertimento che non si poteva passare; i 4000 negozi aperti e il continuo movimento dentro e fuori il confine ne facevano una delle città più turistiche del Messico. Adesso dei 4000 negozi 2500 hanno chiuso, la gente è preoccupata e fugge, Juan pensa che la criminalità attraverso una “politica del terrore” stia tentando di spopolare quartieri interi costringendo i cittadini a vendere le proprietà a prezzi ribassati per andarsene il più in fretta possibile. Molti hanno già accettato di vendere la propria casa alla metà. Il sindaco dice che è un momento “di passaggio” ma sono parole che non lasciano eco, molta gente continua a vivere con paura, io sono in una parte della città relativamente sicura, su di me vegliano i Gargoyle e quando cammino per il centro ho un occhio supplementare che come una telecamera indaga i volti, gli angoli tra le strade e le penombre sotto le costruzioni più alte. Si riesce sempre a essere rilassati e sereni, basta un poco di prudenza. Come in molte pericolose città ci sono comportamenti che con un pò di buon senso riducono i rischi considerevolmente. Ricordo alcuni Statunitensi e le loro raccomandazioni idiote sul saltare il messico per intero come fosse un anello di fuoco da imbucare con la moto dopo la rincorsa sulla rampa per poi atterrare in Guatemala. Per ogni paese dell’america centrale e latina ho raccolto sconsigli e diffide, purtroppo per me non ho intenzione di fare il giro d’Italia. Provo paura alcune volte ma il desiderio di vedere e conoscere prevale, non sono mai stato incosciente tuttavia.
Oltre alla cosmetica per abbruttire la moto su questa non ci sono adesivi della bandiera a stelle e strisce, sarà stupido ma la reputazione dei “Gringo” (“Green” riferito alla divisa verde militare “Go” come vattene a casa) non è certo stata costruita su scambi amichevoli e cooperazione internazionale, ci sono nefandezze nella storia dei rapporti tra questi paesi che fanno accapponare la pelle, la bilancia delle colpe naturalmente non pende verso un solo Stato, c’è sempre stata una complicità di alcuni individui e governi anche nell’altro. Perciò, nonostante molti luoghi e persone degli States siano stati una bellissima esperienza, non intendo caricarmi dei loro simboli nel viaggio.
Tra parentesi: oggi ai militari statunitensi è proibito entrare in Tijuana.
Le altre raccomandazioni per aumentare la propria sicurezza riguardano dove tieni i soldi, cosa ti porti in giro e dove lo metti, come cammini e in che parti della città.
I morti sono sempre collegati alla mafia locale, i turisti rischiano solo per i soldi che i loro oggetti valgono.
Juan lavora in un chiosco dove vende fiori, o monta e smonta ogni giorno, domenica compresa e continua a lavorarci nonostante la crisi economica abbia decimato i suoi guadagni.
Siamo seduti su una cassa in plastica nel parco “Torre agua caliente”, in mezzo a fiori in vendita e ai suoi conigli che scorrazzano nel prato. Parliamo e scopro una volta ancora un uomo di grande fede. Non è la prima persona che incontro in cui la ricerca della felicità si mischia e confonde con i percorsi della fede. Juan è un profondo credente; in una città dove sangue e pallottole sono il bollettino quotidiano, la preghiera, il lavoro e la famiglia sono le sponde entro le quali continuare la propria vita. “La felicità è come un contagocce” mi dice, non arriva mai tutta insieme, arriva a gocce che cadono nel presente, non nel passato o nel futuro. “Nella mia vita la ricerca della felicità è iniziata quando ho intrapreso un cammino di fede…in carcere”.
Una notte del ’79 lo assalirono in quattro, aveva una pistola. L’ha usata.
Ha ucciso una persona e gli hanno dato 12 anni per pensarci sopra.
Conobbe una monaca in carcere, le fischiava e le urlava di andarsene, questa continuava a parlare di Gesù, non si fermava, tornava spesso e parlava ancora di Gesu’. Un giorno entrò in carcere e prima di iniziare a parlare ai detenuti scrisse una lettera e gli diede imbustata. Scoppiò un terremoto che durò alcuni minuti.
I detenuti erano terrorizzati e stavano per precipitarsi fuori dallo stanzone. Lei urlò di rimanere dove erano che non avrebbero corso alcun pericolo. Il terremoto fini e lui venne invitato ad aprire la busta. C’era scritta l’ora esatta di inizio e di fine del terremoto e la sua intensità comprovata dal notiziario successivamente trasmesso in televisione.
“Dio mi ha detto che non ci sarebbe stato pericolo per voi” Le disse mentre lo guardava con dolcezza. Dopo 4 anni dall’inizio della condanna lo rilasciarono, non ci credeva, piangeva, rideva e sospettava uno scherzo, ma sua madre era veramente fuori dal carcere ad aspettarlo, era vero! Andò a studiare teologia a Chicago, ritornò in Messico e iniziò una nuova vita.
Mi ha invitato in chiesa ma ho rifiutato cordialmente, volevo stare a scrivere e riposare. E’ stata una giornata piena, tra mercati dell’artigianato, mostre di fotografia e passeggiate nel centro. Il giorno seguente è il mio compleanno, il primo della mia vita lontano da tutto e tutti, non fa così male come sembra. Qualche telefonata e ci si riannoda affettivamente a chi sta lontano. Fa più male però passarne la metà tra uffici doganali per cercare di ottenere timbri sul passaporto e documenti di importazione. Cercando il timbro di uscita dagli states mi dirigo alla frontiera statunitense insieme a una fila di messicani, uno che stà due persone avanti a me dopo il controllo dei documenti viene appoggiato al bancone e ammanettato. Dopo un minuto tocca a me, l’agente mi perfora con lo sguardo senza sbattere le palpebre una volta soltanto, e io a cercare di farle capire che non sto cercando di entrare negli States ma solo di ottenere un cazzo di timbro per dimostrare che sono uscito prima che scada il permesso. Non hanno timbri di uscita ma solo di entrata e quindi un agente mi accompagna contro la corrente della folla indietro verso il messico. Sistemo tutto quando faccio l’importazione temporanea del veicolo, finiscono così i problemi per me e iniziano quelli della moto:
“Motoguzzi California”
“Moto que???”
“Motoguzzi”
“te pongo como marca “otro” porque no hay motogusi en la computadora”
“Esta bien” – sti ca..
E poi
“los numeros de titulo no corresponden”
“mire que no hize nada a la moto!! es original! ”
Torno a casa e ritorno con la moto per dimostrare che i numeri di telaio sono gli stessi che sul libretto. Ottengo il documento.
Vado a comprarmi una torta per festeggiare il compleanno con Juan, la sua compagna e un ragazzo di strada che vive con loro e dorme nel terrazzo.
C’è l’usanza di mordere la torta per intero, cosi immergo la faccia dentro e do inizio al festeggiamento…e buon compleanno a me! Sono 29 e sono sereno, tanta strada da fare e tanta soddisfazione di aver mollato il canovaccio che vivevo prima di partire, per tanto tempo o per poco dipende da troppi fattori per parlarne ora. Penso solo a mandar via idee troppo complicate per un compleanno e a mandar su gli zuccheri con la torta.
“Happy Birthday Asshole” mi scrivono Ken e Maureen dal Canada.

Raggiungo con la moto carica il giardino centrale a tijuana dove Juan ha il suo chiosco di fiori. Ogni giorno arriva con la sua jeep arrugginita e ne estrae tavolo, ceste di plastica, secchi e fiori, monta tutto in 10 minuti e libera i suoi conigli nel prato per farli mangiare. E’ il momento di andarsene. Ci abbracciamo e lo ringrazio sentitamente per l’ospitalità, ci auguriamo di rivederci un giorno e prima che me ne vada mi consiglia di richiamarlo non appena raggiungerò Guadalajara, metterà qualche buona parola per farmi ospitare da alcuni suoi amici.
Mi allontano da Tijuana e inizio a entrare nel deserto, la strada che percorre la bassa california è una sola, la seguo per qualche centinaia di km fino a sera, seguo le indicazioni per un hotel in riva al mare, la strada che vi porta diventa un viale delimitato da file di palmeti una per lato della carreggiata. Suona lusso sfrenato e invece in fondo vi trovo alcune roulotte e due cani che si lanciano abbaiando ai lati della moto, uno persino davanti alla ruota. Continua a correre a un metro dal pneumatico anteriore sino a costringermi a fermarmi. A piedi raggiungo la prima roulotte e guardandomi intorno vedo che l’hotel non è altro che una costruzione scheltetrica in cemento poco più alta delle fondamenta. Alle roulotte chiedo se posso fermarmi a piantare la tenda e la risposta è “dove vuoi gringo”. Puntualizzo che non sono un gringo e che ringrazio molto per l’ospitalità, mi piazzo a 30 metri dalla spiaggia, prendo la moto e vado a cercarmi un posto dove mangiare qualcosa. Scorgo una piccola roulotte al lato della strada polverosa, sterzo e parcheggio di fronte, scambio quattro chiacchiere con la signora ai fornelli e ordino un paio di tacos con gamberoni. Compro tre lattine di coca cola da regalare ai messicani che mi hanno ospitato sulla spiaggia, saluto e me ne vado. La notte inizia in mutande e finisce con il pile. Mi sveglio alle quattro di mattina con quel brivido costante a fior di pelle che ricorda il canada… non me lo aspettavo dal Messico! E’ colpa del vento che corre lungo l’oceano atlantico sino a raffreddarsi e ventilare le coste con una brezza fresca che dura tutta la notte.
Mi copro e mi faccio le ultime ore rotolandomi nel sacco a pelo facendo un kamasutra di posizioni per trovare quella perfetta senza torcicollo. La mattina me ne vado e continuo lungo la “1” attraversando diversi posti di blocco, i militari si piazzano in punti privi di asfalto e con qualche manichino e qualche cono di plastica indirizzano le machine verso un posto di vedetta. Non attiro particolarmente il loro interesse e mi lasciano andare. Nei primi posti di blocco erano in tuta mimetica .. poi con il crescere della temperatura avvicinandosi al mar di cortes li trovo gocciolanti di sudore in pantaloncini e t-shirt. Faccio benzina pochi km più avanti e scorgo un cartello che indica “prossimo rifornimento 320 km” !!! Credevo il problema rifornimenti fosse passato con il Canada ma a quanto pare ho da attraversare quasi tutto il deserto di V. prima di trovare una nuova pompa. Dovrei riuscire ad arrivare “dall’altra parte” se non esagero con la manetta, trotterello a 90 all’ora e dopo ore e ore mi fermo finalmente in una pompa di benzina. Quando mi avvicino c’è qualcosa di strano.. Ci sono le insegne ma sotto il tetto enorme in cemento armato non ci sono pompe.. ci sono bidoni arrugginiti con rifiuti bruciati. Incontro un uomo con il sombrero poco lontano e gli compro a 50 pesos 5 litri di benzina. Riprendo la marcia e mi fermo esausto a mangiare in un piccolo bar nel mezzo del nulla, ci sono tre americani dentro e uno di questi sgrana gli occhi al vedermi arrivare con una motoguzzi. Appena mi fermo mi viene incontro, “è la prima che vedo qui.. anche io ne ho una” Mi presenta i suoi due amici e mi racconta delle spiagge di Loreto, a un paio di giorni di strada, proprio dove loro hanno una casa e proprio dove io sono diretto. Mi lascia su un biglietto qualche indicazione per raggiungerla e mi promette ospitalità, perfetto! Li saluto, finisco il mio tacos e quando chiedo di pagare scopro che lo hanno fatto loro per me, mi sdebiterò tra qualche giorno, che sorpresa! Seguo le indicazioni per una spiaggia, sta facendo buio e sono solo le 6 di sera, all’imbrunire ho percorso qualche km di quello che rimane della carreggiata arsa dal sole e sparpagliata in manciate di pezzi d’asfalto. Mi stufo e 100 metri dopo l’ultimo lampione chiedo a un signore di lasciarmi piantare la tenda fuori dalla sua proprietà, detto fatto. Mi godo un tramonto meraviglioso nel mezzo del deserto, poi crollo in tenda. Mi sveglio in un paio d’ore, guardo l’orologio e sono solo le 20.30, mi metto a leggere le ultime pagine stampate sugli Stati Unti Messicani e poco altro. Dormo e mi sveglio insolitamente presto. Alle 8.30 sono già in sella, ottimo, potrò percorrere tanta strada oggi. Imbocco di nuovo la carretera distrutta per ritornare sulla “1”. Scorgo una stradina insabbiata che scorre a lato, sembra più morbida e percorribile, abbandono quella che sto percorrendo sterzando dolcemente. Il bordo della strada si infossa in cumuli di sabbia, la ruota anteriore scivola e mi ritrovo per terra. Poco male, succede a cadenza settimanale ormai, sono abbonato. Alzo il ferro e mi accorgo della sorpresa: l’aggancio di metallo della borsa laterale nell’urto con la sabbia si è spaccato, la borsa è al suolo. Con una cinghia l’assicuro al telaio e continuo sino a raggiungere il mio primo caffè dopo tre giorni, è li nel bar che mi aspetta. Con un pò di liquidi in corpo riesco a ragionare, adesso si tratta di riparare la borsa. Mi cercherò un ferramenta nella prossima città. Riparto ma mi accorgo che i guanti mancano all’appello, ritorno nella strada schifosa e la ripercorro sino a ritrovarne uno insabbiato, faccio dietrofront e trovo accartocciato anche l’altro. Adesso la mia armatura è al completo. Parto. A Guerrero Negro dopo un altro posto di blocco militare faccio staffetta tra negozietti “riparatutto” costruiti sotto lamiere arroventate dal sole. Smontando pezzi di stereo un ragazzo mi trova tre viti della dimensione giusta. Torno dal meccanico al quale avevo lasciato il ferro ma nel frattempo aveva già riparato l’aggancio con tre viti della giusta misura saltate fuori da qualche parte. “Sono 100 pesos” “naa.. facciamo 50” Mi svuoto le tasche con monetine messicane, quarti di dollaro e un paio di dollari canadesi. Ci salutiamo dopo esserci fumati una sigaretta e aver fatto due chiacchiere accovacciati all’ombra in mezzo ai rottami. Il sole è cocente, anche guidando a 100 all’ora il vento sembra solo aggravare l’equilibrio termico, anche il ferro ci mette del suo e mi scarica sulle gambe la sua brezza a 60 gradi, sono costretto a guidare con le ginocchia all’infuori, i piedi talvolta appoggiati sui paramotori talvolta al bordo estremo delle pedane. Altro posto di blocco, stavolta in mezzo a cactus impennati come antenne, militari in tenuta quasi da mare mi perlustrano con cenni del capo e chiedono da dove provengo e dove vado. “Sud America?!!…andale andale!”.
Arrivo in un piccolo paesino sulle costa del mar di cortes, mi trovo per 5 dollari un posto dove mettere la tenda e una doccia. Ho dimenticato ancora l’asciugamano!! Mi asciugo con la maglietta, questa volta la scelta cade su quella Guzzitech, regalatami una settimana fà da Todd. Dopo due giorni e mezzo senza acqua corrente mi trovo fresco come una rosellina, nel bar mi avvento su una birra e scambio quattro chiacchiere con 3 ciclisti, una coppia partita dal canada e l’ultimo dei tre, uno spagnolo, partito dall’Alaska. Mesi e mesi di viaggio senza motore sotto il sedere. Una birra in compagnia e quattro chiacchiere sul mio viaggio e sul loro. Poi è tempo di andare a riposare di nuovo.

