Home Blog Pagina 38

Ettore Gambioli

0

di Mauro Iosca

UNA PASSIONE DI PIETRA

AnimaGuzzista Maestri Ettore Gambioli _

Artista ereditario:
tra la molte cose che un individuo può diventare nella vita, una (e qualche volta accade) è l’erede della maestria o dell’arte del proprio genitore e se accade con vero talento guidato da un’amorevole guida, è probabile che le gesta artistiche che ne conseguiranno avranno risultati migliori di chi li indirizzò col proprio esempio.

Esistono paesi giù da noi dove, anche senza percorrere distanze siderali, ci si può ritrovare a fare dei veri e propri “salti indietro nel tempo” nel periodo delle cose semplici e dure, quelle cose che non s’imparano con un corso su CD comprato in internet nell’altro emisfero. Quelle cose che solo antichissime tradizioni e grande orgoglio riescono a portare in dote nel futuro, quale segno di un nobile impegno e di un’esistenza decorosa.

Siamo a Cagli, nell’entroterra marchigiano, in quella parte della provincia di Pesaro che non ha più nulla di romagnolo, nemmeno la piadina: qui infatti il companatico si chiama crescia e ha tutt’altro sapore.
Ettore Gambioli vive qui in una grande casa con tutta la sua famiglia (la sua, con la moglie Silvia e la piccola Agata, più quella dei suoi genitori con la nonna); casa nella quale hanno anche il laboratorio da dove escono la maggior parte dei loro lavori, che con il papà Paolo, scultore e pittore come il figlio (o forse avrei dovuto dire che il figlio è come il padre ma avrete capito…) realizzano.

La loro attività artistica li impegna per l’ottanta percento nell’esecuzione di nuovi lavori mentre la restante parte la occupano i restauri e le manutenzioni (lavori molto delicati per chi vive in questa parte d’Italia ricca di edifici e monumenti medioevali) e comunque bisogna precisare che anche buona parte dei nuovi lavori sono pura interpretazione artistica: bassorilievi, statue e decorazioni che possono impreziosire fontane, monumenti o qualsiasi richiesta il cliente desideri. La capacità che i Gambioli hanno di spaziare, specialmente con l’arte scultorea, li ha portati anche a realizzare opere uniche come quando realizzarono un totem indiano di sei metri d’altezza in legno massiccio per il film di Veronesi “il mio west”, o con il recentissimo monumento realizzato per il centenario del “giro” che ha trovato posto sul gpm della tappa più dura che non a caso passava di qua.

 


Entrando a casa Gambioli si incontrano immediatamente una stupenda California II del 1982 di Paolo e il V11 Sport verde Legnano di Ettore.
Ettore è un tipo calmo e deciso e riguardo alla Moto Guzzi non ha esitazioni: “la Guzzi è la moto di famiglia, non si discute vuoi perché in queste cose sono un po’ nazionalista vuoi per quel motore così imponente che riempie l’oggetto moto e lo fa sembrare più bello e più importante … oppure perché essere guzzista faceva coppia con tutte le mie stranezze.”
Ettore ha lo sguardo di chi trova la serenità nel lavoro d’ogni giorno e che paradossalmente non sarà mai uguale un giorno con l’altro eppure di due cose è sempre stato certo: del lavoro che avrebbe imparato e della Moto Guzzi che avrebbe posseduto, così inevitabilmente ogni tanto questi due mondi si intrecciano e dalle mani dell’artista nascono questi splendidi OGM (Opere Guzzisticamente Manufatte).

L’amicizia con Franco Bartoli di Bicilindrica (vangelo d’ogni buon guzzista) ha fatto peggiorare la “malattia” di Ettore per la Moto Guzzi. “il guzzista ha la testa, è uno che ragiona …incontri uno sconosciuto guzzista, ci parli per due ore e poi come niente ci vai a cena insieme …è straordinario.”

Grazie anche all’assidua collaborazione con la rivista Bicilindrica, i lavori di Ettore – oltre a moltiplicarsi – cominciano ad essere conosciuti dal pubblico che li apprezza sempre con soddisfazione (vedi anche il grande successo avuto dalle stampe distribuite con i tesseramenti di Anima Guzzista) e comunque possiamo tra i suoi lavori più importanti annoverare innumerevoli dipinti (circa una quarantina), sculture (tra cui l’ormai celeberrimo Premio Anima Guzzista/Bicilindrica), calendari, il biglietto d’auguri (acquarello) che la Moto Guzzi ha inviato a tutti i concessionari nel mondo, diverse mostre anche con Alis Agostini e la stessa Moto Guzzi in occasione dei raduni di Mandello.

Pur non essendo uomo di “numeri” Ettore cita i dati dell’epoca Aprilia che evidentemente è il periodo che più gli aveva fatto sperare in un grande rilancio per l’azienda e non commenta l’attualità a parte per l’alone di tristezza che si percepisce nei suoi occhi.
“L’MGS è la prova provata che la dirigenza Aprilia era nel giusto! Dalla Moto Guzzi non ho mai capito perché non sfruttassero tutti quegli appassionati che la venerano e che senza nulla chiedere si adopererebbero per lei.”.

Spesso divagando parla di Giuseppe Ghezzi, suo amico, e di quanto fosse perfetto il suo modo d’interpretare le Guzzi contemporanee; considera la Griso la moto che oggi meglio incarna la filosofia del marchio e pensa a lei come punto di partenza per la nuova Guzzi del futuro, che per Ettore dovrebbe essere marcatamente originale e di stile europeo senza somigliare ad una BMW, massiccia e tondeggiante con linee che non durino solo una stagione.

Che bello se in una nuova era si ripartisse con rinnovate energie in un luogo che – ovunque fosse – contenesse tra le altre cose un monumento alla Moto Guzzi fatto proprio da Ettore Gambioli, che per questa azienda e per la sua storia ha tanta passione, tanta almeno quanta ne ha per la sua terra e per la sua arte, Ettore che salutandomi mi disse “Mandello forse non è più il luogo adeguato per produrre… ma per pensare non riesco ad immaginarne uno migliore.”

Omobono Tenni

0
Omobono Tenni
di Fange

Grazie ad Aldo Locatelli per il materiale che mi ha procurato, fondamentale base per scrivere ed illustrare questo documento.

Da tanto avrei voluto scrivere qualcosa su Tenni, ma la cosa mi è sempre sembrata un’impresa insormontabile. Poi piano piano ho maturato l’idea di scrivere qualcosa di lui che non fosse però semplicemente la storia della sua vita. L’impossibilità di conoscerlo di persona mi ha sempre spinto a raccogliere con la massima attenzione ogni testimonianza che mi permettesse di costruire nella mia mente una specie di immagine reale di lui, come se lo avessi conosciuto.
A tal proposito preziosissimo è stato il contributo dell’ Ing. Giulio Cesare Carcano, che parla di Tenni nell’intervista rilasciata ad Anima Guzzista per mano di Luca Angerame e Aldo Locatelli che non finirò mai di ringraziare. Ma la testimonianza più completa che è riuscita a “coronare” questo mio desiderio di conoscenza è stata la lettura del libro biografico “Tenni” scritto dal giornalista P. M. Bianchin e pubblicato dalla casa editrice Canova di Treviso il 12 luglio del 1948, cioè circa 10 giorni dopo la morte del grande Campione.

Tenni e la velocità

omobono2

Giusto per far capire di che periodo storico parliamo, Tenni partecipa alla sua prima corsa il 24 marzo del 1924 sul circuito trevigiano della strada di Postumia al fianco di nomi come Ghersi, Nuvolari (proprio lui), Mentasti, cioè i più grandi campioni del tempo. E vince.

Viveva a Treviso e probabilmente quella strada per lui era percorribile anche ad occhi chiusi ma questo non sminuisce la sua vittoria, visto che aveva appena 19 anni e da poco era riuscito a mettersi in proprio come meccanico e la moto l’aveva preparata lui stesso.

