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Come sono diventato Guzzista: Mauro Fiorentini

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By Mauro “Age073” Fiorentini

Quando vedi una moto parcheggiata ti fermi mai a pensare ai sentimenti che si porta dietro? Pensi mai che quella moto, magari, è stata muta spettatrice di cambiamenti, di dolori, di amori, di speranze? Tra un graffio e l’altro della carrozzeria, in mezzo a una coppia di pneumatici consumati, tra le spire del nastro isolante che sostiene la staffa di una freccia rotta, ci pensi mai che quella moto porti con sé qualcosa che non la rende solo un semplice pezzo di ferro?

Io sì, ci penso, e so che non sono il solo ad avere questo sospetto. Lo disse anche Valentino Rossi, e scusa se è poco, che le moto non sono solo pezzi di ferro, anzi, che sono cose troppo belle per non avere un’anima. Chissà quanti altri lo hanno pensato, mentre impugnavano le manopole lise alle estremità di un manubrio vecchio, ruotando la destra e sentendo il motore rispondere con la felicità di chi prende giri grintosamente, come se il prossimo chilometro fosse il primo di chissà quanti, mentre invece magari è solo l’ennesimo dopo altri centinaia di migliaia.

Allora, chiariamo subito le cose: io non penso di essere Guzzista. La Moto Guzzi non fa motociclette che comprerei; o meglio, qualcuna ne ha fatta, anche recentemente, ma stanno tutte nel limbo dai contorni vaghi e indefiniti del “chissà, magari un domani, se avrò modo…”.

Perché a me incuriosiscono tutte le moto, e non è che perché una la fa la Moto Guzzi, allora quella si merita un posto in garage più di un’altra fatta dalla Suzuki, per dire, o dalla Honda. Io questo plusvalore dato dal marchio non lo vedo. Non lo sento. Conosco la storia della Moto Guzzi quasi a menadito, la trovo assolutamente epica ed affascinante, mi inorgoglisce pensare di essere connazionale di tanti geni che questa storia l’hanno scritta, però tutto questo non è comunque un motivo sufficiente a farmi preferire una moto a un’altra solo perché la prima è una Moto Guzzi.

Tantomeno da quando la Piaggio ha tolto la concessione all’officina Primo Moretti di Macerata, la più antica del mondo dopo Mandello, un’officina che se l’avesse la Harley o la BMW avrebbero comprato tutto il palazzo e ci avrebbero fatto un museo col biglietto d’ingresso a 50 euro. Ecco, per i miei gusti quella mossa fu di una bassezza tale da pregiudicare qualsiasi mia futura intenzione di comprare, dalla Piaggio, una Moto Guzzi nuova.

Fatta questa premessa, uno si chiede: e allora di cosa ci parli? Perché stai scrivendo?

Perché io, una volta, Guzzista lo sono stato. Il mio essere Guzzista venne decretato nero su bianco dall’SMS che ricevetti sul mio Nokia 3310, nei primi anni duemila, due minuti dopo che papà firmò il passaggio di proprietà della usatissima Florida 350 che mi aveva regalato. Me lo ricordo come fosse adesso, il telefono fece bip-bip e sullo schermo lampeggiò una pixellosa carta da lettere. La aprii e lessi: “Complimenti! da oggi sei un Guzzista”. Proprio così, c’era scritto, minuscole e punteggiatura sbagliate incluse.

L’amore che provai per la mia Florida fu viscerale, la amai la prima volta che vidi la sua ruota anteriore, con il disco del freno ed il parafango scintillanti, spuntare da un mucchio anonimo di moto dimenticate nel cortile del concessionario di Pesaro da cui la prendemmo; la amai durante ciascuno dei 70.000 km che facemmo insieme, la amai dopo aver modificato tutti i pezzi su cui riuscii a mettere le mani, la amai quando mi si ruppe in piena tempesta chissà dove sugli Appennini (di notte, tanto per), la amai quando si piantò due volte la valvola, la amai quando la vidi andare via sul cassone del pick-up di chi me la comprò, anche se ero contento, e la amo ancora adesso che, a conti fatti, la detesto per tutti i soldi che mi ha fatto buttare: ci veniva una Breva meno problematica.