Traversata delle tre Americhe in moto – San Francisco

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Traversata delle tre Americhe in moto - San Francisco

di Claudio Giovenzana

Sono da ore su una sedia senza ruote e senza motore. Il tempo è adatto a sedimentare pensieri e riprendere il filo con gli ultimi scritti. Giorni seduto nella sedia dello stesso bar dove mi sono guadagnato il diritto di entrare ogni mattina e chiedere “il solito”: una tazza di caffè e un pezzo di torta che se va bene mi aspetta da solo un giorno, se va male anche da un paio. La cameriera dice ad alta voce il prezzo per farsi sentire dal titolare ma poi mi fa segno con le dita qual è il “prezzo amicizia” che le devo. Altro piccolo traguardo dopo aver fatto amicizia parlando spagnolo.
Le chiacchiere diventavano spesso discorsi con la focale aperta sul mio viaggio di lungo raggio e sul suo, forse molto più avventuroso, che iniziò varcando la frontiera con gli States un anno prima. Ascolto così un’altra storia di ricerca della felicità, un altra fuga semicosciente verso un futuro migliore che porta i doni della novità e dell’opportunità ma che costa il distacco dalle proprie radici. Cominciò un lunedì quando il fratello che viveva con lei in Messico le offrì l’occasione di andare con lui negli States. Si trattava di un “biglietto di sola andata”, a piedi e senza documenti, cercando di varcare uno dei confini più controllati del mondo. Un confine chiamato “la Grande Cicatrice” sulla quale vengono uniti, con una chirurgia da dottor Frankenstein, due mondi troppo diversi. Lacrime e panico, una indecisione talmente pesante da non poterla sopportare sulle spalle, la fatidica partenza era fissata soltanto due giorni dopo. La decisione di partire le venne come un singhiozzo dopo i tanti dei giorni fatti a piangere e riflettere con la valigia mezza piena e mezza vuota che aspettava il verdetto. Iniziò la marcia nei boschi e nelle montagne, di notte, correndo e sostando per ascoltare i rumori tra i cespugli. La paura di essere scovati e i ripensamenti mentre l’ipotermia iniziava a strisciare su dai piedi e il fratello si svestiva per coprirla e le massaggiava le gambe. Arrivò a San Francisco con un dollaro, un fratello e una sola lingua, quella sbagliata. Ci volle tempo.
Adesso lavora, non può ancora permettersi un’assistenza sanitaria ma può permettersi di sorridere e di avere nuovi amici intorno. Io sono uno di questi, l’ultimo arrivato. Mi dà il numero di suo padre e mi promette che lui mi ospiterà a Tijuana quando varcherò la frontiera messicana. Tijuana, in una famosa canzone, fà rima con “alcooldrogasessoemarijuana” e probabilmente anche con tutto il corollario di malavita e povertà che cinge il suo grande centro. Ora che ho la promessa di un tetto e un luogo dove parcheggiare la moto posso pensare di adottarla come meta futura, almeno per un pò. Questa città è la rampa di lancio per 10.000 messicani che ogni anno si preparano a lanciarsi oltre la frontiera con gli States.

Ma torniamo a San Francisco, alle strade pazze dove passeggiamo con la macchina fotografica nascosta cercando di sfuggire agli sguardi di giocolieri, mercanti e artisti. Allegria e festa intorno al porto, marmaglia di gente che serpeggia sullo “shore” vicino all’oceano e vicino ai gabbiani che si fanno avvicinare sino alla distanza di un braccio prima di scappare. Ci troviamo un posto al chiuso, un tazza di caffè e due sedie imbottite, il tempo di raccontarci un pò ancora e poi via di nuovo tra la folla cercando di avvistare le chiatte sulle quali le foche si sdraiano a prendere il sole. Torniamo con il pullman su fin sopra alle colline, lontano dalla “downtown”, diventa buio. Ogni pullman di San Francisco mostra chiaramente il mix di culture e razze che ha reso famosa la città: afro, chino, italo, latino sono solo alcuni strati etnici che animano i quartieri. Seduti sulla panca sentiamo urlare 5 metri dietro di noi: due stanno litigando, vengono alle mani, la gente è paralizzata, il pullman si ferma il mio sguardo cade sulla ringhiera che chiude il pilota nella sua piccola cabina. Si apre di colpo come fosse la mezza porta di un Saloon dei film western e ne sbuca fuori una donnona di colore di 100 Kg, si piazza in mezzo al corridoio passeggeri e con una voce tipo Aretha Franklin urla: “c’è qualche cazzo di problema li in fondo ah? Portate il vostro culo fuori da qui che chiamo la polizia”
Adesso dopo averla vista sono terrorizzato anche io pur essendo dalla parte dei “buoni”. I due si defilano immediatamente e magari diventeranno anche amici accomunati dall’esperienza con la temibile autista. La donnona riprende il suo sedile, scuote la testa e dice a bassa voce, quindi che possiamo sentirla solo fino a metà pullman, “fanculo”.

Arriviamo e la mia amica mi invita a seguirla in un locale “particolare”, perchè no… Appena entrati vengo abbracciato da un signore con uno strano accento portoghese che mi grida in spagnolo “Dio ti ama” “..ah” “Dio ti benedice” “ah..che devo fare?” “Entra e canta”. Sono approdato a una comunità cristiana apostolica di portoghesi; la gente canta con le mani alzate, io rimango a custodire il mio angolo semipartecipe ma ad ogni modo incuriosito, in questo luogo non ci sono bisbigli e genuflessioni ma chitarra acustica e batteria, persone in piedi che dondolano nella musica con gli occhi chiusi. Arriva il momento della predica e mi trovo la mia amica a tradurmi dal portoghese in spagnolo nell’orecchio sinistro, nel destro c’è la vicina di sedia che aggiunge in inglese alcuni dettagli per farmi capire il libretto che tento di decifrare. Dopo 45 minuti sono esausto, ho perso la mia lingua madre e chiacchierando in strada mescolo spagnolo e inglese come fossero un nuovo Esperanto. Conosco così il Ministro di questa chiesa apostolica, il secondo dall’inizio del viaggio, questo non sembra fumarsi marijuana come l’altro ma è anch’egli gentilissimo, amichevole e accogliente. Mi racconta del Brasile, della strada che dovrei percorrere per attraversare centinaia di km di foresta amazzonica.. poi mi da del pazzo con una pacca sulla spalla e infine mi benedice e invita a visitare la sua terra.

Il giorno dopo mi dirigo alla comunità “figli di Italia” giusto per salutare qualche connazionale, suono e arriva una giapponese che mi reindirizza “all’associazione italiana” di via russia. Ci vado, entro e chiedo “C’è qualcuno che parla italiano?” “No”.
Non importa, parlo con il cuoco in inglese, mi racconta la storia della loro associazione, di italiano ci sono i piatti di pasta e le memorie dei loro nonni e bisnonni arrivati in America ad inizio secolo. Ma l’idioma si è perso nel tempo, qualche parola è resistita alle censure dei loro padri che li rimproveravano quando sentivano che tra di loro “non si sforzavano di parlare la lingua del luogo”.
Sulla parete ci sono i quadri con i nomi di tutti i membri dell’Associazione, sono pittoreschi perchè associano nomi americani a cognomi italiani, sembra di leggere i titoli di coda di un “mafia movie”. Dal cuoco passo a parlare con Marco e da Marco alla sua intera tavolata dove vengo accolto da brindisi con calici di vino, bene. In un momento di silenzio Marco prende la parola e dice “Non abbiamo abbastanza soldi per offrirti da mangiare perchè li abbiamo investiti in stock dell’Alitalia”. Scoppio a ridere con tutti i commensali. E’ stata una piacevole, finta, re-impatriata all’italiana, chiacchiere, sorsi di vino e racconti tra le nostre due nazioni amiche. E’ il mio turno di parola, inizio ripetendo quasi a memoria i primi 10.000 km di strada, il Canada e le frontiere, i miei viaggi in Centro e Sud America come “backpackers” e ora la nuova attraversata da confine a confine su gomma, con il mio “ferro”..ecc..ecc. Poi entriamo nello specifico, recupero un dettaglio non trascurabile: “la felicità”. Spiego il progetto del viaggio e l’intento di raccogliere storie che possano disvelare le forme culturali o soggettive di questa strana parola, felicità, che tutto e niente può indicare ma che spesso è molto più presente nei copioni di vita delle persone di quanto non lo sia in quelli di Hollywood. Cosi il viaggio da frontiera a frontiera diventa anche un viaggio da storia a storia, da “history a history” ma anche da “story a story”.
“Sounds good” dice uno di loro e dopo poco mi passa per telefono una giornalista americana di San Mateo che mi intervista per 10 minuti. Finita intervista e pasta lascio l’associazione con la pancia piena promettendo a tutti che sarei passato a salutare prima di lasciare la città. Torno dal pastore della chiesa apostolica a salutare anche lui, ma non ho scampo, un attimo dopo essere entrato inizio ad attaccare bottone prima con i suoi amici e poi privatamente con lui, seduti come commilitoni sui gradini di quello che costituisce il loro spartano altare di fronte a un centinaio di sedie vuote.
Mi da il suo numero di telefono, la mail e inizia a disegnarmi su un volantino della sua associazione una mappa geografica del Brasile, mi spiega dove passare via terra e dove no, come comportarsi con un anaconda e come non sottovalutare un piranha lungo anche solo 5 cm. La “carretera” dal Venezuela infatti entra nella foresta amazzonica per mille km prima di incontrare una strada asfaltata percorribile. Tengo a mente tutto e quello che la mente non tiene viene appuntato sul foglietto patinato che inizia a riempirsi di sagome dei paesi sudamericani.
Non so grazie a quale calamità naturale o psicologica ma ogni posto che vado è una religione che trovo, cosi è stato a Cuba quando mi trovai “scelto” da un Santero per una cerimonia in mezzo a un cerchio di 30 persone in una periferia di Santiago, così è stato in Africa quando sono stato ospitato da due donne musulmane e ancora a Thunderbay, in Canada, nella casa del Ministro che cercava di dimostrarmi come un versetto della Genesi contenesse un invito al consumo di marijuana.
Be, parlando di felicità il pastore mi consegna gli indizi per una bella storia.
Ho solo un nome parziale e con questo inizio le mie ricerche su internet, dopo aver sfogliato pagine finalmente trovo quanto cercavo:

Traversata delle tre Americhe in moto - San Francisco 1

La storia del Team Hoyt.
Dick Hoyt si accorse presto che suo figlio nascituro aveva qualcosa che non andava, i medici diagnosticarono un problema cerebrale dovuto a una carenza di ossigeno; il destino per la medicina era segnato e alquanto negativo. Il padre però non si rassegnò a lasciarlo in un istituto, lo prese con sè e inizio a costruirgli un interfaccia per comunicare attraverso un computer con i movimenti della testa. Dopo anni le prime parole digitali di Rick, dopo aver visto una partita di hockey, furono “Go!!”. Dick prese questo come un segno della predilezione del figlio per lo sport e iniziò a portarlo con sè nelle sue sessioni di jogging spingendolo sulla carrozzina. L’allenamento e la passione crebbero, Rick attraverso il computer diceva che “anche se sono disabile correre con mio padre mi fa sentire vivo”, iniziarono le prime gare, le prime lunghe distanze. Il padre spingeva la carrozzina del figlio per miglia e miglia, lo portava su una bicicletta speciale per partecipare alle gare di Triathlon e lo trainava in un gommone legato alle spalle quando nuotava. Nel 1992 percorsero insieme 3.735 miglia tra bici e corsa lungo gli Stati Uniti per 45 giorni, ad oggi hanno partecipato a 229 Triathlon e 66 maratone. Quando chiesero a Rick cosa avrebbe voluto regalare a suo padre rispose “vorrei far sedere mio papa sulla sedia e spingerlo almeno una volta”.
Archivio mentalmente questa storia insieme a quella di Terry Fox, Ken, Maureen e Sue che vi ho raccontato nei post precedenti. Interessanti le cose che le persone fanno per cercare la felicità vero?