Di lui l’Ing. Carcano dice:
“Chi ammiravo, pur non condividendone il modo di correre, era Tenni.
Tenni era un individuo stranissimo, se lo aveste conosciuto. Se fosse qui seduto con noi sarebbe calmo, come noi, proprio una persona normalissima. Come metteva il sedere sulla moto cambiava da così a così (fa il gesto con la mano).
Ricordo bene che, quando era sulla motocicletta, il suo scopo era andare forte.
Non vincere la gara, ma andare forte.
Un giorno mi ha detto:”Ma tu credi che il pubblico va a vedere le corse per vedere se arriva prima Gilera o se arriva prima Guzzi? No, va a vedere le corse perchè vuole vedere andare forte.” Ad esempio Lorenzetti era un calcolatore: se era in testa staccava 20 metri prima. Tenni no, se era primo staccava 5 metri dopo. Diceva: “Mi sento di derubare il pubblico”, era un concetto diametralmente opposto.”
Tenni era una persona tranquillissima e riservatissima, al limite della normalità, quasi un caso da analisi clinica. Per lui parlare era fatica e Bianchin riusciva a strappargli le testimonianze necessarie a scrivere la sua biografia facendo leva sulla loro amicizia ed invitandolo nel suo studio dove dialogavano in assoluta riservatezza. E con tutto ciò Bianchin dichiara che la fatica per farlo parlare era enorme. Tenni aveva vergogna a parlare di se stesso davanti alle persone, agli amici, persino davanti alla famiglia. Bianchin lo definisce un uomo dalla “riservatezza francescana”.
Eppure lui e la moto formavano un’arma micidiale: “il suo corpo mortale vibrava insieme alla macchina con la quale aveva saputo tutto osare sulle strade di ogni paese”.
Ma diversamente da ciò che desiderano quasi tutti gli aspiranti campioni, la sua sete di vittoria non coincideva affatto con la voglia di popolarità. Egli subiva il fascino della velocità; man mano che aumentava l’andatura la sua mente ne chiedeva ancora di più e ancora di più e ancora di più. Come ci dice l’Ing. Carcano, per Tenni vincere una gara era un dettaglio: a lui interessava andare più forte che poteva sul tracciato su cui correva. Risulta impressionante la quantità di record sul giro che riuscì a mietere. Amava ripetere “Mi ritirerò solo quando avrò trovato uno più veloce di me”.
L’elemento principale della vita di Tenni sembra quindi essere la velocità.
Nel 1931 Tenni decide che i circuiti cittadini, per intenderci quelli organizzati sulle strade normali di tutti i giorni con le balle di paglia lungo il percorso, non gli permettono di esprimersi al massimo. Per lui ci vuole un circuito dove poter dare il massimo: il circuito di Monza!!
Prende parte ad una gara che si disputa su questo velocissimo tracciato e dopo una partenza fulminante al dodicesimo giro è in testa ed ha superato tutti i più grandi campioni, ma rompe il pistone e si deve ritirare. Ed in quel momento esclama sconfortato:“No ghe xe machine par mi” (Non ci sono macchine per me).
Capirete che per Tenni correre non significava solo vincere. Significava dare il massimo, spremere il mezzo oltre i suoi limiti, fare quello che un altro al posto suo non avrebbe mai fatto ignorando tutti i rischi che questo avrebbe comportato.
Dal 1924 al 1932 Tenni colleziona sei importanti vittorie che lo impongono all’attenzione della stampa nazionale. In particolare nel 1931 la vittoria al Gran Premio Reale di Roma lo proietta nell’olimpo dei campioni. Ma la vittoria che gli darà la più grande soddisfazione la consegue nel 1933 quando partecipa alla gara di Rapallo sul circuito del Tigullio. A quella gara partecipa anche il più grande campione del tempo: Pietro Ghersi. Tenni lo stima e lo ammira come un idolo ed è per questo che alla fine della gara confiderà a Bianchin:”Non ho voluto sorpassarlo nei primi giri perchè mi dispiaceva… mi sembrava di fargli del male”. Ma nell’ultimo mezzo giro Tenni affonda il gas e se lo lascia dietro senza pietà.

Tenni entra nella squadra Guzzi

Egli era cosciente delle sue capacità; la sua irruenza, potenza, spregiudicatezza e “l’ardimento” alla guida, per dirla con un termine molto in voga all’epoca, non coincidevano affatto con la lucidità e l’intelligenza che dimostrava a tavolino. E fu proprio questa sua coscienza degli eventi che lo portò a darsi una scadenza: entro il 1935 avrebbe partecipato alla gara più importanta del mondo: il Tourist Trophy dell’isola di Man, in Inghilterra!
Come prima cosa, per riuscire nell’impresa ci voleva un ingaggio importante in una squadra corse ufficiale. Fortunatamente la Guzzi lo assoldò subito dopo la vittoria su Ghersi. E il primo passo verso il TT era compiuto.
Il 15 ottobre del 1933 la Guzzi lo portò a Roma sul circuito del Littorio per il “Trofeo della velocità” con la bicilindrica 500 in una delle sue prime apparizioni. Il nome del trofeo non poteva essere più azzeccato per Omobono. Ma dopo i primi giri Tenni cade a 180 all’ora (velocità rilevata dai cronometristi). Fu la sua prima caduta in gara, spaventosa, la folla si paralizzò. Dopo 300 metri di strisciata Tenni balzò in piedi correndo verso la moto per riprendere la gara ma si era rotto il gas e la corsa finì lì. Questo episodio attirò su Tenni molte critiche da parte della stampa poichè dopo i primi due giri Tenni era già in vantaggio di un terzo di giro sui concorrenti. Eppure Tenni dava gas come un forsennato e fu accusato di eccessiva irruenza laddove non ci sarebbe stato nessun bisogno di “gettarsi a capofitto nelle curve e d’arrischiare com’egli ha arrischiato” (Motociclismo, 19/10/1933)
Ma questa fu solo la prima prova che Tenni diede delle sue straordinarie qualità fisiche.
Dopo altri successi nel 1935 la Guzzi gli offrì la grande possibilità: il Tourist Trophy.
Il pronostico era stato rispettato!!

Il primo Tourist Trophy

Doverosa parentesi per i meno informati: il Tourist Trophy si corre sull’isola di Man nel nord dell’Inghilterra. È considerata una delle corse più antiche del mondo (prima edizione ufficiale nel 1907) e per questo resiste ancora oggi come unica gara di risonanza mondiale che si svolge su di un circuito cittadino, pur non essendo più inserita nel calendario ufficiale dei Campionati Mondiali Velocità. Si tratta di una strada che normalmente è aperta al traffico e che viene trasformata in circuito in occasione del TT. Il tracciato si snoda su una distanza di circa 37 miglia che comprende di tutto: salite, discese, tornanti, tratti in mezzo alle case, muretti, recinzioni e pali della luce!! Ogni anno vede qualche pilota perdere la vita ma nonostante questo è considerata un culto ed è praticamente intoccabile. Memorabili i duelli tra Agostini e Mike ‘The Bike’ Hailwood durante l’appuntamento del Motomondiale che negli anni ’60 comprendeva anche il circuito del Mountain sull’isola di Man. Durante i quasi 100 anni di vita del circuito, le uniche cose che hanno impedito lo svolgersi della gara annuale sono state le due guerre mondiali e la malattia “lingua blu” che alla fine degli anni ’90 ha colpito gli ovini europei. Si temeva che le decine di migliaia di persone che sarebbero accorse per la manifestazione sportiva avessero potuto propagare il virus sull’isola dove non era ancora comparso.
Detto questo spero si comprenda l’importanza che la gara dell’I ‘o Man, per dirla all’inglese, aveva nel 1935. La corsa più famosa del mondo, la gara dei giganti, l’appuntamento di tutto l’olimpo dei più grandi campioni di fama mondiale. Sin dalla prima edizione, 28 anni prima, veniva vinta da piloti inglesi su moto inglesi (a parte una vittoria della Indian in una delle prime edizioni)!
Tenni su Guzzi 250 impone il suo ritmo già dalle prove facendo registrare un tempo record sul giro mai visto prima: 30’10”. Ma la gara verrà vinta dall’inglese Stanley Woods, anche lui su Guzzi. In gara Tenni cade al quinto giro a causa della nebbia che rende la visibilità scarsissima e non gli fa vedere in tempo un corvo che si era piazzato davanti alla sua moto. Ma nonostante la vittoria in gara Woods non riesce a battere il tempo di Tenni facendo registrare il giro più veloce a “soli” 30’31” cioè 21 secondi in più.
Tenni comincia a fare paura a tutti. La stampa inglese lo nota subito e lo marchia con l’appellativo di “The black devil” (il diavolo nero).
L’incidente in gara gli procura la frattura di due vertebre ma dopo due giorni Omobono vuole partecipare alla gara delle 500.

omobono3

Dovranno intervenire i dirigenti italiani per impedirgli di correre e per trasportarlo in Italia dove si rimetterà dopo 20 giorni, pronto a risalire in sella nonostante i medici inglesi lo avessero dato per finito. Mentre veniva curato a Bologna riceve la notizia della nascita del secondo figlio che chiamerà Giuseppe, nome che trasformò subito nel soprannome “Titino” in onore del TT, il Tourist Tropy.
Tenni ormai appartiene ad un altro pianeta; dopo un mese dalla dimissione dall’ospedale partecipa alla gara del Circuito di Livorno valevole per la Coppa Ciano. Arriva primo staccando i suoi compagni di squadra di 10 minuti uno e di oltre 30 minuti l’altro.
Non sto qui a raccontarvi tutte le imprese di Tenni perchè sono quasi tutte uguali: se la moto non si rompe Tenni vince e umilia tutti.