Chissà, però, se l’avessi ancora, magari affidandola proprio alle cure impareggiabili di Roberto Freddi dell’officina Primo Moretti, magari ci andrei ancora in giro.

Però c’è un motivo per tutto, ed il motivo per cui, in realtà, non rimpiango la mia amata-odiata Florida 350 è che, venduta lei, ho cominciato a guidare la California di papà.

Qui, però, si apre un mondo, e mi perdonerai, ma bisogna che io faccia un salto indietro di più o meno 35 anni, ché tanto, se stai leggendo proprio queste pagine, è ovvio che ti interessa questo genere di storie, e quindi puoi ben dedicarmi qualche minuto del tuo tempo.

Anconatown, via Benedetto Croce, primi anni ’90. Avrò avuto 6-7 anni, e papà mi venne a prendere all’uscita di scuola. Con la moto, nonostante casa nostra fosse distante appena quattro-cinquecento metri. Ricordo come fosse oggi che mi fece salire davanti a lui, le gambe una di qua e l’altra di là del serbatoio – nessun pericolo di toccare i cilindri con i piedi, non ci arrivavo – e mi infilò il casco, un vecchio jet Nolan giallo che vent’anni prima aveva indossato mamma, nelle loro vacanze in moto per tutta Europa, e che da pochissimo tempo usavo anche io ogni volta che facevo un giretto sulla minimoto che papà mi aveva appena regalato.

Mani sul manubrio… e andiamo, non scorderò mai il sorriso che feci, l’aria sul viso, la pura e semplice felicità di muovermi in groppa a questa motocicletta enorme, lucida, possente, che mi pareva di guidare anche se ovviamente lo stava facendo papà.

Percorremmo via Benedetto Croce avanti e indietro come in una marcia trionfale, accompagnati dal rombo regolare del grosso motore, ed in quel momento assaggiai la speciale libertà che solo una moto può dare, e fu in quel momento che diventai non dico Guzzista, ma sicuramente certo al cento per cento che non avrei mai e poi mai rinunciato a quella moto, che un giorno l’avrei guidata davvero e che mi avrebbe tenuto compagnia per sempre.

A pensarci bene, io di Guzzisti ne conosco pochi. C’è Roberto, ovviamente, e tutta la sua famiglia, che lo sono da generazioni. Poi c’è papà Fabrizio, uno dei motociclisti più completi che io abbia conosciuto.

Con un nonno e un padre macchinisti ferrovieri a partire dalla fine dell’Ottocento, uno zio meccanico di idrovolanti e bombardieri ed un fratello ufficiale di macchina sulla Vespucci e sulla Raffaello, era più che naturale che anche papà avesse la passione per i motori. Cominciò a sedici anni, con una MV 125, ed ebbe poco meno di quaranta moto, di tutti i tipi: da quelle della guerra alle prime giapponesi, da pista e da cross, veramente di tutto. La sua prima Guzzi fu una Airone 250, della quale ricordava che “la notte, si arroventava lo scarico”, e poi fu il turno di una V7 Special, con la quale compì il suo primo viaggio: a nonna disse che sarebbe andato a Rimini, e le telefonò quando giunse a destinazione. Solo che anziché a Rimini era andato ad Amsterdam!

La Special ed i viaggi in moto gli piacquero talmente tanto, ed in quegli anni l’influenza del film Easy Rider era tanto forte, che appena uscì la 850 GT California decise che doveva averla. Anche perché lui sognava una Harley Electra Glide, ma quella ogni mese aumentava di prezzo, e così alla fine scelse la Guzzi.

La pagò in contanti, col provento dei quadri che dipingeva. E nonno dovette intervenire con la Moto Guzzi perché il concessionario voleva che i tubetti paraginocchia fossero pagati a parte, 500 Lire l’uno, quando papà aveva pagato sull’unghia un milione e cinquecento mila Lire (equivalenti a tre Fiat Cinquecento) per una moto che, nella foto del catalogo, quei tubetti li aveva di serie. Storie d’altri tempi.

Come d’altri tempi fu la lunghissima serie di viaggi che, a bordo di quella Moto Guzzi instancabile, papà fece in tutta Europa, a volte con degli amici ma molto più spesso con mamma Ada, la quale a volte guidava pure, portandosi dietro una tenda canadese ed il sacco a pelo, legati sopra un enorme baule che si era autocostruito.