Traversata delle tre Americhe in moto – Toronto

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Traversata delle tre Americhe in moto - toronto

di Claudio Giovenzana

Vi introduco a questo particolare diario di viaggio, scritto tra strade motel e accampamenti in tenda e parchi naturali. Nonostante la difficoltà di tenere un diario aggiornato in difficili condizioni di clima e confort scrivo con il sapore fresco delle esperienze appena fatte e sentendo ancora il profumo dell’avventura che sto per raccontarvi. Nove mesi orsono decisi di attraversare in solitaria il continente americano dal Canada sino all’Argentina, il primo autentico viaggio che feci fu convincersi a partire sopportando per sette mesi l’idea che avrei abbandonato a tempo indefinito le mie consuetudini e il mio lavoro. Il secondo viaggio fu iniziare a comprendere i meandri burocratici da percorrere per ottenere spedizione della moto e documentazione necessaria per attraversare tutti i paesi. Il terzo viaggio, di cui vi parlerò in questa sede, ha preso forma poco più di un mese fa quando dopo aver sdoganato la moto a Newark negli Stati Uniti ho iniziato a salire verso il Canada dando inizio alla traversata in solitaria del secondo paese più grande del mondo: dieci milioni di chilometri quadrati, 10 province, 6 fusi orari.
Sono entrato in Canada il 17 agosto alle cascate del Niagara, pensavo di percorrere solo poche centinaia di chilometri, preoccupato dai costi elevati rispetto alle mie mete future e diffidente rispetto al clima decisamente più ostico, pensavo sarei presto rientrato negli Stati Uniti cercando la Route 66 alla volta della costa occidentale. Non potevo immaginare che vi sarei rimasto un mese, un mese intero di strada, boschi, cittadine e incontri, un mese alla ricerca di leggende e di storie che raccontassero quanto stavo osservando folgorato dalla bellezza che mi circondava. Ancora non sapevo che stavo per esaurire i soldi sulla carta di credito, ne che mi sarei fermato a chiedere ospitalità e lavoro in una fattoria, ne che sarei finito nelle case delle persone più gentili e accoglienti, tantomeno che avrei attraversato uno dei parchi più belli del Nordamerica: il Jasper Park, guadagnato dopo aver percorso centinaia di km sotto l’acqua finendo una volta bloccato in tenda quasi un giorno intero sotto tuoni e lampi e un’altra volta a riparare la moto con qualche grado sotto zero.
Correvo con il polpastrello sulle mappe, seduto nella mia piccola tenda, cercando di indovinare e anticipare le strade che avrei percorso e le città che avrei visitato, propendevo per un “mordi e fuggi” dove l’assaggio del Canada sarebbe rimasto relativo alla parte sud dell’Ontario e la fuga sarebbe stata mille chilometri dopo al più tardi. Mi trovavo in Ontario all’inizio, pensavo a quella provincia come fosse una piccola variazione sul tema del mio viaggio Americano, una sorta di “escursione nei boschi”. Eppure presto avrei appreso la reale estensione della sua superficie, ben tre volte più estesa di quella dell’Italia; unitamente alle altre nove regioni iniziava a formare le prime percezioni del Canada come qualcosa di mastodontico. Dalla carta delle mappe all’asfalto del manto stradale molte cose cambiano, una di queste è stata la decisione di attraversare tutto tutto il paese, o quasi, piuttosto che farmi solo qualche giornata. Successe quando mi resi conto che i soldi richiesti alla banca per caricare la carta di credito non arrivavano, ero a Warwick poco dopo le Niagara Falls indeciso se varcare il confine e rientrare ancora negli States, decisamente più economici. Eppure fuggire nonostante la mancanza di denaro non mi sembrava la soluzione più confacente alla mia curiosità, chiesi cosi ospitalità in una fattoria offrendo il mio lavoro in cambio e incontrando la meravigliosa accoglienza di cui sono capaci i Canuck, questo mi convinse a vivere il Canada più a lungo decidendo di attraversarlo quasi per intero sino alla costa occidentale. Eppure culturalmente non riuscivo a inquadrare ne il paese ne tantomeno i canadesi, c’era una sorta di schermo percettivo attorno al Canada che rifletteva l’immagine degli Stati Uniti impedendomi di comprendere veramente quali fossero le sue origini, la sua idiosincrasia e i suoi tratti peculiari.”Canada come natura”, questo era il sillogismo principale e poco mi aveva aiutato la televisione, più spesso occupata a puntare le cineprese sul “Made in Usa” che a parlare di altre realtà.
Parlando con i canadesi mi sono reso conto che in effetti non sentono di possedere un’immagine identitaria cosi forte e netta come gli Stati Uniti che sotto la bandiera stelle e strisce raccolgono le popolazioni più eterogenee uniformandole molto più di quanto non accada altrove. Il vero ritratto di Canadese, anche detto simpaticamente “Canuk” lo ho incontrato nell’orgoglio per la natura e nella propria buona reputazione su scala globale oltre che nell’accoglienza e nell’operosità dei mestieri. Il “melting pot” canadese, ovvero la miscela di culture razze e provenienze, non sigilla in un protocollo ciò che è Canadese per distinguerlo da ciò che non lo è. Ho appreso che i Canadesi sono orgogliosi di esserlo all’estero ma nella loro terra si percepiscono più facilmente nella loro distinte provenienze. Mi è capitato così di conoscere canadesi di discendenze croate, italiane, scozzesi, ucraine e sudamericane, tutti fieri di abitare una unica terra dalla natura rigogliosa e incontaminata ma anche di possedere al contempo la storia delle loro origini altrove, in altri continenti e altri paesi.
Gli incontri sono stati una chiave di volta per comprendere questi spazi che a colpo d’occhio assomigliano a tappeti verdi srotolati lunghi migliaia di chilometri che ospitano orsi, alci (i cosidetti “moose” dei cartelli stradali), castori cervi salmoni e aquile. Eppure, sfogliando guide, passeggiando per città e parlando con persone si scopre la cultura all’interno della natura: le storie degli “Amerindi”, dei “Metis” e degli “Inuit” gli autoctoni che hanno subito le mire coloniali dell’Inghilterra e della Francia, ma anche le leggende locali e i personaggi che le hanno dato vita. La leggenda di Charles Blondin è la prima che incontro mentre osservo i 600 metri di ampiezza della acque che si rovesciano diventando le cascate più famose del mondo: le Niagara Falls. Nel 1860 questo uomo le attraversò per la terza volta camminando su una fune d’acciaio, a metà strada si fermò e si cucinò un’omelette su un fornellino portatile, un tiratore scelto poi sparò al suo cappello da una barca 50 metri più in basso. Poche centinaia di km dopo c’è Toronto che conserva la leggenda di Glenn Gould, il pianista più carismatico e strano del mondo: a 32 anni smise di suonare dal vivo sostenendo che gli spettacoli erano troppo imprevedibili e caotici, odiava gli sport sanguinari ai quli assimilava anche i concerti “live”. Aveva una vita pubblica limitta alle sale di registrazione e faceva lunghissime telefonate in ore notturne ai suoi amici collezionando bollette da migliaia di dollari. Diceva di odiare il virtuosismo e le poche volte che suonava in pubblico sedeva su una vecchia e bassa sedia cigolante costruita dal padre, “i pianisti siedono troppo in alto” diceva, non c’era brano musicale che su richiesta dei suoi conoscenti non sapesse suonare all’istante grazie alla sua prodigiosa memoria, iniziava sempre mettendo le braccia in un secchio di acqua bollente per attivare la circolazione poi sedeva sulla piccola sedia e si dondolava mentre toccava i tasti e accompagnava le melodie con la voce. L’estro creativo, a detta di alcuni o la pazzia a detta di altri, lo spinse a reinterpretare i brani classici considerando i calibri di Mozart o Chopin alla stregua di “uomini di spettacolo e nulla più”. Leonard Bernstain che lo diresse in un’occasione si scusò anticipatamente con il pubblico dichiarando che non lui ma bensì Gould stesso, sarebbe stato responsabile di quanto suonato alla platea. “Quel pazzo è un genio” si disse di lui quando nel 1956 il suo album di musica classica fu il più venduto al mondo, poi nel 1982, data in cui dichiarò avrebbe smesso completamente di suonare, morì.
Mi allontano dalle Niagara Falls e copro altri 300 km in mezzo a foreste di pini e laghi.. una vista maestosa, inizio a capire l’orgoglio dei canadesi per la loro terra e la percorro trotterellando con il motore a bassi giri, un occhio puntato sulla strada e uno sul cielo. Sopra di me le nubi formano geometrie imperfette accostando il bianco e il grigio, mi trovo spesso al confine tra nubi “buone” e nubi “cattive”, solo le curve della strada decideranno sotto quali dovrò transitare. Non vedo le pecorelle nelle nuvole, vedo solo gigantesche cisterne pronte a rovesciarmi addosso i loro umori, suole scure pronte a schiacciarmi, a volte sembrano astronavi dalle quali fuggo a piena velocità facendomi sfiorare dall’acqua solo pochi minuti. Arrivo a Thunderbay sulla costa settentrionale dell’imponente “Superior Lake”, realizzo subito il senso di questo nome altisonante guardando i fulmini che dividono il cielo, sino a poco prima ho incontrato un buon clima, pochi rovesci e poche ma lunghe strade: la 21 che costeggia il lago Huron sino all’incantevole porto di Tobermory, poi dopo aver traghettato con il Ferry verso Manitoulin island ho ripreso la marcia sulla interstate 17 sino a giungere alla “baia dei fulmiini” sotto la pioggia e i lampi.
Tre giorni prima a Tobermory ho incontrato un signore attratto dagli adesivi attaccati alla moto che raffiguravano il continente americano con la scritta “3 Americas”, gli ho spiegato in poche parole la mia destinazione finale, l’Argentina. Le nostre affinità elettive per i viaggi e l’intercultura ci hanno consentito di familiarizzare rapidamente e ho ottenuto il suo numero e indirizzo di Thunder Bay. Così, bagnato fradicio estraggo dalla tasca il loro numero e li chiamo. Mezz’ora dopo sono a casa loro, dai convenevoli passiamo subito ai discorsi, scopro di essere stato ospitato da un “ministro della chiesa”, forse battista o protestante, non ho ben afferrato. Si parla quindi di religione e io esprimo la curiosità e l’interesse che ho sempre avuto verso quelle appartenenti alle popolazioni centro-sud americane, riferendomi ai sincretismi ed ai culti che racchiudevano sotto vestigia cattoliche le divinità appartenute alle epoche precolombiane. Lui replica che non sono da confondere con la religione cristiana perchè..alla fine.. “o sei con Cristo o sei anti-Cristo”. Ok faccio un passo indietro e scambio quanto udito per inflessibilità e dogmatismo. In realtà poco dopo mi renderò conto che c’è stato una sorta di malinteso, era frutto di una speculazione esegetica che non riguardava le sue convinzioni. E’ tutt’altro che dogmatico e inflessibile come dimostrano i fatti che seguono: in un battibaleno tira fuori un pacchetto di marijuana e mi confessa di esserne un grande amante, mi racconta di come i fedeli lo abbiano criticato per questo “Ma come fa un uomo di Dio a fumare spinelli?” “Perchè non leggete la Bibbia!” mi racconta e va immediatamente a prenderne una, mi sventola davanti un versetto della Genesi con scritto di come nutrirsi dei frutti della terra, in particolare quelli contenenti i loro stessi semi sia cosa buona e giusta.. poi mi mostra fiero il sacchetto pieno di foglie sbriciolate e semini. Un’interessante interpretazione dei testi sacri. A completare il quadro ci saranno poi le storie dei funghi messicani e del peyote e la sua foto di quando cantava in un gruppo rock.
La sua disponibilità nei miei confronti è stata meravigliosa, mi ha lasciato dormire sul divano, fare la doccia calda e proprio dopo essermi lamentato delle sembianze da spaventapasseri mi ha regalato una camicia che gli vestiva fuorimisura. In effetti, anche impegnandomi, il mio vestiario è decisamente calibrato sulla leggerezza e semplicità, quindi la camicia a scacchi ricevuta in dono diventerà il mio pezzo da collezione, una sorta di smoking per le occasioni speciali.
Parlo anche con sua moglie, originaria di Acapulco e con le due figlie deliziose e simpatiche e poi gioco un poco con Frida: il loro piccolo chiwawa costantemente percosso da brividi anche solo quando mi limito a guardarlo, penso che avrebbe timore anche di un puffo. L’indomani ci salutiamo con abbracci, foto e la promessa di rimanere in contatto via mail.
Prima di partire mi ficca in tasca 20 dollari e dice ridendo che di soldi ne ha troppi.. “come mai?” “mah..fortuna..”
Un’altra città lasciata e un’altra leggenda, quella di Terry Fox: Terrance Stanley Fox all’età di 18 anni si ammalò di cancro e gli amputarono la gamba destra. Determinato a cercare una cura per recuperare i fondi organizzò una corsa da costa a costa e il 12 aprile 1980 partì da St.Jhon’s in Terranova. Per 143 giorni corse 26 miglia al giorno, soffrendo a causa della sua menomazione ma insistendo negli sforzi sino a coprire cinque province. Raccolse 35 milioni di dollari canadesi. Arrivato al miglio 3339, qui a Thunderbay, il cancro ai polmoni lo costrinse a tornare a casa, morì l’estate seguente. Passo ad est della città per vedere il bronzo che lo raffigura impegnato a correre.
Riprendo anche io a muovermi lungo la Terry Fox Courage Highway in direzione di Winnipeg, il sole cala, abbellisce i laghi di mille lucciole e arricchisce i pini di mille ombre, il tramonto arriva e mi cerco in una via secondaria un posto dove campeggiare, uno dei tanti “CampGrounds”. In Canada potete trovare molti campeggi, motel o “inn” per passare la notte, e anche se non possedete un mezzo vostro potete affittare una macchina o prendere biglietti turistici per pullman o treni che attraversano per migliaia di chilometri l’entroterra sino a raggiungere le coste, alcuni di questi hanno anche convenzioni per i pernotti o addirittura posti già prenotati in diverse località. Potrete trovare informazioni negli uffici turistici o sul sito della compagnia di trasporti per i pullman o per i treni.
Pianto la tenda in una radura meravigliosa, accendo il fuoco e poi giusto il il tempo di mangiarmi un panino e le luce si ritira sulla linea dell’orizzonte lasciandomi all’imbrunire seduto su una pietra a finire l’ultimo frutto. Rimango imbambolato a guardare il fuoco che scoppietta, ricordo con piacere i bivacchi con gli amici che facevo da ragazzino, li rivedo nei bagliori e nelle ombre del fuoco, immagino le loro voci e provo una serena malinconia. La libertà di viaggiare da soli chiede in cambio un tributo alla solitudine, lo pago, entro in tenda, poi nel sacco a pelo e mi corico dopo una piccola veglia alle stelle di 5 minuti, estasiato dalla “calotta” di cielo nero come la pece con le sue mille lentiggini bianche spruzzate nel cielo.
Mi lascio alle spalle la provincia dell’Ontario dopo giorni di strada ed anche un fermo della polizia che mi ha messo in guardia sui pericolosi attraversamenti dei “moose”, le alci canadesi, e degli orsi lungo le statali che sto percorrendo. Avvicinandomi a Winnipeg entro nella provincia di Manitoba e mi riconnetto all’Interstate numero 1, la cosidetta Trans-Canada che conduce sino a Vancouver sulla costa Ovest e poi volto a nord per immettermi sulla numero 16 diretta a Nord-Ovest verso le montagne rocciose canadesi. Dopo l’Ontario il paesaggio inizia a diventare piatto e monotono, trovo più interessante guardare il cielo che nonostante la minaccia di rovesci mostra un’infinità di nubi intrecciate che creano diversivi alla piattezza dei campi circostanti. Alla fine della giornata ho percorso 500 km di cui gli ultimi 100 assistendo a un progressivo peggioramento nel cielo, ho iniziato la riserva ma non ho incontrato stazioni di rifornimento aperte, la situazione si è fatta critica e le mie condizioni fisiche sempre più tirate. Ho imboccato la prima strada sterrata sperando di incontrare qualcuno a cui chiedere permesso per piantare la tenda, purtroppo l’unica casa era vuota ma 20 metri più in la ho scorto una piccola strada nei campi parzialmente bloccata da una sbarra di metallo, sono riuscito a passare con la moto e dietro vi ho trovato un cimitero di automezzi abbandonati in mezzo ai campi: trattori, vecchi furgoncini, jeep e un paio di mezzi agricoli. Dopo una buona mez’ora di indecisione non ho saputo resistere e mi sono accampato quanto più lontano dalla vista possibile. Ho fatto due riprese video ed ho montato la tenda anticipando di pochi minuti lo scatenarsi dell’inferno: pioggia battente, lampi e fulmini a ripetizione. Sono stato letteralmente bloccato nei miei pochi metri cubi di tela in attesa che il tempo si fosse rasserenato, le prime ore della notte sono passate tra lampi e tuoni tanto da dovermi tirare il sacco a pelo sugli occhi per evitare la luce dei lampi rifratta mille e una volta sulla superficie della tenda. Tenevo le dita incrociate a scongiurare che l’acqua entrasse in qualche intercapedine e rimanevo appallottolato nel mio bozzolo di piume d’oca.
Sono stato bloccato in tenda 16 ore in totale, sebbene i lampi siano terminati dopo due o tre la pioggia prima forte e poi lieve ha insistito sino al primo pomeriggio del giorno seguente. Uscendo dal cimitero di automezzi dove avevo trovato rifugio sono stato immediatamente fermato da un urlo: era il proprietario che sentendo la moto si è messo a bloccarmi la strada. Fortunatamente dopo avergli spiegato le condizioni tragicomiche che mi hanno spinto a sostare nella sua terra la situazione si è distesa, è stato comprensivo e si è pure offerto, qualora non avessi trovato benzina, di regalarmene un gallone. Ho fatto da me, scoprendo a 10 km una stazione di rifornimento.