L’incidente delle due dita

Nel marzo del 1937 accade il famoso incidente delle due dita. Di questo incidente esistono diversi racconti leggermente discordanti ma più o meno le cose andarono così: Tenni si allenava sulle strade del Lario per partecipare alla corsa Milano-Napoli. Un carro sbucò all’improvviso da una traversa e Tenni lo prese in pieno a forte velocità. L’impatto fu tremendo e dal piede del pilota si staccarono due dita. Tenni non fece un lamento, prese le dita e le mise in tasca avvolte in un fazzoletto mormorando: “Chissà che non le possano riattaccare”. Venne trasportato in ospedale ma durante le cure le due dita rimasero nella tasca del pilota, probabilmente a causa dello stordimento dovuto all’incidente. Fatto sta che le dita uscirono dalla sua tasca solo dopo le medicazioni ed oramai era tardi per tentare un intervento di ricucitura.
Una variante meno credibile del racconto recita che Tenni dopo le prime cure tirò fuori il fazzoletto dalla tasca per soffiarsi il naso e ne uscirono le due dita, quando le vide il campione esclamò:“Me le ero dimenticate…”. Se qualcuno conosce la versione ufficiale della storia si faccia pure avanti.

Il secondo viaggio all’Isola di Man

I primi di giugno del ’37 Tenni riparte verso l’isola di Man per partecipare di nuovo al tanto sognato Tourist Trophy che nessuno straniero era ancora riuscito a vincere. La ferita al piede è ancora aperta ma Omobono sente solo il richiamo dell’isola. La sua determinazione a partecipare alla grande competizione internazionale è totale e nel mondo sportivo inglese spasmodica è l’attesa per l’arrivo del Diavolo nero: The black davil!
Un famoso quotidiano inglese lo accoglie addirittura con un ampio titolo che appare su tutta la testata del foglio:“L’uomo che viene dalla terra dei Cesari”.
Mai nessun campione ha avuto in Inghilterra tanti omaggi come Omobono. Egli arrivò a dire a Bianchin: “Gera stufo!…”, intendendo che non ne poteva più di fotografi, giornalisti e via discorrendo. Già durante gli allenamenti una folla insolita si assiepa lungo il tracciato per vederlo passare.
Una mattina durante un allenamento con la sua fida Guzzi 500, Tenni si infila a tutta velocità in una curva subito dopo il traguardo dove c’è una ripida discesa., sia pure breve, ma a piccoli tornanti pericolosissimi. Chi assisteva urlò di terrore:”S’è ammazzato!”. Invece Omobono riuscì a controllare la moto facendo dei zig-zag e la stampa che non lo mollava un attimo subito pubblicò:“Tenni è un pazzo, ma un pazzo che sa dominarsi ed è un avversario molto pericoloso. Davanti alle persone che assistevano alle prove egli ha scritto i numeri sulla strada”.
Durante l’ultimo giorno di allenamento Omobono stabilisce il primato sul giro come era avvenuto due anni prima.
Il giorno della gara una folla enorme occupava ogni angolo del tracciato. Moltissimi erano li per lui, per il “Diavolo nero”, per l'”Uomo che viene dalla terra dei Cesari”, per il “Re delle curve”, per “Colui che sfida la morte”. Nell’aria si respira il pericolo che Tenni possa far abbassare dal pennone il vessillo del Regno Unito, avvenimento inconcepibile per gli Inglesi pur nella loro sportività.
Dopo aver ascoltato l’inno britannico, Tenni entra in gara con la 250 e parte a tutta velocità lasciandosi dietro Ginger Wood, Tyrell Smith, Stanley Wood (su Guzzi), E. Kluge, Ernie Thomas e Les Archer che cercheranno la rimonta lungo il percorso di 37 miglia e 3/4 da ripetere sette volte. Prima della fine del primo giro, Tenni scivola sull’asfalto viscido per il sole cocente. Perde 35 secondi e passa in seconda posizione dove rimane per due interi giri.
Ma Tenni vuole vincere ad ogni costo e si getta in una corsa folle verso il primo posto. Una foto scattata a Tenni durante un curva affrontata a tutta velocità verrà definita all’unanimità dalla stampa internazionale come “la più bella foto mai scattata ad un motociclista in azione”.

omobono4

Al quarto giro Tenni riconquista la prima posizione e spinge così forte sul gas da staccare tutti gli avversari. Durante questo giro stabilisce il record assoluto del tracciato con un tempo pazzesco di 29 minuti e 8 secondi alla incredibile media di 77,72 miglia orarie. Ma è il settimo giro, l’ultimo della gara, che riserva a Tenni una amara sorpresa che metterà a dura prova il suo sistema nervoso. La moto si ferma per colpa della candela. Tenni inizia l’operazione di sostituzione con le mani tremolanti per la tensione. In cuor suo sentiva la vittoria sfuggirgli, come confiderà poi a Bianchin. Ma sostituita la candela si butta di nuovo a corpo perduto sulla pista. E’ ancora primo seppur di poco e vede la vittoria a portata di mano. La folla impazzisce per l’impresa, i radiocronisti inglesi urlano ai microfoni con una enfasi tale da far perdere quasi il significato delle parole. In quei frangenti venne pronunciata alla radio la famosissima frase che fece il giro del mondo:
“Tenni curva con pazzo abbandono tanto da far dubitare circa il suo giungere al traguardo in un sol pezzo”. In Italia moltissimi erano quelli che attendevano vicini alla radio l’ultima frase dei radiocronisti, la frase liberatoria:”TENNI HA VINTO!!”.
Omobono vince il TT per la categoria 250 in un tempo di 3 ore, 32 minuti e 6 secondi alla fantastica media di 74,72 miglia (120,224 km/h e non dimentichiamo che guidava una 250 monocilindrica). Al secondo posto giungeva Stanley Wood staccato di 37 secondi e terzo era E.R. Thomas staccato di 4’30” da Tenni.

omobono7

La corsa più importante del mondo veniva vinta per la prima volta da uno straniero su una moto straniera dopo 25 edizioni (disputate in 30 anni) di supremazia inglese e sul pennone veniva issato il Tricolore italiano. Tenni era diventato una Star e distribuiva non meno di tremila autografi al giorno. “Me faceva mal la man”, riferirà a Bianchin una volta in Italia. Subiva l’assalto dei giornalisti e dei fotografi. Attori ed attrici famosi si congratulavano con lui senza contare i massimi esponenti dello sport inglese e le autorità britanniche. Fu un enorme trionfo. Non mancò un telegramma alla famiglia dove scrisse solo:“Primo et giro più veloce Tenni”.
Dopo un giorno di riposo l’aspettava la corsa nella categoria delle 500. Tenni riferirà di aver provato la più grande emozione quando prima del via venne issato il Tricolore al posto della bandiera inglese e venne suonata la “Marcia Reale” al posto di “God save the King”. Purtroppo la sfortuna si trovò davanti alla moto di Tenni e al quarto giro si ruppe il filo del gas mentre Tenni era secondo. Il ritiro fu inevitabile ma ormai l’impresa era compiuta.