Il primo viaggio fu ad Istanbul, in compagnia di una seconda V7, e poi in Portogallo e Spagna, in Francia, Germania e Svizzera, oltre la cortina di ferro (dove i miei caddero e li soccorse un gruppo di motociclisti di Verona, tutti infermieri!), in Romania, dove un ufficiale di frontiera accettò una penna Bic come tangente, in Grecia, dove un altissimo pastore gli offrì da bere e papà disse ai suoi amici “…e se fosse sonnifero e quello torna e ci ammazza?”, riuscendo così a dormire mentre loro si tenevano svegli a vicenda, facendo la guardia, in Olanda a trovare zio Orlando, e quella volta, tornando, fecero L’Aia-Vercelli in giornata e sotto l’acqua, e se non era amore quello…!

Mamma non mi ha detto niente, ma mi sono fatto dei conti e sospetto che mi concepirono mentre erano in vacanza a Sarajevo – ci erano andati con la moto, logicamente. E gli imprevisti? Una volta tornarono a casa con la cinghia della dinamo sostituita da una calza di mamma. E un’altra volta rientrarono con un cilindro solo. E una terza dovettero caricare la moto sull’Orient Express.

Insomma, non a caso il concessionario da cui papà comprò la moto gli chiese se potesse esporla ad un Salone, davanti ad una bella mappa di tutti i posti visitati in così poco tempo.

In effetti, quando nacqui io, la moto aveva 13 anni e circa 250.000 km. Dopodiché venne utilizzata molto meno, ed in campeggio ci andavamo con la macchina ed il carrello-tenda. Passati qualche anno ed un sacco di motorini e motorette, quando ebbi l’età giusta arrivò la Florida 350 ed arrivarono i giri insieme a papà, a bordo delle nostre Moto Guzzi.

A volte gli facevo da passeggero: il sabato, dopo pranzo, avevamo preso l’abitudine di andare a prendere io una Coca-Cola, e lui un gelato all’amarena, al bar in fondo a Corso Carlo Alberto, prima di salire verso il Duomo e passare una mezz’ora a guardare le navi che manovravano nel porto.

E gli feci da passeggero quel giorno di Giugno in cui prendemmo la moto per andare a fare i caroselli in città, per festeggiare la promozione dell’Ancona in serie B. Quella fu l’ultima volta che papà poté guidare la sua moto: nella notte venne colpito da un ictus che lo lasciò semi paralizzato, e la moto rimase in garage, inutilizzata, per i successivi tre anni.

Come mi è capitato di raccontare in un articolo pubblicato su Bicilindrica, quando decisi di far resuscitare la California non dovetti far altro che cambiarle l’olio e la batteria. Una leggera pressione sul bottone dell’avviamento ed ecco che il motore tornò a rombare, dopo neanche mezzo giro. Ricordo perfettamente le emozioni che provai quel giorno, quando guidai per la prima volta la motocicletta che era stata di papà, e con la quale avevo già un legame così profondo. Era grande, mastodontica, pesante, rassicurante.

E sentivo che aveva una gran voglia di riprendere un discorso interrotto a metà. Seduto a cavalcioni su quella sella confortevole, col motore al minimo che rombando faceva vibrare tutta la moto, era come se la moto mi stesse valutando: sarai all’altezza del mio amico Fabrizio? si chiedeva, pensando a papà che l’aveva guidata per tutta la sua vita. Hai voglia di fare tanta strada insieme? mi stava domandando. Perché lei non aveva mica voglia di andare in pensione, il rombo regolare del motore me lo stava dicendo chiaramente!

Ci bastarono i primi due metri fatti insieme per capirci, e a me bastarono per scoprire che quella moto mi piaceva infinitamente, più di qualsiasi altra avessi mai guidato, e mi piace ancora più di qualsiasi altra abbia mai guidato da quel giorno del 2011. Si guida benissimo: bilanciata, docile ai comandi, richiede una guida decisa e dura ma la ripaga con una stabilità ed un comfort di marcia assolutamente eccezionali, peraltro sconosciuti ad alcune delle moto moderne che mi è capitato di avere.