Procedo silenzioso lungo l’interstate 16, mi dirigo ad Ovest ma guadagno miglia anche verso nord, da quando sono entrato in Canada ho cambiato fusi orari e anche diversi modi di vestire, prima ero con la maglietta e la giacca adesso con maglione giacca di pelle, pile antivento girocollo, guscio e pantaloni antipioggia; e non basta ancora per isolarmi dal freddo.
Avvicinandomi al polo Nord la differenza di clima si sente, ma la posso sopportare, almeno per ora, quando arriverò alle Rocky Mountain, nel Jasper Park dovrò inventarmi qualcosa per non patire il freddo. Il mio vestiario non mi consente molta autonomia in caso di rovesci, resisto sotto pioggia battente non più di 100 km, poi il bagnato e il freddo iniziano a infiltrarsi anche sulla schiena, le gambe e le mani sono le prime a soccombere, la volontà di proseguire viene subito dopo. Viaggio appoggiando le gambe e la mano sinistra alle teste dei cilindri che mi regalano calore, ma è ben magra consolazione.
Costeggio tantissimi laghi, in Canada sono più di 30.000, e in alcuni di essi abitano strani animali marini, ci sono leggende e controversie scientifiche in merito a strani avvistamenti come quello dell'”Ogopogo” serpentiorme e lungo 13 metri apparso un anno fa agli occhi di due canadesi nel lago Okanangan. Oppure il “Ponik” del Boucanee River, o il Manipogo del lago Manitoba.
Finalmente dopo parecchia strada mi guadagno un cielo abbastanza terso e lo sguardo si riposa su quanto mi circonda: pianure, campi coltivati e pieni di balle di fieno arrotolate. Le possibilità di camppeggiare “liberamente” si riducono parecchio, in Ontario prendendo la prima perpendicolare alla trans-canada con buone probabilità e qualche cattivo sterrato si trovava una nicchia isolata per piantare la tenda. Il campeggio libero è permesso ma nella provincia di Saskatchewan e Manitoba trovare un posto isolato per la tenda e la moto è ardua impresa, soprattutto perchè quasi tutti i terreni agricoli che fiancheggiano le statali sono proprietà recintate.
Arrivo quasi nella regione di Alberta, la penultima attraversando il canada in direzione ovest prima della Columbia Britannica, il sole tramonta e prendo una strada secondaria, mi fermo in una fattoria chiedendo se c’è un posto per piantare la tenda. Nonostante faccia gli occhioni dolci e racconti la mia impresa transamericana il proprietario freddamente mi da le indicazioni per un campeggio distante una trentina di km, poi richiama i tre cani che nel frattempo mi stavano perquisendo con i loro tartufi. Ringrazio e me ne vado, non mi ha concesso la sua terra per una sola notte ma almeno mi ha dato qualche indicazione. Raggiungo il campeggio che è quasi notte e piazzo la tenda illuminandomi con il faro della moto.

E’ il 3 settembre,

mi lascio alle spalle il campeggio Silver Lake dopo aver passato una notte decisamente fredda, nel pieno del mio dormiveglia mi sono dovuto rimettere la giacca da moto, il freddo era pungente e nonostante mi girassi come uno spiedino arrotolandomi nel sacco a pelo la situazione non cambiava. Sono comunque riuscito a riposare ma le borse sotto gli occhi che mi ritrovo al risveglio sembrano dire il contrario. La mia marcia dura più di 400 km, finalmente il parco di Jasper si fa vicino, in prossimità di Edmonton mi sono fermato in un WallMart acquistando una coperta e un paio di guanti da lavoro in gomma che ho riadattato con la forbice, non sono molto comodi ma proteggono dall’acqua meglio di quelli bucati che uso ormai da anni. Me la sono cavata con 20 dollari e la compassione di una commessa. Stradafacendo sono riuscito a prendere ancora acqua, colpa delle solite nubi-astronave che troppo spesso mi capita di incontrare. Mi fermo a un Mcdonald e bevo un caffe bollente per riscaldarmi, prendo un giornale locale e strappo di nascosto le previsioni meteo. Le conservo come un amuleto portafortuna, geloso delle informazioni che contengono che per una volta depongono a mio favore. Sembra che nei prossimi giorni non vi sarà rischio di pioggia lungo il mio tragitto. La sera mi fermo in una pineta a lato della strada, è una sorta di campeggio senza gestori, accendo un piccolo fuoco e mi scaldo le due scatolette di pollo comprate il giorno prima, una cena essenziale ma gradevole. Sfrutto il caldo del fuoco per asciugare il Toporso, il mio pupazzo-mascotte ricevuto in dono alla mia nascita da parenti che nemmeno ricordo. Le fiamme sono forti e i bottoni che si trova al posto degli occhi si sciolgono, lo levo subito e mi maledico. Rimango chino osservando le fiamme e sistemo alla meglio i pezzi di legno perchè possano bruciare il più a lungo possibile. La mia tenda dista due metri, è la distanza di sicurezza minima per evitare inconvenienti con eventuali tizzoni ardenti ma al contempo insufficiente per ricevere il calore del focolare. La temperatura scende sotto lo zero e ho già capito l’antifona, ripeto meccanicamente le procedure di vestizione come un palombaro che assicura il suo scafandro. Anche oggi è arrivato il riposo del guerriero. Domani dovrò recuperare quante più informazioni possibili sulle condizioni climatiche delle montagne rocciose, c’è il rischio che debba rinunciare ad attraversarle per il lungo da Nord a Sud, pena l’assideramento. Vedremo

E’ il 4 settembre, parto alla volta di Jasper Park, uno dei parchi più belli e incontaminati del nord america, la casa di “Moose”, l’alce Canadese, e dei suoi amici selvaggi. Mi capita di incontrarne un paio che fortunatamente non intendono lanciarsi contro la moto ma rimangono ai bordi delle strade, riesco a fargli due foto. Poi raggiungo Jasper dopo aver pagato la mia tassa di ingresso al parco naturale, faccio benzina perchè la prossima stazione di rifornimento sarà a 140 km di distanza, controllando quanti litri immetto nel serbatoio inizio a rendermi conto che la moto sta consumando di più da dopo l’acuqazzone preso per 16 ore consecutive qualche giorno prima. “D’accordo, ti ho lasciato fuori come uno bastardo per 16 ore senza coprirti e hai cercato vendetta aumentando i consumi e terrorizzandomi con la spia dell’olio per 20 km prima che decidessi di spegnerla da sola…, me lo merito ma adesso piantala!! Ti ho coperto con il tuo maledetto sacchetto di plastica di due metri e mezzo tutte le altre notti.. e non dire di no!” – Silenzio –
Un signore con la sua moto da enduro mi approccia, si chiacchiera e poi guarda la mia motoguzzi.. “mm.. non ti ha mai dato problemi?” “no” “non si è mai rotto niente?” “no” … ma a tradimento arrivano i ricordi di quanti km fatti a spingere le mie vecchie moto, forse più di quanti fatti in sella, poi quelli dello spedizioniere che mi raccontava come l’unica Guzzi spedita in america l’hanno prima fosse scesa dal container e salita direttamente sul camion dell’officina perchè non partiva.. Mando via i brutti pensieri che per il Guzzista equivalgono a una momentanea “perdita della fede”, concludo la mia chiacchierata chiedendo consigli su strade e percorsi. Riprendo movimento lungo l’unica strada panoramica, è decisamente un lustro per gli occhi e un supplizio per il corpo che di chilometro in chilometro si raffredda sotto il vento che arriva dai ghiacciai soprastanti, mi fermo, faccio due foto e poi genuflesso come un cavaliere appoggio le mani sul cilindro sinistro cercando di usurpare tutto il calore che produce. Riprendo tra laghi, montagne e pinete meravigliose, arrivo a Lake Louise, tra Banf Park e Jasper Park, trovo un campeggio, scrivo due righe al computer e inizio a montare il mio armamentario. C’è foschia nell’aria e ognuno nella propria piazzola rimane seduto sulla sua panca di legno senza socializzare, chi legge con il berretto calato sino alle sopracciglia e chi sta appoggiato al sedile della macchina con lo sguardo fluttuante tra le cime dei pini. A me tocca prepararmi un panino con il salame. Mangio e come di consueto metto cibi e avanzi in un sacchetto a diversi metri dalla tenda, una contromisura per gli orsi, purtroppo contravvengo al buon senso e mi tengo i biscotti in tenda, li difenderei a costo della vita e voglio svegliarmi il giorno seguente e mangiarli subito. Rido leggendo sulla guida del parco che esistono spray “anti orso”, ero rimasto a spray che fermano zanzare o al limite stupratori ma a quanto pare ce ne sono anche per bestie di 300 kg. Alcuni mi chiedono come mi regolo con il problema degli animali selvatici, grizzly nella fattispecie o “black bears”. In effetti mi è capitato di leggere di tutto al riguardo, chi consiglia di fischiare, chi di accovacciarsi, chi di arrampicarsi, chi di fingersi morti. L’unica cosa certa è che sto sottovalutando il problema, o meglio, ho sempre tenuto i cibi lontani dalla mia postazione ma ho anche sempre pensato che la goffaggine e la mole di un orso lo renderebbero decisamente lento e impacciato qualora tentasse di inseguirmi mentre scappo. E’ qui che sbaglio. Ken, presso cui sto sostando da un paio di notti, mi ravvede subito “if you run away you’re fucked man!!” e scopro che un orso può raggiungere i 30 – 40 km orari. In sostanza, mi spiega Ken, non c’è scampo, se stai tranquillo molto probabilmente si disinteressano rapidamente a te e cercano cibo, ma se dovessero attaccarti l’unico modo è rannicchiarsi e proteggere la nuca cercando di stare immobili. “Ma se spaventi un piccolo grizzly e sua madre è nelle vicinanze molto probabilmente sei fottuto ugualmente” dice Ken, “..se invece è un giaguaro o un orso nero allora gli puoi risultare appetitoso anche rannicchiato per terra e in quel caso fai bene a mostrarti aggressivo, ma sino a che non si mette male stai sempre calmo e tranquillo” Insomma credo che sarei morto ancora prima di capire da che specie vengo aggredito ma fortunatamente le casistiche sono veramente rare anche se ogni anno si contano sempre le vittime di aggressioni. Bene, fatta la cronaca nera, riprendo a raccontare il trascorso; mi alzo la mattina dopo passata a lottare contro il freddo con la mia nuova coperta di pile e al posto dell’orso trovo un corvo lungo 40 cm che passeggia tra le piazzole cercando cibo. Leggo i messaggi sul cellulare, il mio amico meccanico mi scrive “come va con la Guzzi?” e io rispondo “benissimo”. Accendo la moto per scaldare il motore, e inizio a sentire un odore fin troppo familiare: benzina. Scopro un tubo che perde e sotto una lieve pioggerellina inizio a smontare il serbatoio con un piglio e un’allegria da funerale. Trovo il maledetto tubo, è consunto e a ben ricordare mi ero pure appuntato di prendermene un metro di scorta, mai fatto. Lo avvolgo con il nastro isolante e rimonto tutto, guardo la moto contrariato e non dico una parola, lei nemmeno. Accendo il motore e il tubo non perde più, non lascio trasparire contentezza, è troppo presto, semplicemente mi rimetto in marcia. Ridiscendo lungo il Banf park. Tre ore dopo incontro Ken.