Il Gran Premio d’Europa

Tornato a Treviso fu festeggiato da amici ed ammiratori e confidò a Bianchin le sue impressioni:“Questa volta mi pareva di correre a casa mia e di avere un pubblico mio”. Ero deciso a vincere ad ogni costo, costasse qualunque cosa: l’Italia doveva vincere il Tourist Trophy…”.
Dopo poco Tenni è di nuovo in partenza per Berna dove il 4 luglio si disputerà il Gran Premio d’Europa 1937. Quando Bianchin gli si avvicina per scattargli qualche foto poco prima della partenza Tenni gli dice:“I xe anca stufi de vedarme…” (saranno anche stufi di vedermi) facendo onore alla sua proverbiale riservatezza.

omobono6

Vince la 250 calcolando i centesimi di secondo ad ogni giro e al secondo posto si classifica Pagani facendo salire il tricolore per due volte sul pennone. Si tratta della seconda importante affermazione internazionale di Tenni che da ora in poi non conta quasi più le vittorie. Da segnalare la vittoria sempre nel ’37 sul circuito di Monza nella classe 500 e il secondo posto nella classe 250. Nel ’38 poi Tenni si trova sul circuito di Monza per dei tentativi di record nelle classi 250 e 500. I risultati sono riassunti nelle righe seguenti:
5 Km. lanciati record del mondo alla media di km 187.832
5 miglia lanciate record del mondo alla media di km 187.503
10 Km. lanciati record del mondo alla media di km 174.833
10 miglia lanciate record del mondo alla media di km 178.485
50 Km. da fermo record del mondo alla media di km 182.629
50 miglia da fermo record del mondo alla media di km 177.779
100 Km. da fermo record del mondo alla media di km 178.807
100 miglia da fermo record del mondo alla media di km 179.914
Un’ora da fermo record del mondo alla media di km 180.502
Durante il 1939 Omobono è costretto ad interrompere la sua attività sportiva a causa della guerra in rapida espansione. Tenni passa tutto il periodo bellico a Treviso dedicandosi alla famiglia ed alla sua officina in Piazza Filodrammatici. In questo periodo si riprende anche dalle oltre 60 cadute accumulate negli anni delle corse che hanno segnato e cosparso di cicatrici il suo corpo.
Alla fine della guerra Tenni è indeciso se riprendere o meno a correre anche perchè ha raggiunto i quaranta anni. Ma la filosofia di Tenni è una sola:“Mi ritirerò solo quando avrò trovato uno più veloce di me!”. E così si ripresenta nel 1945 sui campi di gara. E’ un susseguirsi di vittorie ininterrotte.

Nel 1948 partecipa per la terza volta al Tourist Trophy. Dopo aver segnato il giro più veloce, al quinto giro è costretto a ritirarsi per problemi alla candela ed ai freni. Quegli stessi inglesi che lo avevano definito undici anni prima “il diavolo nero” ora lo chiamano “il più grande campione del mondo”.

omobono7omobono8La parentesi a quattro ruote

Per rendere un quadro quanto più completo della personalità del grande campione è giusto parlare anche del suo breve “cedimento” alla tentazione dei mezzi a quattro ruote. Probabilmente fu spinto a tentare la sorte con le auto dall’esempio del grande Nuvolari ma anche dalle pressioni psicologiche che la moglie e gli amici esercitavano su di lui per farlo smettere di correre in moto in qual modo ritenuto troppo pericoloso.
Omobono partecipò alla Mille Miglia del 1936 su una Maserati, nella categoria delle 1500 cc.
L’Ing. Carcano ci racconta come testimone diretto questo episodio della carriera di Tenni:
“sì sì, mi ricordo una delle esperienze automobilistiche di Omobono Tenni. Sapete che Tenni ha corso in automobile, e ha fatto una Mille Miglia con Bertocchi, che era il Moretto della Maserati. Questo Bertocchi dopo le prime uscite che ha fatto con Tenni, per prima cosa ha messo un bottone grosso così che metteva a massa l’accensione, (ride) perchè se succedeva qualcosa pigiava e via. Bertocchi diceva che Tenni era terribile, era Tenni anche in automobile.
A Milano avevano fatto un circuito intorno all’Arena, tra il parco e l’Arena. L’anno di preciso non me lo ricordo, era dopo la guerra. La Maserati aveva portato il 1500 ed il 3000. Tenni fece una decina di giri in prova con il 3000 ed aveva già portato via tutte le balle di paglia che c’erano. Allora l’hanno fatto correre con il 1500 (ride).
Mi ricordo che lui aveva il 1500 quattro cilindri, e c’era Trossi che aveva la nuova 1500 sei cilindri. Ha vinto Trossi, ma Tenni era lì, stava dietro non so se per ordine di scuderia o perchè non riusciva ad andare più forte.
Corre Omobono… anche con l’auto era un irriducibile.”
Successivamente partecipò al Gran Premio di Montecarlo dove fu costretto a ritirarsi per problemi alla macchina dopo aver stabilito il primato sul giro e mentre stava conducendo in testa la corsa. Al Gran Premio di Germania, al Nurburgring, stabilì ancora una volta il record sul giro ma non riuscì ad arrivare tra i primi decidendo in quell’occasione che forse la moto era un mezzo che gli si addiceva di più.

La morte di Tenni

Tenni è intenzionato a scacciare la delusione per il ritiro al TT partecipando al Gran Premio di Berna con tutta l’intenzione di vincere. Il primo luglio del 1948, alla curva Ejmatt del circuito di Berna Omobono Tenni muore in seguito ad una tragica caduta. Incredibilmente poche ore dopo la morte di Tenni anche un altro grandissimo campione muore cadendo alla stessa curva: Achille Varzi. Anche in questo caso è sicuramente preziosa la testimonianza resaci di “prima mano” dall’Ing. Carcano:
“Tenni aveva un morale ed un coraggio enormi. Mi ricordo con dispiacere di quando è caduto ed è morto a Berna. Io per combinazione ero a Roma, ed ho un rimorso di coscienza. Sa, sono quelle cose che si dicono e magari poi non sono vere, ma forse se ci fossi stato io non sarebbe successo.
Allora avevamo realizzato una bicilindrica sperimentale, e l’avevamo mandata al Centro Studi dell’Esercito, a Roma. C’erano state delle discussioni perchè non ricordo più cosa volevano, ed allora Carlo Guzzi mi aveva detto di andare a Roma per seguire la situazione.
Là a Berna Tenni aveva provato a lungo la 250 bicilindrica ed era convinto sì e no, se adoperarla in corsa e prima che chiudessero gli allenamenti aveva detto al Moretto “Io voglio provare la mia 250 monocilidrica”. Le due moto erano diverse, nel senso che la 250 bicilindrica era molto più alta, di pedane e di tutto, mentre l’altra era più bassa. Insomma prese questa Albatros normale e ci ha fatto un giro, è arrivato dove comincia la salita, una curva a destra, ha inclinato molto, ha toccato giù ed è andato via. Ha picchiato col collo proprio contro un alberello grosso così (fa il gesto) ed è morto sul colpo. Non so… gli allenamenti stavano finendo e se lui avesse deciso di correre con l’Albatros non avrebbe avuto bisogno di provarla, perchè l’aveva straprovata chissà quante volte. Son cose che vanno così. Era un uomo buono”.
La salma fu trasportata da Berna a Mandello del Lario dove fu organizzata una veglia negli stabilimenti della Moto Guzzi. Il 4 luglio venne trasportato nella sua città a bordo di un camion della Moto Guzzi adibito a carro funebre, dove sfilò tra due ali di folla formate da migliaia di persone.

omobono9

Lungo la strada vennero sparsi fiori e un aereo dell’Aereo Club di Treviso continuò a lanciare fiori da Castelfranco a Treviso. Dopo il funerale svoltosi nella cattedrale, la folla che accompagnò Tenni al cimitero era composta dai più grandi campioni dell’epoca: Balzarotti, Sandri, Martelli, Bandini, Luigi Ruggeri, dai suoi meccanici e da tutti quelli che lo avevano ammirato.