Cominciammo così la nostra storia insieme. Una storia dalle mille sfaccettature, durante la quale non sempre usai la California col riguardo che l’età ed il lignaggio impongono: infatti l’ho anche usata per portare le cassette del pesce, o la legna. Ma sono anche questi piccoli episodi irriverenti che irrobustiscono e rafforzano la relazione, e la mia moto divenne ben presto la più ammirata del porto, dove lavoravo già da un po’ e dove ancora oggi riscuote commenti ammirati.

Sì, perché io la mia California la uso per andare al lavoro tutti i giorni. A dispetto degli oltre cinquant’anni, si lascia usare anche come moto da pendolare: sole, caldo, pioggia, freddo, nebbia, si prende di tutto. E il finesettimana, via! a fare qualche bel giretto nelle mie strade preferite tra le Marche e l’Umbria. Del resto, con un pieno percorre poco meno di 500 chilometri, e riesce ancora a spingersi a 185 km/h, da brava granturismo d’epoca: è veramente un’ottima moto polivalente, e solo quando lavoravo in nave le ho concesso un po’ di riposo, giusto perché dovevo starle lontano per tanti mesi.

La nostra convivenza, però, non è fatta solo di questa quotidianità. Capitano anche degli eventi un po’ fuori dall’ordinario.

Per esempio, grazie a lei ho potuto conoscere meglio quel gran maestro della meccanica che è il già citato Roberto Freddi, dell’officina Primo Moretti di Macerata. Roberto ha preso a cuore la mia moto, che del resto non ha mai dato problemi, ed ho l’abitudine di portargliela ogni anno per una controllatina. Col tempo è nata una buona amicizia, tanto che ho avuto anche modo di parcheggiare la California nel box di Misano occupato dal team di Roberto, quella volta che vinsero il titolo nazionale endurance.

Sempre a Misano, con la California facemmo un simbolico giro di pista in ricordo di Marco Simoncelli; e poi, l’8 Agosto 2016, il contachilometri girò superando i 300.000 km.

Ora devo aprire una piccola, ma doverosa parentesi. Ho già detto che, quando nacqui, la moto aveva circa 250.000 km: papà mi diceva sempre che il contachilometri aveva “girato due volte”, prima di rompersi. Da che ho memoria, è rimasto rotto fino al 2000, quando papà fece ricromare alcuni particolari e, con l’occasione, fece anche riparare lo strumento. Nel 2008, quando mio malgrado ereditai la moto (avrei preferito farlo in una circostanza diversa), esso segnava 276.500 km. Pochissimo tempo dopo si ruppe un qualche ingranaggio all’interno del contachilometri, e su consiglio di Roberto lo mandai a riparare presso uno specialista, al quale feci aggiornare il totale a 290.000.

Non penso di aver esagerato, facendo aggiungere questi 13.500 km, anzi, penso di essermi comunque tenuto basso. Infatti, se dal 2000 al 2008 papà aveva percorso circa 26.500 km, cioè 3.300 circa all’anno, potrà ben averne percorsi almeno 13.500 dal 1986, anno in cui nacqui, al 2000, anno in cui riparò il contachilometri: non sono neanche 1.000 km l’anno.

Questi conti cervellotici mi servono per introdurre un altro episodio che mi piace ricordare: cioè quando la moto fu protagonista di un servizio di Motoclassiche. Fu un’esperienza molto divertente: venni contattato da Alberto Pasi, grandissimo appassionato di moto, in particolare di Triumph, che aveva letto non so dove dell’esistenza di questa vecchia moto piuttosto chilometrata.

Organizzò un servizio fotografico col bravissimo Alvaro Deprit (non mi stancherò mai di vantarmi del fatto che mi ha fatto le foto lo stesso fotografo che ha lavorato per Playboy) e passammo un pomeriggio piacevolissimo a fare avanti e indietro sul Monte Conero, accompagnati da mamma Ada, lungo le strade che conosco benissimo per aver abitato proprio lì a due passi fino a pochi anni fa: per un sacco di tempo sono state il mio “circuito” personale, e quel giorno mi divertii davvero tanto a fare le pieghe a favore di fotocamera. All’epoca, la moto aveva già 340.000 km.

In verità la California di mamma e papà apparve anche su altre riviste: alcune volte sul rimpianto Motociclismo d’Epoca, e poi su InMoto, dove mi pubblicarono un articolo che parlava di un raduno a cui avevo partecipato. Raduno tra i più importanti della mia vita.