Ci sono tre cose che non devi fare per fare arrabiare Ken:
1) Non fargli mancare le sigarette: Ken fuma solo quando arrivano stranieri fumatori e gode nel farlo quindi non togliergli questa possibilità
2) Non parlare bene degli Indiani: Ken affitta lo spazio per la sua casa in una riserva indiana in cui gli indiani ricevono casa, soldi, assitenza e qualsiasi copertura senza pagare nulla, nemmeno le tasse. Questa è una forma di “scusa” per i torti subiti ma Ken si è stufato di vederli ubriachi e nullafacenti.
3) Non sbagliarti quando lo chiami: il suo nome è Ken e non Kent

Tre sole avvertenze e poi la strada dell’amicizia è spianata e percorribile. Cosi stiamo seduti in veranda a chiacchierare insieme a Maureen, entrambi sono sulla sessantina, affabili e simpaticissimi. Lui è di discendenze ucraine e lei scozzesi. I discorsi ci trasportano in ogni dove, finche parlando del senso del mio viaggio concordiamo sul fatto che è una fortuna e che è normale che attiri l’invidia di molti. Io replico raccontando le mie preoccupazioni relative al vuoto che ho davanti pensando al mio futuro, un vuoto che posso riempire con la libertà di decidere e fare quello che voglio ma anche un vuoto che mette ansia in certi momenti, nella fattispecie quando penso a chi nel mio paese ha “attraccato porti sicuri” e messo radici consuete e tranquillizzanti che in questo momento sento di non possedere. Possiedo una moto e un pc portatile ora, prima anche la certezza di come e dove impostare la mia professione e la mia vita.. adesso le ho perse.
“Guarda amico mio” mi dice dondolando sulla sua sedia in legno nella veranda che affaccia sulla riserva indiana “ho lavorato duro nella mia vita, ho deciso di fare soldi e fermarmi a 55 anni, ritirarmi e godermi i frutti del mio lavoro, poi a 54 anni successe una cosa…”
“Cosa?” replico io.
“Mi diagnosticarono un tumore al sangue che ora, attraverso una proteina, colpisce anche le terminazioni nervose impedendomi di fare certi movimenti” e mi mostra la mano tremante mentre cerca di muovere una penna tra le dita.
“Non c’è speranza, mi hanno dato qualche anno di vita”
“I am a death man walking my friend”
Dissimulo sul volto quanto mi passa dentro: è forte.
“Non è strano? Ho tutte queste cose e non posso sfruttarle, la roulotte che ti ho lasciato per dormire non posso più guidarla e rimane li immobile, adesso c’è una lieve remissione dei sintomi fortunatamente ma… la malattia rimane”
“E’ raro incontrare persone ricche di tempo e ricche di denaro” mi aggrego io riprendendo un pensiero nato in questo stesso paese un mese prima.

“Ti racconto una storia my friend: c’è un becchino che preparando un cadavere prima della sepoltura gli controlla le tasche e vi trova dieci dollari dentro, e sai cosa dice?”
“No”
“Dice: Questo uomo ha lavorato mezz’ora più del necessario”
“Cosa significa?” Rispondo.
“Significa che quell’uomo ha speso quello che ha guadagnato nella sua vita tranne quegli ultimi 10 dollari avanzati, quella mezz’oretta di lavoro in più, è stato bravo a far avanzare così poco, cosa ti serve morire ricco?”

Dopo pacche sulle spalle e l’augurio di un buon riposo ci salutiamo tutti e tre, mi incammino vero la roulotte e vado a letto sereno, ancora una volta stupefatto e contento dello splendido incontro fatto con queste persone.
Ripenso a quando ci siamo conosciuti due giorni prima:
“Salve, conosce per caso un posto nei paraggi dove posso piantare la tenda?”, mi rivolgo con questa frase a un uomo che lavora il suo orto dopo 30 minuti di sterrati alla ricerca di un fantomatico campeggio gratuito segnalato da un cartello in prossimità del confine con gli Stati Uniti a Sud di Calgary. Il signore mi guarda, “dove sei diretto?” “ma..principalmente in sud america ma per il momento sto rientrando negli Stati Uniti dopo aver attraversato il Canada..”. “Hai detto sud America? .. vieni puoi piantarla nel mio giardino, ho lavorato ovunque in sud america!”. Cosi conosco Ken e sua moglie Maureen, mi fermerò da loro alcuni giorni ospitato non nel giardino ma bensì nella loro bellissima e confortevole “MotorHome”, una roulotte di 7 metri equipaggiata di tutto che lasciano parcheggiata di fianco alla loro casetta nella riserva indiana di Tobacco Plains Il posto è incantevole e le conversazioni prendono le direzioni più disparate, dal mio viaggio ai loro, dalla loro vita alla mia, dal Canada all’Italia passando per Stati Uniti Europa e Oriente, e molto più in là..
Sono eccitato alla sola idea di avere un tetto sopra la testa e un piccolo calorifero elettrico che mi permette di dormire in mutande, cosa che non facevo da più di un mese a causa del clima tutt’altro che mite. La prima sera, rimango seduto sugli scalini della roulotte esausto per le ore di viaggio ma meravigliato da questo ennesimo incontro. E’ la seconda volta che provo ad uscire dal confine canadese ed è la seconda volta che un forza immateriale fatta di circostanze, accadimenti e incontri mi trattiene nuovamente entro i suoi confini per scoprire e conservare ancora di più. La natura di questo viaggio è affidata al caso fortuito, all’improvvisazione e alle condizioni meteo ma inizio a sentir crescere sullo sfondo una trama più complessa e sensata fatta di incontri esperienze e storie che mi orientano meglio di quanto non abbiano fatto le mappe o i depliant. Prendo il mio tempo dunque e rientro nella motorhome per vivermi la prima notte al di sopra dello zero, arrotolato in una coperta che non devo dividere con batteri ed acari e con una stufetta che si cura di tenermi caldo fino a mattina. Questo è l’ultimo ambiente del mio racconto canadese, iniziato in un motel e continuato lungo la strada e in tenda. Per quanto delizioso sia il posto e per quanto lo siano Ken e Maureen a breve dovrò levare le ancore e riprendere la strada magari posticipando ancora l’ingresso negli Stati Uniti spostandomi verso Vancouver per qualche altro centinaio di chilometri.
Prima o poi dovrò girare verso sud e iniziare la lenta caduta libera verso il centro e Sudamerica cambiando climi, stagioni, ambienti lingue e culture.

I mie primi km sulla mia prima Guzzi

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Racconto di Giacomo

Ebbene si.. il sogno si è avverato..

Fin da piccolo ho sempre sognato di guidare una Guzzi.. ogni volta che sentivo i “grandi” che ne parlavano.. e raccontavano dei loro viaggi.. pensavo sempre “chissà se un giorno ne avrò una anche io..”

Anche mia mamma ci ha fatto qualche viaggio prima che nascessi.. mi parlava spesso di quella “Guzzi 1000” con cui viaggiava da giovane.. e da quando me ne ha parlato è sempre rimasta nei miei pensieri..

Finalmente, dopo anni di lavoro e di risparmi, dopo qualche anno di purgatorio con un paio di giapponesi, sono riuscito a regalarmene una in occasione del mio 27simo compleanno, passato qualche giorno fa..

E’ il mio quarto acquisto a due ruote.. dopo una Aprilia RS 125 (presa a quattro soldi per imparare..) una Suzuki Marauder VZ800 (Custom) e una Honda CBR 600F..

Ed ora finalmente.. sono riuscito a comprarmi una MOTO con tutte le lettere maiuscole..

Dico così.. perché tutte le altre che ho avuto non reggono minimamente il confronto a nessun livello con la nuova Guzzi!

Vi racconterò brevemente la mia prima giornata con la mia Breva 1100.

Sono di San Benedetto del Tronto (AP) e la moto in questione l’ho trovata a Grosseto, per cui ho dovuto organizzarmi con il pullman, fino a Siena, e con il treno da Siena fino a Grosseto.. circa 6 ore di viaggio..

Beh vi dispenso dal racconto del viaggio.. che come potete immaginare è stato abbastanza noioso..

Arrivo in concessionaria, già abbastanza stanco.. con il mio casco e il mio zaino, contenente giacca in pelle, pantaloni lunghi, guanti ecc..

La mia Brevona è lì.. ancora nel salone.. in bella mostra.. e il mio sorriso inizia a crescere…

Svolgo tutte le pratiche di acquisto, passaggio.. ecc… il concessionario mi consegna le chiavi e.. la Brevona è finalmente mia!

Metto su il casco.. e parto subito alla volta di San Benedetto..

La Brevona procede docile sulle strade toscane.. e inizio subito a prendere confidenza con la strumentazione, con il cambio, le leve della frizione e del freno.. e noto subito che in marcia è bilanciata molto bene, nonostante sia un po’ pesante negli spostamenti da fermo (ma credo sia questione di abitudine)

Qualsiasi asperità del terreno viene annullata completamente: sulla Breva si viaggia come in macchina.. comoda, rapida, scattante quando serve..

Non ha la potenza del mio vecchio CBR ma non mi importa.. non cercavo una moto da far urlare a 12.000 giri sulle curve… cercavo una compagna di viaggio, con cui osservare il mondo e con cui macinare chilometri e chilometri nella più totale libertà.. e mai nessun acquisto fu più azzeccato!

La prima sensazione è stata quella di una grande emozione.. stavo guidando la mia Guzzi, la moto con cui aveva viaggiato mia madre, che avevo sognato da piccolo, un pezzo di storia italiana.. un’Aquila di Mandello!

Certe emozioni non si possono spiegare.. vi posso solo dire di averle provate.. e credo che solo chi ha una Guzzi può capire..

Il viaggio procedeva tranquillo, con il mio sorriso stampato sulle labbra (invisibile agli altri per via del casco) e il mio cuore che batteva rapido, mentre l’asfalto scorreva veloce sotto la mia Brevona..

Pensavo di fare un viaggio tranquillo.. dovevo solo arrivare a Foligno, passando per Siena e poi Perugia e poi prendere la superstrada fino a Civitanova.. per poi arrivare comodamente a San Benedetto in Autostrada.. (non mi andava di buttarmi subito a fare curve in piega, data la mia scarsa conoscenza del mezzo e data la stanchezza dovuta al viaggio).. ma purtroppo non conoscevo bene quella zona e mi sono ritrovato senza accorgermene in una stradina buia che portava da Foligno verso Norcia..

Erano ormai le 8 di sera e tra le montagne iniziava a far fresco.. così ho parcheggiato la Brevona sul ciglio della strada (non c’erano posti per fermarsi) e mi sono spogliato in mezzo alla strada (tanto non c’era un’anima).. infilo i pantaloni lunghi, metto la maglia a maniche lunghe e infilo il giubbino di pelle.. metto su i guanti e riparto..

Mi attendeva una stradina asfaltata deserta, senza lampioni, tra le montagne, di notte.. e senza un’anima nei paraggi.. ma per fortuna lo zaino si era alleggerito di parecchio e la guida era diventata più agile e leggera..

Non nascondo di aver avuto una certa paura su quella strada sconosciuta: reggerà la mia Brevona? Sarà affidabile? Dopotutto l’ho presa solo oggi.. come si comporterà su questa lunga stradina di montagna? Sarò in grado di gestirla?

Beh.. ovviamente erano tutte paure che poi mi sono lasciato alle spalle dopo le prime due curve!

La luce illuminava alla grande quella stradina.. e sebbene fosse tutto al buio, vedevo tutto molto bene.. (tranne qualche curva molto nascosta che mi ha costretto a un paio di frenate brusche).

La Brevona scendeva in piega da sola.. pennellavo curve come non ero mai riuscito a fare con il mio vecchio CBR.. la Guzzi si è dimostrata solida, tosta, sempre pronta in piega e mai stanca di aprirsi in brevi allunghi nei pochi rettilinei che ho incontrato..

Era buio, non c’era nessuno, ma il mio sorriso si era oramai allargato ulteriormente sotto al casco.. e la Brevona sembrava sorridere insieme a me..

E’ stato un tragitto di 50 km fino a Norcia.. i più emozionanti che abbia mai provato su 2 ruote!