Tenni oggi

Tenni è per tutti gli appassionati di motociclismo il simbolo di un coraggio oserei dire “pionieristico”, una forma di spregiudicatezza che assume un sapore tutto particolare di romanticismo e di eroismo. Pensare alla quantità interminabile di record sul giro che il grande campione ha mietuto ci fa rendere conto di come egli vivesse le corse, di come le sentisse terribilmente importanti anche dopo essersi affermato sui più importanti campi di gara. Ma francamente penso che Tenni fosse anche un pilota al limite dell’incoscienza. E’ difficile credere come si potesse andare a certe velocità per lungo tempo a bordo di moto dalla ciclistica improbabile e dai freni che lo erano più di nome che di fatto. Ma forse Tenni era nato per fare il pilota, un essere umano assetato di velocità al punto da non subire nessun freno psicologico dopo sessanta cadute spaventose quando alla maggior parte dei motociclisti odierni basta anche solo una caduta per guidare insicuri per il resto della vita.
Oggi Omobono Tenni rivive ufficialmente attraverso il nome di una strada che gli è stata intitolata a Tirano, attraverso lo stadio di calcio di Treviso che porta il suo nome, tramite le moto da lui guidate esposte al museo Guzzi e tramite la statua che è esposta sempre al museo Guzzi che solo dopo la recente ristrutturazione del museo ha trovato una degna collocazione nell’ufficio che era stato di Carlo Guzzi.

omobono10

Inoltre esiste la pubblicazione di P. M. Bianchin intitolata “Tenni” che però non è più reperibile se non attraverso le fotocopie di qualche buon samaritano che ne è in possesso.
Tutti conoscono il nome di Nuvolari ma non quello di Omobono Tenni. Per rendergli giustizia Tenni dovrebbe essere altrettanto famoso sulle moto di quanto Nuvolari lo è oggi sulle auto. Ma il problema non è rendere famoso un campione: Tenni fu probabilmente il pilota di moto più famoso del mondo negli anni ‘30.

Il problema è fare in modo che la sua fama rimanga intatta negli anni con ricorrenze, pubblicazioni, eventi che ne ricordino la memoria. E questo compito penso che spetti di dovere alla Casa a cui Tenni più di tutte ha dato: la Moto Guzzi.
Ma anche in questo caso come al solito ci sono gli appassionati che ci pensano. Non mancano infatti Moto Club intitolati al grande campione ed ai raduni ufficiali Guzzi si scorgono spesso delle magliette con il nome del Mitico. Penso che non sia fuori luogo ringraziare coloro che tengono vivo il nome di Omobono in un tempo in cui questo nome è praticamente sconosciuto al di fuori di quel “manipolo di inguaribili romantici”!

DR. JOHN WITTNER

0
Dr. John Witter
di Fabrizio Angelelli

La sua carriera

A chi non conosce la sua storia, parlare della carriera del Dr John provocherà non poche perplessità.
Infatti non stiamo parlando di uno che ha dedicato la sua vita ai motori o che già a dodici anni faceva il garzone nella bottega di qualche affermato meccanico. Niente di tutto questo. Stiamo parlando di un dentista americano.
Già, avete capito bene: un dentista americano.
La vita, si sa, riserva a volte delle sorprese e così può succedre che un dentista americano diventi un personaggio molto importante nella storia di una casa motociclistica come la Moto Guzzi.

Il Dr. John Wittner
Ma vediamo come si sono svolti i fatti.

Il Dr. John Wittner praticava la sua professione a Philadelphia ma il suo tempo libero lo dedicava a elaborare motori soprattutto Harley Davidson. Tra le tante occasioni che passavano tra le sue mani, un giorno si trovò davanti ad una Guzzi e, preso dal fascino di questa moto, l’acquistò.
Da quel giorno la sua attenzione fu tutta rivolta al bicilindrio italiano che ha conquistato il dottore con la sua semplicità ed efficacia meccanica.

Con la moto da lui stesso elaborata ed assembata, il Dr. John partecipa nell’84 al campionato americano Endurance. Cominciano ad arrivare le prime vittorie e incredibilmente arriva anche la vittoria dell’intero campionato.

Il Dr. John con il fedele Doug Brauneck
Il Dr. John con il fedele Doug Brauneck

Il Dr. John sente una spinta irrefrenabile per il mondo delle corse soprattutto ora che sono arrivati anche dei risultati significativi.

E fu così che il nostro eroe compie la pazzia che lo ha reso famoso in tutto il mondo: vende il suo studio dentistico per dedicarsi esclusivamente alle Guzzi!!!
Cosa dire davanti a questo gesto? Molti giurerebbero trattarsi del gesto compiuto da un insano di mente… ma vediamo come prosegue la storia.

L’anno seguente (1985) la Guzzi del Dr. John sbaraglia la concorrenza nello stesso campionato vincendo tredici gare ed aggiudicandosi un altro titolo.
Da questo momento però inizia una fase di decadenza poichè la moto necessiterebbe di nuovi sviluppi visto che le squadre avversarie, battute per due anni consecutivi, non sono state certo a guardare.
Arriva il momento in cui Wittner si trova in seria difficoltà economica e decide di chiedere aiuto direttamente alla Moto Guzzi.
Viene in Italia e si rivolge ad Aleandro De Tomaso portando con se il palmares delle vittorie ed i suoi progetti per la moto che vorrebbe realizzare.
De Tomaso, allora titolare della casa Mandelliana, decide di porre la sua fiducia nei progetti di John Wittner (stranamente vista l’estrema cautela dell’argentino verso gli investimenti per i progetti innovativi).
Ricomincia un periodo di prosperità per la Guzzi del Dr. John che conquista anche il campionato americano Pro Twins più conosciuto come BoTT (Battle of The Twins).
Intanto in Guzzi si lavora per fondere in una unica moto il motore a quattro valvole progettato dall’Ing. Todero con la ciclistica pensata dal Dr. John.
Messo a punto il motore otto valvole, il Dr. John partecipa alla famosa gara di Daytona che in america rappresenta il banco prova di ogni scuderia. La nuova moto mette a segno un meraviglioso terzo posto.
E così le viene dato il nome di battesimo “Guzzi Daytona 1000R USA”.
Passando alla produzione di serie, il nome diventa “1000 Daytona”.

Guzzi Daytona 1000R USA
Guzzi Daytona 1000R USA

Oggi il Dr. John Wittner vive in America, c’è chi dice che sia ripartito dall’Italia molto deluso per il comportamento della dirigenza Guzzi, c’è invece chi dice che si è semplicemente esaurita quella carica di passione che lo ha mosso in quegli anni di grandi avvenimenti. Che sia vera una voce o l’altra tutti gli appassionati di Moto Guzzi in tutto il mondo gli devono qualcosa, quindi auguriamo al mitico Dr. John tutto il bene possibile per un radioso futuro.

IL GRANDE LINO TONTI

0
LINO TONTI
di Fabrizio Angelelli

La sua carriera

Figura eccezionalmente poliedrica, Lino Tonti nella sua carriera ha inventato e progettato di tutto. Nato nel 1920 a Cattolica, in provincia di Forlì, era ad una distanza ridotta da quella che all’epoca era una delle maggiori case motociclistiche nazionali: la Benelli di Pesaro.

La sua carriera infatti inizia proprio in Benelli, nel 1937, al fianco di Giuseppe Benelli. Prima che questo sogno ad occhi aperti si interrompesse a causa del secondo conflitto mondiale, Tonti aveva fatto in tempo ad occuparsi di cose veramente interessanti per la sua formazione, come i motori da competizione ed in particolare il Benelli 250 quattro cilindri sovralimentato.

In piena guerra Tonti si occupò in proprio di progettazione e preparazione di mezzi da competizione.
Si trasferì poi a Varese, dove la Macchi aveva acquistato un suo progetto di scooter a ruote alte con motore mono da 125 cc.

L’abilità ed il talento di Lino non sfuggirono al conte Giuseppe Boselli che nel 1957 lo incaricò di progettare una Mondial 250 da Gran Premio. Purtroppo la Mondial proprio quell’anno decise, insieme a Guzzi e Gilera, di ritirarsi dalle corse. La moto realizzata è servita però da base per tutte le Paton bicilindriche (Paton sta appunto per PAttoni e TONti e ha partecipato fino al 2001 al motomondiale nella classe GP 500).