Era un periodo che facevo esperienze motociclistiche di tutti i tipi: provavo qualsiasi genere di moto, andavo a vedere tutti i tipi di gare, vedevo un incontro che mi incuriosiva e ci partecipavo. Tutto questo perché poi avevo piacere di scriverne alle riviste, per esplorare in tutte le sue sfaccettature questo mondo vivace che è il motociclismo.

Quella volta scelsi di andare a Melano, questo paesino mai sentito nei pressi di Fabriano. Inforcai la Guzzona e dopo un po’ arrivai a destinazione. E, non appena entrai nel campetto da calcio che fungeva da sede del raduno, la mia attenzione fu attirata dalla ragazza più bella che avessi mai visto. Che, combinazione, era l’organizzatrice del raduno.

Si chiamava Nicia ed oggi, otto anni dopo, è mia moglie.

E sì, ci siamo andati a sposare con la moto!

Che festa, quel giorno! I parenti e gli amici più stretti, la California tutta tirata a lucido, infiocchettata di bianco davanti e dietro. Perché non era solo la moto con cui ci siamo conosciuti. Non era solo la moto con cui mamma e papà hanno esplorato mezza Europa e sulla quale hanno condiviso tanto. Non era, come dice Vale, solo un pezzo di ferro.

Quel giorno, sulla California tirata a lucido e infiocchettata, c’era papà, che ci accompagnava a sposarci. Non ha mai avuto modo di conoscere Nicia, ma sono sicuro che gli sarebbe piaciuta tantissimo. Intanto perché è una compagna, e poi dai, una ragazza che organizza i motoraduni, ma che figa è?! E che continua a venire in moto con me nonostante siamo pure cascati su una invisibile e bastardissima macchia di gasolio… nonostante le abbia squagliato mezzo casco sulla marmitta della Bandit!

Una motociclista vera: certo, che gli sarebbe piaciuta!

All’inizio di questo racconto ti ho chiesto se ti fermi mai a pensare ai sentimenti che si porta dietro una moto, quando la vedi parcheggiata.

Se vedi parcheggiata la mia, non te la prendere troppo se appare sporca, se le cromature in qualche punto sono saltate, se una borsa è diversa dall’altra. Quelli, sono solo oggetti, particolari, inezie, quisquilie. È solo la superficie, il corpo, l’involucro esteriore.

Vai più a fondo, pensa alla vita che è passata sopra quella moto, pensa a mio papà da giovane coi baffoni e il gilet di pelle, a mia mamma, bellissima con i capelli lunghi e i jeans, pensa ai Paesi che ha visto e che ora non esistono più, pensa a quanta strada ha illuminato quel faro, a quanta se ne è lasciata dietro il cono di luce rossa del posteriore, pensa al freddo che ha preso, all’acqua ed ai moscerini spiaccicati, pensa alle cadute, ai guasti e ai riavvii, pensa all’amore di un figlio per i suoi genitori, al dispiacere di aver perso suo padre, alla gioia di aver trovato la compagna di tutta una vita ad un motoraduno in un paesino tra i monti.

La mia moto è la mia, epperò non è solo la mia.

Perché se, come dice Vale, le moto hanno un’anima, la mia moto porta dentro di sé, sopra di sé, tutto intorno a sé tantissime anime.

Porta innanzitutto quella di chi l’ha progettata. Poi porta quella di chi l’ha costruita. Poi porta quella di chi l’ha venduta, il concessionario che voleva far pagare 500 Lire i tubi paraginocchia. Poi porta quella di chi l’ha comprata, il ragazzo che diceva “la moto è libertà”, e porta quella della donna che con lui ha condiviso tanto amore e tanta vita, sua moglie. Porta quelle dei meccanici che l’hanno riparata e porta quella del maestro che la tiene in regola controllandola una volta l’anno. Poi porta la mia, e quella di mia moglie.

Questa Moto Guzzi California, che dal 1973 continua orgogliosamente a nutrirsi di benzina e asfalto, è impregnata di tutte queste anime.

Perché io posso anche pensare di non essere Guzzista, ma sono sicuro al centodieci per cento che la mia moto ha un’anima grossa così.