Guidavo in una stradina di montagna sconosciuta, di notte, la mia nuova moto, la mia nuova GUZZI.. e non c’erano altri pensieri nella testa che mi distraessero da tutto ciò: solo una bellissima sensazione di libertà e che in quei momenti mi rendeva orgoglioso e contento..

L a strada scorreva senza strappi, senza problemi, senza timori.. solo io, le montagne, l’asfalto, l’aria fresca della sera, le stelle.. e.. la mia Moto Guzzi Breva 1100.

Arrivato a Norcia ho ripreso subito estrema confidenza con la strada, visto che la conoscevo bene.. e ho potuto godermi la Brevona al 100%.. visto che quel tragitto già l’avevo fatto tante volte anche con le altre mie moto precedenti..

Beh non c’è bisogno di dire che quella strada non me l’ero mai goduta appieno.. con la Brevona le curve scorrevano veloci, le pieghe venivano da sole, difficoltà di guida praticamente nulle.. solo il piacere dei chilometri percorsi lasciati alle spalle.. e il piacere di quelli che dovevano ancora arrivare..

La stanchezza ad ogni modo iniziava a farsi sentire.. erano quasi le 10 di sera.. e dopo le 6 ore di viaggio della mattina e le 5 ore di viaggio sulla moto, iniziavo a dare segni di cedimento..

Finalmente arrivo ad Ascoli e mi ritrovo sulla superstrada… mi metto sui 100/110 km/h e apprezzo nuovamente la grande comodità della mia Brevona, che con quel soffuso rombo rassicurante sembrava sussurrarmi “non ti preoccupare.. riposati ora.. ti porto io a casa”

E senza neanche avere il tempo di apprezzare appieno la sensazione di estrema tranquillità che mi trasmetteva la mia Brevona sulla superstrada, mi sono ritrovato sotto casa.. esausto.. e con quel sorriso che ancora non accennava ad andarsene..

Parcheggio la moto.. ancora calda.. tolgo il casco.. faccio un paio di sospiri.. e scendo dal mio salott.. ahem.. dalla mia Breva..

Mi giro per ammirarla.. e guardo in alto.. le stelle che avevo visto nella stradina di montagna erano ancora lì.. e continuavano a brillare.. così come la mia Brevona.. e come i miei denti, ancora scoperti dal mio sorriso..

Per provare certe emozioni credo che non basta avere una moto.. bisogna avere una Guzzi..

Grazie Brevona..sono state emozioni che non dimenticherò mai!
Giacomo, 27 anni, San Benedetto del Tronto (AP)

Bruno Scola

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Bruno Scola

Introduzione di Fabrizio Angelelli, Intervista di Alberto Sala

La sua sede è a Carate Brianza, in provincia di Milano. Chi frequenta la sua officina usa appellarla come “IL TEMPIO di Bruno Scola”.
Lui è una persona disponibile, simpatico e affabile.
Quella persona così amichevole era in forza al reparto esperienze della Moto Guzzi già quando Lino Tonti progettò il suo celeberrimo V7-Sport.
Lo si vede sulle foto delle riviste di moto d’epoca insieme a personaggi come Tonti, Mandracci, Lafranconi. Quelle foto sembrano appartenere ad un’epoca lontana e invece a conoscere Bruno sembra che di tempo non ne sia passato poi tanto.
In Guzzi si occupava dei motori da corsa e l’esperienza maturata in tale campo gli ha consentito di mettere a punto una miriade di parti meccaniche che oggi costituiscono un riferimento fondamentale per chiunque voglia cimentarsi nell’elaborazione anche minima di un motore Guzzi. Di queste parti ne parliamo più avanti.
Oggi Bruno è il titolare di una concessionaria Moto Guzzi con annessa officina in cui lavora con impareggiabile abilità e passione Tiziano, il meccanico più disponibile che abbia mai conosciuto. Nella foto sotto è ritratto anche Davide De Martin, nostro amico, che per un breve periodo ha avuto la fortuna di essere accolto come aiutante nel tempio di Scola.

In occasione della nostra visita a Carate, Bruno si è reso disponibile ad accompagnarci a visitare il museo della Moto Guzzi svelandoci una notevole quantità di notizie sulle moto che lui stesso ha visto nascere e ha poi cenato con noi a Mandello del Lario. Niente male come rapporto concessionario-appassionati.

L’intervista

Partiamo dall’inizio: come è nata la concessionaria?

Bruno: Siamo all’inizio degli anni ‘80, la situazione in Moto Guzzi non si evolve più, la concessionaria di Lecco, Riva -che era anche il mio ex corridore- mi ha fatto la proposta di andare a lavorare con lui in società e quindi sono uscito dalla fabbrica; poi dopo due anni che sono stato con Riva mi sono messo per conto mio e tre anni dopo nell’87 ho aperto la concessionaria a Lecco. E lì sono stato fino al ’94. Nel ‘93 è morto Maurizio Valli e nel ‘94 ho ritirato la sua concessionaria.

Con Maurizio Valli avevi già un rapporto?

Si, ci incontravamo a Mandello quasi tutte le settimane, lui veniva a prendere ricambi e quindi bene o male a Mandello ci si incontrava, pero’ non ero mai stato nella sua concessionaria.
Poi a Lecco la situazione era diversa perchè stava terminando il ciclo delle moto, la Guzzi non esisteva quasi più, le vendite erano bassissime, ma in questa zona (Carate Brianza) si vendeva ancora molto, o quantomeno fino a quando Maurizio è morto, poi le vendite sono crollate, non per colpa sua ovviamente; per il mercato.

Invece tu Tiziano sei qui a Carate da…

Tiziano: Ufficialmente dal 16 marzo del ‘95. Però in realtà sono 15 anni che frequento. Conoscevo bene Maurizio, ho cominciato come meccanico imparando con passione con lui, mi ha dato l’opportunità a tempo perso di dargli una mano, poi Maurizio era una persona molto simpatica, socievole, aveva visto che avevo passione, ho coltivato questa cosa finchè ne ho avuto possibilità, poi è arrivato Bruno, i fatti sono stati quelli che conosciamo, Maurizio si ammalò e poi morì. C’è stato un anno di completo sbando di questa officina, non si sapeva bene cosa poteva accadere, se sarebbe stata chiusa… la Moto Guzzi aveva interesse che questo posto rimanesse aperto perché Maurizio aveva fatto un grosso lavoro, c’era un consolidato giro di clienti soprattutto perchè Maurizio aveva un grande carisma; era riuscito a creare qualcosa di particolare rispetto alle altre officine, dove tu arrivi, lasci la moto, te ne vai e non conosci, non sai cosa fanno sulla tua moto. Maurizio aveva creato l’esatto opposto: tu arrivi, ti fai la tua chiacchierata, magari ti faceva la riparazione al volo; poi lui aveva creato il suo motoclub. C’era veramente un giro di amici; più che clienti amici.Dopodichè Bruno è arrivato, e aveva bisogno di una persona che in qualche modo conoscesse tutta la vecchia clientela di Maurizio, che fosse comunque conosciuto e che magari era anche capace di lavorare su queste benedette Guzzi! Mi ha proposto di venire a lavorare con lui e ho accettato. Siamo riusciti in tutti questi anni a recuperare tutta la vecchia clientela di Maurizio che si era persa in tutta la Brianza e in più si è aggiunta in parte anche la sua clientela di Lecco. Abbiamo continuato su questa linea perchè pagava; abbiamo mantenuto questo ambiente, abbiamo continuato col motoclub; abbiamo continuato quello che Maurizio aveva cominciato bene.

Quando è nata comunque la concessionaria? Cioè quand’è che l’ha aperta Maurizio?

Questa concessionaria è vecchissima. Prima di Maurizio c’era suo padre Antonio ‘Kitty’ che era con suo fratello. Oltretutto questa non era solo concessionaria Guzzi ma anche Morini, MV, Benelli: tutte marche italiane. Dopodichè…

Ma quindi si parla di primi anni ’70…

Si. Prima c’era Manzoni, a cui è subentrato Kitty. Io e i vecchi clienti di Maurizio lo conoscevamo come il Kitty.

Ecco spiegata la dedica sul quadro del Bol d’Or con Bruno che capeggia in negozio…

Esatto. Maurizio fra virgolette rilevò la concessionaria intorno alla fine degli anni ‘80 dal padre. In realtà lui era comunque qui da parecchio. Mi ricordo che ho preso qui la mia prima moto, un Imola prima serie nel ‘86, che ho tenuto tre mesi perché andava troppo piano, poi ho preso un Lario, e così via…
Comunque questa è una concessionaria veramente storica. Questo è un punto di riferimento per parecchia gente che arriva da tutta la Brianza e anche da molto più lontano: anche tedeschi, svizzeri, olandesi, poi spesso arrivano moto da sistemare e restaurare dal sud Italia. Insomma il giro è ampio. Bruno è molto conosciuto.
Insomma, questa è la concessionaria. Qui, lo sai anche tu, al sabato pomeriggio c’è sempre come un piccolo raduno, arriva gente del motoclub, amici, parenti, si beve un bicchiere di vino…

E’ una impostazione che c’è sempre stata.

Si, da quando c’era Maurizio, e Bruno non ha fatto nessuna fatica a mantenere; anche lui nella sua officina a Lecco tendeva ad avere i clienti che attendevano la moto, magari nel frattempo ti faceva smontare i coperchi delle valvole… si coinvolgeva e si coinvolge tuttora il cliente. Ci sono vari clienti del motoclub che hanno passato del tempo qui a fare tirocinio, vedi Davide De Martin, vedi Luca Giordano, che nei periodi ‘neri’ della loro vita, in cui non avevano lavoro, o magari dovevano dare tesi di laurea, esami, ecc. imparavano qualcosa e guadagnavano qualcosa nel frattempo. Si faceva anche questo, anzi si fa tuttora. In alta stagione vale tutto!

Tornando ancora indietro nel tempo, Bruno al momento in cui sei uscito dalla Guzzi oltre alla concessionaria hai iniziato a produrre parti speciali…

Bruno: Li producevo già prima di uscire dalla Guzzi. Avevo la squadra corse privata; quando la Guzzi alla fine del ‘72, dopo il Bol d’Or ha chiuso con le corse perché è arrivato DeTomaso io ho proseguito con alcuni collaudatori della Guzzi una squadra corse che ci mantenevamo facendo elaborazioni sui V7 Sport trasformandoli in LeMans, fino a tutti gli anni ‘80; ho fatto le teste del LeMans nel ‘76, con motore da 100 CV, nel ‘81 ho fatto le altre teste con valvole 51-43 con 110 cv.

Nel 76 il LeMans era appena prodotto…

Certo. Il LeMans 850 era in produzione da un anno. Il 1000 LeMans in pratica l’ho inventato io.

Ma come ti spieghi una attesa di tre anni sulla messa in produzione del LeMans?

Ho vissuto questo frangente in prima persona. Doveva entrare in produzione dopo averla testata a Monza, ma DeTomaso, avendo acquistato Benelli voleva dare avvio alla produzione dei pluricilindrici (4 e 6 cilindri). Lui credeva in questa formula e ha accantonato sia LeMans che T3. Poi visto che i 4 cilindri non decollavano, anche perché la Honda li faceva meglio e ha deciso dopo tre anni di mettere il LeMans in produzione. Noi comunque come preparatori nel frattempo ne avevamo fatti una cinquantina di motori del LeMans.

Destinati solo a competizioni, o anche per uso stradale?

Anche per uso stradale; si prendeva un V7 Sport e lo trasformavamo in LeMans; si prendeva l’albero motore del 850 GT che era cilindrico (non esisteva ancora il T), si modificava la parte anteriore del rotore dell’alternatore e si montava. Eravamo in anticipo di anni.

Dopo il Bol d’Or del ‘72 non ci sono state più occasioni di fare gare…

Ufficialmente come Moto Guzzi no. Noi abbiamo continuato privatamente e siamo sempre stati protagonisti per 3-4 anni delle 24 ore; eravamo un equipaggio che si piazzava sempre dal 3° al 6° posto e quindi non tanto per partecipare; eravamo rispettati dagli avversari e ammirati dai guzzisti in giro per l’Europa; poi in Francia era impressionante vedere la passione per le Guzzi e per la 24 ore.

Chi erano i piloti?

Brambilla, Mandracci, Sciaresa e Riva Raimondo per le 24 ore e per le 500 km che si svolgevano con le moto derivate di serie. Poi passata la stagione ufficiale i piloti erano Riva, Gazzola, e poi più avanti Macchi. I circuiti erano LeMans e Barcellona sul Montjuich. Poi i giapponesi cominciarono ad uscire con i 4 valvole bialbero a camme in testa e il divario aumentava. Comunque con il motore da 100 CV stavamo tra il 3° e il 6° posto.

Fino a quando avete corso?

Fino all’81. Valentini con un team a cui fornivo le parti del motore 1100 da 108 CV. Si piazzavano ancora molto bene, per una moto che ciclisticamente era ferma ai due ammortizzatori mentre gli altri cominciavano col monoammortizzatore, ecc. La moto però in fondo era svantaggiata solo a Le Castellet…

Per via di quel rettilineo…

Lì ci volevano tanti cavalli, però negli altri circuiti si difendeva bene, tant’è vero che hanno fatto due stagioni positive.
Poi più avanti ci sono state le gare F1 e ancora le 500 km col 750 e lì si combatteva con la Ducati e i loro piloti erano del calibro di Virginio Ferrari, e noi eravamo un po’ gli eterni secondi, ma non è che si prendevano 5 minuti: si arrivava con un minuto, un minuto e mezzo di distacco su una gara di 500 km, dove basta fermarsi a cambiare una candela che hai perso la gara. Eravamo rispettati dai ducatisti, perché riconoscevano il nostro motore come veramente potente; si chiedevano come facevamo a far camminare una moto che è pesante; poi quel motore lì… loro avevano 80-85 CV, noi 100. E nel 750 eravamo handicappati nella ciclistica, ma il motore ci dava grosse soddisfazioni; poi i piloti nostri non erano certo i vari Ferrari, però si difendevano bene.