Nel 1958 avviene il suo passaggio alla Bianchi, altra casa di grande rilievo. La sua attività di progettista in Bianchi portò alla realizzazione di diversi modelli di serie sia civili che militari fino alla realizzazione di una eccezionale bicilindrica da competizione: la 250 bialbero portata poi a 350 e infine a 454 cc.
Uscita di scena la Bianchi, Tonti entrò in Gilera nel 1964 e vi rimase fino al 1966 ed anche qui si occupò di progetti estremamente innovativi ed originali per l’epoca.

Tonti e la Moto Guzzi

Lino Tonti entrò in Guzzi nel 1967 e si mise subito al lavoro per affinare una macchina già di per se molto valida come la V7, con la quale la casa aveva in mente di tentare la conquista di alcuni record mondiali in modo da avere un forte ritorno d’immagine.

Nell’ottobre del 1969 a Monza, durante la caccia ai record con i prototipi della V7 Special, improvvisamente l’allora direttore generale della Moto Guzzi, Romolo De Stefani, decide che la Guzzi deve costruire un’autentica moto sportiva ed indica a Tonti tre parametri fondamentali da seguire: 200 kg, 200 km/h, 5 marce.

Tonti si mette subito all’opera ma le agitazioni sindacali che nel ’69 si accendono nella società creano enormi problemi per il nuovo lavoro. Tonti allora trova rimedio alla situazione prelevando un motore V7 vuoto, alcuni metri di tubi da telai e si reca nella sua cantina privata dove chiama a supporto il suo collaboratore di tante realizzazioni Alcide Biotti. Inizia così la realizzazione del telaio che diventerà poi un caposaldo della produzione Guzzi per tanti anni a venire. Praticamente fino ad oggi!

Il telaio realizzato artigianalmente da Tonti in casa, equipaggiato di un motore V7 in versione record, a Monza gira immediatamente di ben sei secondi più veloce della V7 Special da record usata nel ’69.
Tale risultato implicò la verniciatura in rosso del telaio sui primi 150 esemplari della V7Sport in modo da dare risalto a tale componente così ben riuscito.

La Moto Guzzi V7 Sport
La Moto Guzzi V7 Sport

Nacque così la mitica V7 Sport Telaio Rosso, ambitissima da tutti i collezionisti del mondo.

Ma Tonti non si ferma a questo e realizza un numero incredibile di progetti per la Moto Guzzi la maggior parte dei quali rimarranno solo sulla carta o al massimo alla prima fase di prototipo.

Prototipo di un quattro cilindri
Prototipo di un quattro cilindri

 

Suo è anche il progetto delle bicilindriche della “serie piccola” V35-V50, pensate per essere realizzate con maggior semplicità ed economicità di produzione rispetto alle sorelle maggiori V7.

Non mancano però anche in questo motore così apparentemente semplice, una serie di particolari molto originali, come ad esempio la presenza di valvole parallele. Infatti la camera di scoppio, di tipo Heron, è ricavata completamente nel cielo del pistone. Il propulsore adottata una pompa dell’olio a lobi anziché la classica ad ingranaggi (prima applicazione di questo tipo di pompa su una moto italiana). Il basamento è diviso in due pezzi con piano di unione orizzontale che taglia a metà i supporti di banco. Passando alla ciclistica, assolutamente originale è il forcellone in lega d’alluminio che per la prima volta al mondo fu impiegato per la produzione di moto in grande serie.

Insomma Lino Tonti vanta un “campionario” di realizzazioni veramente vasto e può ben dire di aver spaziato con disinvoltura da motori utilitari di piccola cilindrata a moto da competizione di sua completa invenzione (ricordiamo le LINTO, nate dall’accoppiamento di due motori Aermacchi 250, nel 1968).

Grazie di tutto grande Lino.

Naco

0

di Vanni Bettega

PREMESSA

Poiché i fatti che vado a narrare sono accaduti negli anni 20, io non ero ancor nato, mi avvalgo di racconti che ho raccolto in particolare da Piero Pomi che conobbe Naco e da Forni, che mi lascia spulciare i documenti conservati presso il Moto Club Carlo Guzzi di Mandello dove è pure conservata la moto del Naco.

“ Per quasi 2 ore vado errando pei monti senza meta fissa,senza guida, solo preoccupato di imprimere nella mente nuovi paesaggi, nuovi panorami, nuovi spettacoli di natura.”
Ing. Giuseppe Guzzi
Il fratello di Carlo Guzzi si chiamava Giuseppe.
Come s’usava dalle nostre parti, gli venne affibbiato già in famiglia un soprannome, Naco appunto.
Anche Carlo aveva il suo bravo soprannome ma veniva usato solo in famiglia: veniva chiamato Taj.
Naco era uno strano tipo, molto diverso da Carlo sia nella corporatura che nel carattere.
Mentre Carlo era un vispo donnaiolo, Naco era tranquillissimo, quasi ascetico. Naco l’anima della Guzzi turistica, Carlo l’anima della Guzzi sportiva.
Si narra che volendo dare in permuta la vecchia motocicletta adducendo a Carlo che era stata usata pochissimo, Carlo così rispondesse:
“Anca el Naco l’ha mai dopràa, però l’è diventaa vecc e ‘l voeur piu nisùn! “ (anche il Naco non l’ha mai adoperato ma adesso è vecchio e non lo vuole più nessuno!).
Naco era grande e grosso, aveva dita con cui non riusciva a comporre i numeri al telefono e faticava pure a trattenere la matita.
Soffriva tantissimo il caldo, tant’è che nel suo ufficio costruì un impianto di raffreddamento, facendo correre a serpentina lungo le pareti i tubi in cui scorreva l’acqua potabile.
D’estate per contattarlo bisognava attendere che si rimettesse la camicia, poiché disegnava a torso nudo.
Era ingegnere civile, aveva progettato parte dei capannoni aziendali oltre alla centrale idroelettrica dello Zerbo, per fornire energia all’azienda.
D’estate aspettava con ansia le ferie per poter effettuare i suoi giri in moto.
Aveva una Sport 500 (oggi si dice Sport 13 perché è nata prima della Sport 14 , ma Naco non lo sapeva e la chiamava solo Sport 500) molto personalizzata con cui si cimentò nei seguenti raids:

1923 Mandello-Parigi 2000 km
1924 Mandello-Tolosa-Pirenei 2500 km
1925
1926 Mandello-Vienna–Budapest-Carpazi 3000 km
1927 Mandello-Slesia 3000 km
1928 Mandello-Stoccolma-Lapponia-Oslo-Berlino 6200 km
1929 Mandello-Amburgo 2200
Tutte queste date sono incise su una targa applicata al parafango anteriore della moto.

Nel 1926 mentre si trovava sui Carpazi ruppe il telaio rigido della Sport.
Da bravo ingegnere, Naco si aiutò con delle vecchie coperture e camere d’aria a collegare il triangolo posteriore alla zona della sella e allo zoccolo del motore.
Fu così che se ne tornò a Mandello col triangolo posteriore della moto che sballonzolava come se sulla sua moto rigida avesse montato un retrotreno elastico (Più elastico di così!…).
Quando infine arrivò in fabbrica confidò a Carlo:
“te set che la va mej inscì?” (Sai che va meglio così?).
Gli frullò quindi nella testa di fare una moto elastica partendo dall’idea di far muovere tutto il retrotreno, non come facevano gli altri con le ruote guidate, che se prendevano un po’ di gioco non si stava più in strada! Si mise al tecnigrafo, disegnò il forcellone oscillante e un pacco molle posizionate sotto il motore. Si trattava di una trentina di molle le più dure delle quali entravano in azione man mano che le più deboli andavano a pacco. Nacque così la GT 500.
La moto di Naco era però la stessa del 1926. Aveva applicato alla moto le modifiche della GT e con questo allestimento andò dapprima a Slesia nel 27, poi si buttò nell’impresa della Lapponia nel 1928. Sull’onda delle emozioni procurate da Umberto Nobile e Amundsen nel 1926 che col dirigibile Norge, partiti da Roma, sorvolarono con successo il Polo Nord, la fantasia popolare ribattezzò quel modello col nome di NORGE. Ovviamente lo si pronuncia all’italiana, esattamente come lo si scrive!
Per la verità, la moto del Naco era molto personalizzata, sotto il faro, in posizione trasversale, c’è montato un tubo col tappo per contenere le carte geografiche e le mappe, un po’ come si conservano i disegni tecnici; sul lato destro c’è una fondina, fissata per contenere la sua pistola, c’è un pesantissimo cavalletto laterale e ganci di fissagio un po’ dovunque. Il cavalletto centrale si può azionare da entrambi i lati della moto.

Si narra che una volta uscito dal cancello della fabbrica, con gli operai sulla soglia a salutarlo, il Naco forò una gomma nel sottopasso della ferrovia che immette sulla statale.
Gli operai accorsero offrendosi di riparare lo pneumatico ma lui li fermò. ”Sono già partito” affermò “durante il viaggio tocca a me sbrigarmela! Andate al lavoro che qui ci penso io!” e così fece!
Non ebbe la Norge grande successo commerciale, si diffidava delle sospensioni posteriori ritenendole antisportive, comunque ne vennero vendute 75 esemplari del modello civile e 245 esemplari del militare, per un totale di 320 veicoli.
Nel 1931 come voleva la moda dettata dagli inglesi, si adottò il cosiddetto serbatoio a sella, non più sottocanna.
La GT 500 civile si chiamò GT16 e la versione militare GT 17.
Nel 1935 la Moto Guzzi decise di partecipare al TT, viste le esperienze positive fatte col modello molleggiato, si partecipò in entrambe le categorie con moto molleggiate.
Stanley Woods in sella alle Guzzi vinse entrambe le gare.
Questa vittoria fu di risonanza mondiale, mai nessuna motocicletta straniera aveva vinto il TT prima d’allora!
Va da sé che queste vittorie sfatarono la credenza che il molleggio fosse antisportivo, la Guzzi propose tutti i modelli in versione molleggiata e così da quell’anno fecero pure tutte le aziende al mondo.
Negli anni ’50 Naco si decise ad aggiornare la sua moto. Alloggiò il motore che era sempre lo stesso dal 1926, quello della Sport 500, in un telaio della GT16 modificato. Voleva vedere fin quando sarebbe durato quel motore. Non lo saprà mai.
Era nato il 6 agosto 1882 e morì il 14 giugno 1962.
Giuseppe Guzzi ha scritto anche un libricino stampato nel 1942, dal titolo ” LA MOTOCICLETTA E IL MOTOCICLISTA”, dove spiega il funzionamento dei vari organi componenti la motocicletta ed alcuni consigli sul come portarla.

La sua moto fu donata dalla vedova di Ulisse Guzzi (figlio di Carlo) al Moto Club Carlo Guzzi di Mandello, dove è tuttora conservata.
E’ bella l’idea di chiamare Norge il nuovo modello, però si potrebbe chiamare anche Naco un modello turistico e Taj un modello sportivo!
La moto del Naco è stata utilizzata nel 1991 per rievocare il viaggio in Lapponia.
In quella occasione è stata messa a punto da Giovan Battista Zucchi che ha affrontato lo stesso viaggio del 1928 senza alcun problema.
Il motore va ancora e credo che neppure io saprò mai fin quando dura!

PS: Questa lettera è la traduzione di un articolo apparso su un giornale di Oslo.
Naco scrisse un report del suo viaggio che venne pubblicato suddiviso in 3 spezzoni su 3 numeri di Motociclismo, nel luglio 1929.

Nel 1991 il moto club Carlo Guzzi stampò una cartolina ricordo con la piantina del viaggio.

Piero Pomi

0
Colnago e Piero Pomi a Monza nel 1957
di Vanni Bettega

La moto ferma sul cavalletto scandisce il suo minimo.
Il minimo è come un prestigiatore che ti mostra il gioco lentamente, per spiegartelo bene: “Ecco, adesso fffft aspiro, poi tappo le orecchie,spingo forte e pum!! Dai che riproviamo!!” Ecco, adesso fffft…”
Questo discorso lo sento fare migliaia di volte, mentre guardo il volano della Sport 15 del Cechin tulèe, il lattoniere.
La moto la lascerà accesa tutto il giorno, per sfottere il Giorgio macellaio che ha la bottega qui di fronte, perché lui ha la Gilera 4 bulloni che il minimo non lo tiene per niente.
Questi sono i primi ricordi che ho della Guzzi.
Io abito sul lago, mi piace pescare e sto appunto pescando presso casa mia, in corrispondenza della curva di Morcate, la curva più brutta di tutta la litoranea.
Sulla Statale non passa nessuno. A un tratto sento un rombo di moto, tante moto.
Allora mollo la canna e su a vedere: sono i collaudatori della Moto Guzzi, con una decina di Trialce, i motocarrozzini. Nell’affrontare la curva, un collaudatore esce di strada e cade in acqua. È in difficoltà. Tolgo la giacca e mi butto. Gli dò una mano a trascinarsi a riva.
Io non dico niente in famiglia anche perché ci può scappare qualche scapaccione, ma dopo qualche giorno si presenta in casa un signore: sta cercando quel ragazzo che si è buttato in acqua. Mio padre mi chiama e devo ammettere che sono stato io.

Allenamenti: Montanari in piedi con la tuta nera,  Colnago con la moto e Piero Pomi in tuta blu
Allenamenti: Montanari in piedi con la tuta nera, Colnago con la moto e Piero Pomi in tuta blu
Piero Pomi col mono, Ippolito Pomi con l'8 cilindri; Diki Dale secondo a destra in maniche di camicia  e Keith Brian primo a destra con tuta
Piero Pomi col mono, Ippolito Pomi con l’8 cilindri;
Diki Dale secondo a destra in maniche di camicia
e Keith Brian primo a destra con tuta

Quel signore, (saprò dopo che si tratta di Battista Gatti, detto Gurlet, Capo collaudo della Guzzi) vorrebbe in qualche modo sdebitarsi. Mio padre allora sbotta: ” se proprio vuol fare qualcosa, gli trovi un posto in Guzzi, a ‘sto lazzarone!”

Siamo nel 1941, il primo di marzo, ho 14 anni e finalmente io, Piero Pomi, sono assunto qui alla Guzzi. Il sig. Mondo mi accompagna al Reparto assistenza clienti, subito a destra appena entrati dal cancello principale. Clienti, per la verità ce ne son pochini, il reparto è occupato dai tedeschi che portano qui le loro BMW, Zundapp e DKW, ma anche Bianchi e Benelli, da revisionare o riparare.
Il Maresciallo Urbasky, la sera, ci controlla il fiato per capire dall’odore se abbiamo “cannettato” la benzina. Noi però abbiamo aggirato l’ostacolo: appoggiamo uno straccio sul foro del serbatoio, infiliamo il tubo e poi appoggiamo sul tutto un tappo dell’olio. Facendo il più possibile tenuta con lo straccio, soffiamo nel serbatoio: dal tubo in uscita sgorga il prezioso liquido e il maresciallo, la sera, sarà molto contento perché siamo stati bravi.
Sebbene il lavoro sia molto vario e s’impara molto nel metter mani a tutte queste moto, i tempi morti sono tanti e, quando capitano, a me piace andar giù da Bacchi, in Sala Prova.
Bacchi, già amico di Carlo Guzzi da prima dell’Avventura, ha al suo attivo diversi brevetti inerenti il motore a scoppio: in campo motoristico le sa proprio tutte.
Ha costruito moto per conto suo, nel ’24. Quello oggi comunemente denominato “sistema Puch ” o “DKW competizione”, in realtà è stato inventato e messo in produzione già da lui.
È una persona molto simpatica e me lo vedo lì, col suo grembiule nero tenuto stretto tra le ginocchia per non farselo ” mangiare ” dal mulinello, che mi mostra trionfante che con la fase che dice lui i cavalli son saliti!