100 e passa cavalli cambiando cosa?

Il diametro valvole, e il salto era di 10 CV. Poi aumentando la cilindrata. A parte che ai 100 CV ci eravamo arrivati anche con le valvole del 1000 LeMans, aumentando a 1100, però dava 100-101 CV; con l’altro invece 110, e più avanti con le bielle allungate e mettendo pistoni a 2 fasce invece che 3 siamo arrivati a 112-114. Poi ovviamente alberi a camme modificati, alleggerimenti, … Una parte del kit era quello di serie, le varie camme RS, KS, che a seconda dei circuiti se ne usava una o l’altra. Se avevi bisogno di ripresa montavi il KS; se invece il circuito era lungo come LeMans o il Mugello mettevi l’RS. C’era un alleggerimento di base che risaliva al ‘72-‘73; il resto, la parte termica ogni tanto aveva modifiche, frenate più dai costi che altro; le bielle Carrillo per esempio costavano 1 milione e mezzo; i pistoni speciali a due fasce andavano fatti fare apposta.

Comunque tutte queste parti, tolte le bielle Carrillo, le facevi fare tu…

Si, certo, tutte mie progettazioni, datate ‘81 per le valvole da 51/43, e ‘76 per le valvole da 47/40 che sono quelle del 1000 LeMans, che poi il Dr. John, che allora non mi conosceva, ma che operava nel team Rino Leoni in America utilizzava già le teste che il mio capo progettista Tonti aveva fatto fare a me per le gare in America; per tre anni ha vinto con Mike Baldwin il campionato Pro-AMA con motori da 100 cv. Sui circuiti lenti usavano le teste originali del LeMans, ma con le camme per far girare in alto il motore; poi Baldwin era un pilota capace di farlo camminare in alto. Io invece preferivo sia per le 24 ore che per il resto camme che sfruttassero tutto il campo. Le teste più grosse le usavano solo sui circuiti più veloci. E così fino all’87, quando ha vinto l’ultimo campionato col 2 valvole, ma già col telaio tipo Daytona. Poi personalmente conobbi il Dr. John nel ‘83 in fiera presentato sempre da Rino Leoni. E loro mi dicevano di andare in America, dove il titanio si trova dal ferramenta, e non ne devi mica comprare un quintale come qui…

Affidabilità sui motori da gara?

Se tu tieni presente che dovevano durare 24 ore… Praticamente io ho svolto per la Guzzi quelle operazioni che dovevano svolgere i loro collaudatori. Il 1000 LeMans è uscito nel ‘85. Noi lo usavamo da otto anni per le gare. Poi loro dicevano: ah, voi dopo ogni gara cambiate pistoni e cilindri, rettificate valvole…, beh certo, ma fare una 24 ore vuol dire fare almeno 2500 km a manetta a 8000 giri, quand’è che un vostro collaudatore fa queste cose su strada? In pratica i motori nascevano già testati. La 24 ore era un banco prova per tutti. Difatti loro quando hanno fatto il 1100 c’erano resistenze interne, ma poi constatavano che c’era qualcuno che da una vita correva col motore da più di 100 CV! Poi siamo passati a bielle più lunghe per diminuire il carico laterale di spinta. La differenza di potenza oltre i 100 CV era data da queste bielle che riducevano gli attriti.

Invece quanto hai avuto modo di vedere la nascita del 4 valvole 1000?

Beh, in Guzzi già dall’86 avevano fatto il 4 valvole, che però era quello del museo…

Quello con le teste ‘girate’…

Con le teste giuste! Solo che hanno fatto un ‘monumento’. La scelta poi definitiva è stata dettata in pratica da questioni ‘estetiche’. A parte il fatto che fare due alberi a camme in testa… che so, la Ducati li ha fatti belli, non capisco perché in Guzzi…

Ma quindi la nascita del 4 valvole è stata indipendente dall’esperienza di John Whittner.

Esatto. Era un motore tra l’altro che subito dava già 96-97 CV, era un bel motore, pieno di coppia, poi ancora tutto da sviluppare, andava a carburatori, non c’era ancora l’iniezione, insomma, potenzialmente era un motore da 100 CV subito, però esteticamente era proprio poco valido.

Era un parto di Todero…

Esattamente. Il seguente invece non so, perché in pratica è arrivato da Modena, non so quanto Todero ci abbia messo come progettazione; è stato fatto in collaborazione col Dr. John, questo sì. …esteticamente è un po’ meglio, ma si perde della gran potenza…
Prima di questo era bello il progetto del 4 cilindri a V. Quello era uno studio da portare avanti; al limite si poteva stringere un pochettino, ma l’abbiamo fatto prima che la Honda facesse la PanEuropean.

Tornando ad oggi: come vedete la situazione attuale, con l’Aprilia?

Tiziano: Beh, l’Aprilia sta passando un brutto momento, e purtroppo ne fa le spese anche la Guzzi; adesso che sono passati i due anni ‘fisiologici’ (si subentra in azienda, si mettono a posto bene le cose, si sistema la gamma per come doveva essere fatto), è il momento in cui bisogna far vedere qualcosa; il prossimo anno dovrebbe essere l’anno in cui si dovrebbe vedere una moto nuova, o modifiche sostanziali sulla ciclistica, sul motore, ecc, e invece sembra si possa rischiare un altro momento di stallo, perché l’Aprilia, che è un’azienda che produce moto ma sappiamo tutti che vive sugli scooter ha avuto un grosso problema; ha un invenduto pesante che penalizza l’azienda; probabilmente in Aprilia non hanno previsto che il settore scooter si sarebbe ridimensionato in modo più pesante. La situazione è che ora stanno rivedendo ogni investimento; comunque la Moto Guzzi quest’anno bene o male ha venduto il 20% in più dell’anno scorso. Si è visto comunque anche in fiera un certo entusiasmo anche da parte del pubblico; la gente ci crede ancora in questo marchio. Speriamo bene: Aprilia per ora non si è comportata come gli americani, la Finprogetti, eccetera, che venivano, promettevano, e poi invece non si vedeva mai nulla.
Bruno: Diciamo che stiamo ancora attendendo.

Tiziano: Beh, certo le cose non sono semplici. Ad esempio uno degli errori grossi che fece DeTomaso fu rilevare la Benelli. Ci siamo tirati in casa un peso togliendo soldi allo sviluppo, a tutto. Siamo rimasti fermi anche grazie a questa manovra. Poi, certo, abbiamo ancora alcuni settori scoperti: tutti si sono accorti che in Moto Guzzi ormai da anni mancano modelli turistici; l’SPIII non ha avuto mai un degno successore, la V11Gt era stata presentata a Monaco 4 anni fa, poi? Era una moto che poteva farci rientrare in un settore che era nostro. Continuamo a cedere un settore a altri. Comunque siamo tutti fiduciosi: quello che si capta è che se Aprilia in questo anno riesce a rilanciarsi sicuramente Guzzi avrà i suoi vantaggi.

 

BRUNO SCOLA
Per informazioni: info@scolabruno.com
Il sito di Bruno: www.scolabruno.com

SIMONELLI

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Gianfranco Vittorio Chiara

di Marco Marcucci

 

Arrivo a S.Benedetto e trovo ad aspettarmi, di fronte alla concessionaria, le due persone che l’hanno creata nel lontano 1962: il sig. Vittorio Ranalli e sua moglie sig.ra Chiara Simonelli. Con loro il nipote Gianfranco che ha attualmente in mano il settore vendite.
La signora Chiara è colei che ha anche dato il nome alla concessionaria e che ha curato la parte gestionale fino a pochi anni fa.
Il sig. Vittorio, attualmente 85 anni portati in modo superbo, mi stringe la mano e, in qul momento, mi colpiscono due cose: il giaccone da motociclista, con tanto di stemma Guzzi cucito sul taschino, che indossa ancora con orgoglio, ed una splendida foto, ingiallita quanto basta, che tiene in una mano.

Sig. Vittorio, posso vedere la foto ?

Me la allunga, la osservo: splendida! In un angolo noto una data scritta a mano: 1937. La foto ritrae un pilota in sella ad una superba Guzzi, lo sfondo è il lungomare di S.Benedetto.

Ma questo è lei ?

Si, sono io, avevo 17 anni!

Mi dica della moto.

E’ una Guzzi “PE” del 1937, 250 cc. a tre marce

Questi sono attimi intensi per chi ama la moto, per chi ama la Guzzi ed il suo mondo; mentre mi risponde noto due lucciconi nello sguardo di quel vecchio signore, guzzista fino all’osso e che ancora oggi veste con la sua giacca da motociclista, forse per vivere ancora dentro le sensazioni di un tempo.
Entrando nel concessionario passiamo accanto ad una serie di California dell’ultima generazione; sono in bella esposizione una EV, una Aluminium, una Stone ed una Special.
Poco distante, su di un palchetto, ho modo di osservare per la prima volta una LeMans Tenni.
Prima di accomodarci nell’ufficio si avvicina Guido, altro nipote dei fondatori: lo saluto calorosamente; ci conosciamo bene perché è lui che, assieme alla preziosa collaborazione di Lorenzo, si prende cura della mia Cali: sono i maghi del sevizio tecnico.
Ci accomodiamo nell’ufficio: la sig.ra Chiara, il sig. Vittorio e Gianfranco.

Allora signora, mi racconti quando e come è nata la concessionaria.

La concessionaria ufficialmente è nata nel 1963 ma già da un paio di anni vendevamo Moto Guzzi a S.Benedetto per conto del concessionario di Teramo. Ovviamente questa attività non annullò l’attività originale e cioè quella della vendita di ricambi meccanici e delle riparazioni; in questo settore eravamo già nati nel 1949 come “Motoforniture Picene”.

Quindi lei e suo marito siete stati i pionieri della concessionaria…

Si, mio marito Vittorio si occupava di riparazioni ed assistenza mentre io ho sempre curato la parte commerciale e gestionale.
E qui interviene il sig. Vittorio con una puntualizzazione:
Ma lo sa che mia moglie aveva in testa tutti gli articoli del magazzino? Ed erano tanti, lavoravamo moltissimo con i ricambi!
E Gianfranco aggiunge:
Pensi che anche oggi, a distanza di qualche anno da quando la nonna ha mollato un po’ l’attività, ha in mente tutto il magazzino: se non riusciamo a trovare qualcosa interpelliamo lei ed il problema è risolto, non c’è computer che regga il confronto.

Mi rivolgo ancora alla sig.ra Chiara.
Mi dica, ricorderà sicuramente i modelli che ha visto passare sotto i suoi occhi.

Si, certo, ricordo benissimo lo “Zigolo”, lo “Stornello”, e poi la “Lodola”, il “Cardellino, il “Galletto”: si vendevano bene, facevamo dei numeri interessanti, circa duecento pezzi anno. Si vendevano bene anche le macchine agricole, prima fra tutti la “motozappa” Guzzi. Poi, dopo qualche anno, c’è stato un calo sui prodotti motociclistici.

E già, la famosa “motozappa” Guzzi, l’avevo messa nel dimenticatoio, a sentirne riparlare mi tornano a mente tutti gli sfottò subiti dai Guzzisti causa tale macchina non propriamente motociclistica: ma appartiene alla storia Guzzi! E sembra che abbia anche contribuito a sostenere le vendite negli anni sessanta.

Mi rivolgo ancora alla sig. Chiara.
Poi, a cavallo tra anni sessanta e settanta, sono arrivate le maximoto, non può non avere ancora nel cuore quegli anni!
Si, entrarono in campo le V7, le V7 Special, le 850 GT, la Le Mans, si ricominciò a vendere benino, erano moto di successo; i miei figli, veri appassionati, iniziarono ad organizzare raduni ed uscite, erano in tanti, le moto ebbero così modo di farsi ammirare con conseguente sempre più successo di vendita.
E qui interviene Gianfranco.
Le V7, la Special, la 850 GT sono state dei miti motociclistici, ma senza dubbio la Guzzi di maggior successo, con standard qualitativo pari e forse superiore alle maxi giapponesi, motorizzata con unità capace di tritare Km e Km anche a medie elevate senza stancarsi, è stata la Le Mans. E va ricordato che tali motorizzazioni hanno anche realizzato record di velocità e di durata.

Ascolto in religioso silenzio ma, contemporaneamente, mi balena in testa la feroce critica degli appassionati alla scelta fatta dalla nuova proprietà Guzzi di battezzare, con il nome Le Mans, la recente versione semicarenata della V11. E chiedo:
Chi ha avuto la fortuna di vivere la magica epoca del Le Mans “originale” che sensazioni prova oggi nel vedere fiancatine riportanti di nuovo il logo Le Mans, nello sfogliare depliant che descrivono di nuovo una Le Mans ? Parecchi appassionati sono inorriditi…

Gianfranco fa una faccia che la dice lunga e continua.
Certamente la rievocazione di tale nome è stata in un certo senso azzardata perché per ricordare cosa è stato il Le Mans per gli appassionati Guzzi non basterebbe parlarne per due giorni consecutivi; la Le Mans è stata la moto dell’orgoglio Moto Guzzi e dell’essere Guzzista e questo accadeva in tempi in cui i giapponesi stavano uscendo con maximoto a 4 cilindri; avere un prodotto italiano capace di dare sonore batoste alla concorrenza giapponese è stato motivo di grandissimo orgoglio. Il nuovo LM è uscito in un momento completamente differente, le maxi giapponesi la fanno da padrone, contrastate in qualche modo solamente da Aprilia e Ducati e, purtroppo, Moto Guzzi non ha una fetta di mercato significativa. L’augurio che si fanno i concessionari è che MG, con questo modello, non fallisca gli obiettivi che si è posta. La nuova LM è una moto ben riuscita, l’ho guidata a lungo, ci sono andato anche al raduno dell’ 80° anniversario, è una moto che mi ha dato soddisfazioni lungo i 7000 Km che ci ho percorso. La consiglio a tutti gli appassionati perché, se è vero che non ha la potenza di una moto giapponese, è anche vero che offre grande stabilità, buona protezione aerodinamica e gran divertimento.

Quindi, tutto sommato, è almeno degna di portare un tale nome?

Tutto sommato si, necessiterebbe di una manciata di cavalli in più però il cuore è un cuore sano.

La concessionaria ha clienti provenienti da zone lontane?

G – Si, non ci lamentiamo, vengono da noi un pò da tutte le Marche, qualche cliente addirittura dalla Puglia; tutto ciò è merito del buon lavoro che è stato fatto in passato. Io e Guido oggi godiamo di ampia stima grazie alle ottime basi derivanti da una passione che risale a più di 40 anni fa. Ed i clienti arrivano perché siamo in grado di rassicurarli dal punto di vista dei ricambi e dell’assistenza; e lo siamo stati anche quando la Guzzi navigava in pessime acque. Anche oggi abbiamo un magazzino ricambi che forse è unico a livello italiano, il piano superiore della concessionaria, ben 450 mq., è tutto dedicato a ricambi vecchi e nuovi della Moto Guzzi, pensi che abbiamo ancora pezzi di ricambio per le vecchie “motozappe”.

Mi risulta che relativamente alla ricambistica abbiate anche una attività di esportazione…

Si, è vero, esportiamo in Germania, Francia e Giappone; abbiamo un collega giapponese che viene ad ordinare pezzi di ricambio e la cosa è per noi motivo di grossa soddisfazione perché significa che si è scelto di lavorare in maniera vincente. Pensi che questo giapponese possiede una California 2 che ha imbarcato sulla nave per partecipare al raduno degli 80 anni con la sua Guzzi!

Importate anche parti speciali?

Si, importiamo dalla Germania, dove ci sono parecchie ditte specializzate in parti speciali; il mondo dei guzzisti è un mondo di appassionati, che ama personalizzare la propria moto e quindi cerchiamo di assecondarli ed offrire loro un servizio in più.

Gianfranco, suo padre è Guido Ranalli, l’ho conosciuto al salone di Milano qualche anno fa, era direttore commerciale Moto Guzzi, e so che lo è stato fino allo scorso anno, ed ora?

Si, è così, mio padre lavora in Guzzi fin dal lontano 1969; ha iniziato come ispettore, poi è diventato direttore vendite e agli inizi degli anni ’90 è diventato direttore commerciale. Nel 2001, con la gestione Aprilia, è stato rimosso da tale incarico per assumere quello di responsabile vendite alle pubbliche amministrazioni. Recentemente lo hanno restituito alle vecchie mansioni ed ora ha di nuovo in mano tutto il mercato italiano. Mi risulta che tale reintegro sia stato accolto con entusiasmo da parte di vari colleghi in Guzzi; personalmente non voglio esprimere giudizi, sarebbero di parte, ma voglio solo aggiungere che non credo ci possano essere persone che conoscano meglio di lui il mondo Guzzi ed il mondo dei concessionari Guzzi.

Senta Gianfranco, ho avuto l’impressione che Aprilia, in una prima fase, appena assorbita la Guzzi, abbia un po’ peccato di modestia; abbia avviato una politica tendente ad un ricambio radicale forse troppo frettolosa: via certi dirigenti e dentro altri, forse preparati ma non conoscitori del mondo Guzzi e dei suoi problemi; scarsa se non nulla propensione nel tenere in debita considerazione il patrimonio di esperienza e passione dei concessionari più significativi. Fortunatamente credo che sia altresì avviata una fase di riflessione e ripensamento…

Quello che è successo a mio padre, la riconvocazione e rinomina di diversi concessionari tagliati lo scorso anno ed altre situazioni di tale tipologia sono le risposte a quanto da lei asserito. Posso però aggiungere che, dopo anni ed anni di traversie finanziarie e non, attualmente l’azienda è in ottime mani, ma, concordo con lei, rinunciare all’esperienza e alla continuità sarebbe un suicidio.

Vorrei fare con lei un consuntivo dopo un paio di anni di gestione Aprilia; gli appassionati sono impazienti, chiedono nuovi modelli, a tutt’oggi hanno visto interventi estetici di facciata, qualche miglioria meccanica, alcune evoluzioni di modelli già esistenti ed una serie infinita di versioni della California; ma chi vende Guzzi cosa ne pensa?

Diciamo che certi interventi sono stati azzeccati e qualcun altro un po’ meno; personalmente auspicherei un ritorno al vecchio motore color alluminio mentre, sicuramente, posso testimoniare che il lavoro fatto sul cambio della V11 è stato veramente ottimo.

Ed i concessionari cosa vedrebbero di buon occhio come nuovi modelli Guzzi?

Guardi, sicuramente una GT ben fatta ed affidabile; è dai tempi della serie SP che non abbiamo nulla in questo settore, consideri che non passa settimana senza richieste di notizie da parte dei clienti a tale riguardo: parecchi clienti l’aspettano con ansia, avrebbe sicuramente mercato.
Per ora la Guzzi ha fatto compilare a noi concessionari un questionario nel quale si chiedevano pareri circa una versione V11 LM più turistica, con postura più mirata al turismo, manubri alti e valigie integrate; anche tale progetto sarebbe il benvenuto, personalmente sarei molto favorevole. Aspettiamo anche una enduro stradale di grossa cilindrata, settore che è stato lasciato in mano alla concorrenza; non rientrare in tale settore, avendo a disposizione un bicilindrico ad iniezione molto competitivo, sarebbe un vero peccato visto che ora le risorse finanziarie ci sono e che, dal punto di vista progettuale, la Guzzi ha gente sicuramente all’altezza per un tale obiettivo.

Le risulta che la pensi in questo modo la maggior parte dei concessionari Guzzi?

Sicuramente, non credo esista concessionario in Italia che non aspetti con ansia una GT od una maxi enduro.

Ed una supersportiva come la vedrebbe?

E lei come la vedrebbe?

La vedrei bene…

Ecco, anche noi concessionari, ma occorre aspettare la motorizzazione giusta: fare concorrenza alle giapponesi non è facile, in questo settore siamo indietro di anni ed anni; gli sforzi dovrebbero essere elevati all’ennesima potenza perché passare dallo zero assoluto ad una sportiva di successo non è facile, penso che per la realizzazione di una moto competitiva siano necessari 3/4 anni, ritengo siano questi i tempi progettuali.

In una ipotetica scaletta di priorità temporali come posizionerebbe la GT, la maxi enduro e la sportiva?

Sicuramente per prima la GT, a ruota la endurona e poi la sportiva.

Gianfranco, la Nevada è sempre un bel cavallo di battaglia…

Si, e le nuove migliorie sono state azzeccate; ho sempre auspicato per lei forme diverse e non ho cambiato opinione ma, andando a vedere le vendite, debbo dire che forse ho torto, certo che ha dalla sua il fattore prezzo supportato però da una meccanica robusta ed affidabile ed una grande guidabilità.

Parliamo un attimo di un ipotetico motore Guzzi a 4 cilindri, come lo vedrebbe?

Le dico la verità, sono restio; sono ancora shoccato dal ricordo dell’epoca De Tomaso quando, per copiare i giapponesi, è stata fatta una frittata di quelle clamorose; diciamo che di un 4 cilindri non ne abbiamo bisogno ma, in ogni caso, dovrebbe eventualmente essere “genuino” Guzzi e senza la ricerca spasmodica di potenze proibitive ma, ripeto, non ne abbiamo bisogno.

La concessionaria Simonelli è più di venti anni che organizza un raduno internazionale Guzzi a S.Benedetto e so che ha sempre riscosso un grande successo; lo scorso anno avete però rinunciato: e per quest’anno?

Per la manifestazione di quest’anno abbiamo già fissato la data che è l’8 ed il 9 giugno ed anche quest’anno sarà un raduno internazionale; contiamo di arrivare ad un migliaio di adesioni, un traguardo abbastanza ambizioso che però già in passato è stato raggiunto. Faremo molte cose nuove nell’ambito della manifestazione ed il fiore all’occhiello dovrebbe essere la presenza della pattuglia acrobatica tricolore che penso ci sarà messa a disposizione dalla Moto Guzzi sperando di riuscire ad espletare tutte le ‘paratie’ burocratiche relative al rilascio dei vari permessi da parte del comune di S.Benedetto. Abbiamo raggiunto accordi con tutte le strutture ricettive della riviera per un prezzo di 30 euro per la pensione completa. A questo appuntamento annuale ci teniamo moltissimo, è un raduno storico, è il 21° anno che l’organizziamo; abbiamo sempre avuto foltissima partecipazione dall’estero con gruppi numerosi di tedeschi ed olandesi, qualcuno arriva dalla Norvegia e dalla Finlandia; un anno abbiamo avuto anche partecipanti dall’Australia e tutto ciò ci riempie di orgoglio. Vede, noi facciamo tutto ciò non tanto per pubblicizzarci come concessionaria ma per pubblicizzare il marchio Guzzi a livello locale, nazionale ed internazionale.

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V11 Tenni

Fa sempre piacere sentire che c’è chi continua a coltivare in maniera direi maniacale ancora oggi la passione per la Guzzi.

Colgo l’occasione per aggiungere che stiamo rimettendo in piedi il moto club “Aquile Millenarie” che fu creato da mio zio Franco nel lontano 1979; avremo la sede principale a S.Benedetto e numerose sedi satellite nelle Marche. La denominazione potrebbe sembrare banale ma l’abbiamo voluta per sottolineare la storia e la tradizione di un marchio storico come quello Guzzi.

Marco Marcucci

Salvatore e Fabienne

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Testo e foto di Alberto Sala

 

LE CHEVAIN. FERRAGOSTO.

Lasciati alle nostre spalle i castelli della Loira, ci dirigiamo a nord, verso Normandia e Bretagna. Oltrepassati i bastioni di Le Mans (in verità non esistono bastioni a Le Mans ma è così suggestivo…) ci avviciniamo all’incontro con due persone speciali che abitano qui, nell’angolo tra la Normandia e la regione di Le Mans.
In tanti anni di frequentazione e conoscenza di appassionati del nostro marchio preferito, ho avuto la fortuna di conoscere alcune persone che si distinguevano in maniera particolare dagli altri pur sempre grandi appassionati. Perchè – grazie al cielo – esistono ancora persone che sanno offrirti quello che hanno senza il benchè minimo interesse, senza che esista la benchè minima parvenza di rovescio della medaglia. Persone che sanno stupirti con la loro immediata gentilezza e sincerità. Persone speciali.


Salvatore e Fabienne sono due di queste rare perle. La prima volta che li ho incontrati è stato alle GMG del 2003, ancor più precisamente durante quella splendida giornata in pista all’autodromo di Monza, quando ancora la Moto Guzzi credeva nella strabordante e inarrestabile forza e energia dei propri appassionati. E già lì, pur nel trambusto della giornata, percepii immediatamente la loro collocazione nel variegato mondo guzzista, perchè è così che le riconosci: al primo istante. Non ti serve tanto tempo e tante chiacchiere.
“Salvatore, quest’estate passiamo dalle tue parti, che ne dici se ci beviamo una birra insieme?” “Bien sur Alberto, volentieri!!” Così a ferragosto spaccato varchiamo il cancello della loro casa.


Quando Salvatore ci prende da parte e ci apre la porta che comunica col garage, ci cade la mascella per terra. Date una sbirciatina anche voi. Non è uno degli ambienti più belli del mondo? Non è così che vorreste arredare il riparo delle vostre motociclette? Così ci accomodiamo all’angolo bar per alternare chiacchiere alla birra senza soluzione di continuità gustandoci la loro genuina accoglienza e simpatia. Le scogliere della Bretagna possono aspettare…

Le loro motociclette (guidate senza eccessive preferenze da entrambi) sono belle precise, custodite con la sana mania che ben conosco e sono spunti di innumerevoli racconti, come il T3 sidecar abitualmente guidato da Fabienne, che potrebbe aprire capitoli di viaggi fatti con l’intera famiglia (i piccioncini hanno due figli oggi ventenni). Vogliamo entrare nel dettaglio? Il 750S è semplicemente spettacolare, personalmente trovo sia la Moto Guzzi più bella degli anni ’70. E a fianco l’S3 è fonte di appetitosi dettagli, come i coperchietti laterali fatti fare in alluminio. Roba da fermarsi ogni tanto e staccarli per tastarli tra le mani. Due autentici gioielli!


Alla parete, tra targhe e fotografie, riconosco una semicarena della moto di Jacques Ifrah, quella che abitualmente bastona con abbondante generosità le avversarie al Bol d’Or Classic. E’ uno dei simboli di una forte amicizia col geniale preparatore parigino, suggellata anche da diverse fotografie di Jacques e di Charles Artigue, il suo pilota di punta la cui fama ben conosciamo.
Potrei proseguire per tanti altri dettagli (come la collezione di modellini) che testimoniano quanto il sacro e ardente furore guzzista sia tenuto sempre ben crepitante in questo angolo di Francia, ma prima il Pastis, poi la raclette e il resto ci tengono troppo occupati, così come le chiacchiere spazianti dai racconti di come Salvatore abbia contribuito alla ‘conquista’ e successiva posa dei guardrail protettivi per i motociclisti, e il resto delle storie tra viaggi e cazzeggio i cui confini netti faccio fatica a mettere bene a fuoco, complice l’ulteriore vino aggiunto… meno male che non dovremo guidare!

© Anima Guzzista

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