Carlo Bacchi quando lavorava in Frera
Carlo Bacchi quando lavorava in Frera
Colnago e Piero Pomi a Monza nel 1957
Colnago e Piero Pomi a Monza nel 1957

A me insegna un sacco di cose; come si calcola il rapporto di compressione, come si regola l’anticipo, perché si disassa il motore e perché lui lima i pistoni nella zona dello spinotto.
Lui dice di fare attenzione anche alla lunghezza delle astine, che devono lavorare col bilanciere in modo di avere il massimo braccio al momento opportuno. Astine troppo lunghe o troppo corte rallentano la velocità di apertura e chiusura delle valvole. Io, appassionato come lo si può essere a 15 anni, tutti questi insegnamenti li divoro.
Era un grande, Bacchi.
Finisce la guerra.
Come dopo l’inverno viene la primavera, dopo la guerra scoppia la pace. Già nel mese di maggio, sparite le moto tedesche, si pensa alle corse. Già, le corse. Sembrava che tutti le avessero dimenticate, invece non si vedeva l’ora e, finalmente, si comincia.
Il reparto si popola di moto da corsa. Sono Albatros, 250SS a 3 marce, Condor: sono bellissime.
Bisogna smontarle, ripulirle, aggiornarle e rimontarle. Io non sono ancora autorizzato a ” chiudere ” i motori, devo solo fare piccoli lavori e pulire bene i pezzi.
Quando Gem l’operaio anziano si assenta, dò un’occhiata in giro e furtivamente mi appresto a montare completamente il motore. Poi altrettanto furtivamente e velocemente lo smonto. Metto in ordine sul banco i pezzi ripuliti, prima che l’anziano ritorni. Gem trova i suoi pezzi ben ripuliti e non s’accorge mai di nulla. Faccio questo giochino un sacco di volte ed è così che acquisisco velocità e pratica su questi motori.
Viene il giorno che a Lecco si organizza una corsa su circuito cittadino. Stiamo assistendo alle prove dei Clubman, terza categoria. Io sono lì con degli amici, come spettatore. C’è un capannello di gente, andiamo a vedere, è un concorrente che ha grippato il suo Airone: si tratta, lo saprò poi, del dott. Zoboli, che si diletta a partecipare alle corse. Subito gli amici a indicarmi: “Lui, lui è meccanico in Guzzi!” Allora non mi posso più tirare indietro. Mi metto all’opera. Il pistone è grippato proprio in prossimità del foro dello spinotto. Memore degli insegnamenti di Bacchi, mi faccio dare una lima e aggiusto il pistone. Rimonto pistone, cilindro e testa, una registratina alle valvole e ooplà, la moto è pronta per la gara.

Al lavoro sulla 8 cilindri il fotografo/corridore è Baviera
Al lavoro sulla 8 cilindri
il fotografo/corridore è Baviera
Imola, 2 aprile 1955
Imola, 2 aprile 1955
Da destra: Bianchi (autista),  Ippolito e Piero Pomi,  la locandiera e Cantoni ad Assen
Da destra: Bianchi (autista),
Ippolito e Piero Pomi,
la locandiera e Cantoni ad Assen

Il concorrente arriverà secondo e io sarò oggetto di ammirazione, da ora un po’ più considerato…

Vengo contattato via via da diversi corridori privati per assisterli sui campi di gara. Attrezzo lo stallino in disuso (la mia casa era il luogo di posta per il cambio dei cavalli) con un banchetto per la moto, piazzo un vecchio tavolo e mi organizzo per poter lavorare sulle moto. Il Mondo, quando chiedo il permesso per il week-end, me lo accorda senza tanto discutere. Io non perdo occasione: seguirò Claudio Mastellari, Nino Martelli, Duilio Agostini, anche Dario Ambrosini non ancora accasato, poi Perosino di Asti e un tedesco di nome Torn Prikker. Sono a Berna con Torn Prikker nel giugno 1948 quando succede la disgrazia a Tenni. A parte la tristezza per la morte del grande campione, io passo il periodo più bello della mia carriera. Questi corridori hanno tutti l’automobile, io patentato faccio comodo e ho l’occasione di girare l’Europa, seguendo questi ragazzi.
Mi è capitato di seguire anche un certo Camillo Olivetti, di Ivrea. Non era un gran pilota e aveva un solo gran tifoso. Era un certo Bialetti, che un giorno ti arriva dicendo di aver messo a punto una caffettiera rivoluzionaria. Altro che la Napoletana! Mi regalerà una decina di Moka. Per la verità il Camillo non andava proprio e io mi vergognavo. I miei amici mi sfottevano! Con dei pretesti sono riuscito poi a mollarlo.

Poli sulla 8 cilindri sul set  del film "I fidanzati della morte"
Poli sulla 8 cilindri sul set
del film “I fidanzati della morte”
Giulio Cesare Carcano
Giulio Cesare Carcano

Chi non era troppo contento era mio padre. In busta paga mancavano spesso otto o dieci giornate lavorative e lui si domandava se veramente l’avesse indovinata a farmi assumere lì!
Bazzicavo nel frattempo il Reparto Corse, sia pure in maniera non ufficiale. Nel reparto di Carcano c’erano un paio di meccanici veramente completi, Pomi Ippolito e Agostini, oltre al Bettega di Dorio. Gli altri erano specialisti di vari settori della moto. Così Fattore era specialista di freni e ruote, il Berto, che per via del claudicare era soprannominato “la camme “, era specialista dei carburatori e si portava appresso un grosso tubo forato e filettato con avvitati in buon ordine tutti i getti, i ‘gigleur’ li chiamava.
Nelle trasferte si portavano tutti questi specialisti, addirittura si portava il tecnico dei tubi di scarico, il Bara, quello che riempiva di sabbia i tubi prima di piegarli. A me non piaceva tanto dover sottostare a ogni singolo specialista, tendevo a far la moto tutta da me. Una volta l’avevo detto anche all’Ing. Carcano. Comunque non legavo molto con gli anziani anche per la differenza di età. Poi, un giorno, siamo a fine maggio del ’51, entrano in reparto il sig. Mondo con il Dottor Giorgio Parodi. “È lui!” dice il Mondo indicando me. “Che cavolo avrò combinato”, penso io girandomi verso di loro, allorchè prende la parola il dottor Parodi: “Ti va di andare al TT?” “Anche gratis!!” rispondo io.
Mancano pochi giorni alla partenza, bisogna fare i documenti per la trasferta.
Il Pistono mi accompagna col carrozzino al tribunale di Lecco. Non mi vogliono rilasciare il passaporto perché ho una pendenza per pesca abusiva. Mestamente il Pistono mi riporta a casa col motocarrozzino e senza passaporto. A casa, mi chiama a rapporto il dott. Bonelli. Severo, mi dice: “Cos’hai combinato coi pesci?” Io gli espongo i fatti e lui esplode in una risata. “Vai a firmare, è tutto a posto!”

T. Provini, Carcano, Lomas e Ippolito Pomi
T. Provini, Carcano, Lomas e Ippolito Pomi
Tourist Trophy, 5 giugno 1957
Tourist Trophy, 5 giugno 1957
Ermanno Ozino, concessionario di Ivrea
Ermanno Ozino, concessionario di Ivrea
Dickie Dale al TT '55 classe 350 al Ballough Bridge
Dickie Dale al TT ’55 classe 350 al Ballough Bridge
Imola, 22 aprile 1957
Imola, 22 aprile 1957
Reims 1955, Duilio Agostini primo nella 350
Reims 1955, Duilio Agostini primo nella 350

Sono l’unico del reparto in possesso di patente auto. Allora non s’usava ancora. Si parte. Io sono in macchina col sig. Gino, il suocero di Lorenzetti. L’auto è la 1100 furgonata del genero.

Sul furgone ci sono le 2 moto di Lorenzetti, pilota semiufficiale. Sono un Albatros 250 e uno maggiorato a 317 cc. Noi forniamo i materiali e il sior Gino assembla a casa di Lorenzetti.
Si va a Berna, il 27 si corre il Gran Premio di Svizzera. Nelle 500 Anderson parte male, alla prima curva, però, stupisce tutti e si porta in testa. All’arrivo lo sento raccontare che su quella curva ha imbroccato un folle. Ha affrontato la curva a velocità elevatissima ed è riuscito a rimanere fortunosamente in piedi. Gli altri, vedendolo andare così forte, han quasi rinunciato all’inseguimento e lui è arrivato primo.
Finita la festa si riparte, finalmente, alla volta del TT.
Arriviamo a Dunquerque. Nel porto un camion, facendo manovra, rompe il parabrezza della macchina. Piove,maledizione. È difficile guidare e in città non troviamo ricambi. Poi verso sera, scorgo delle gru allineate sulla banchina. ” Gino, guarda che belle gru!” “Che?!?!?'” mi fa lui che non ha afferrato. “I vetri, i vetri sono come il nostro!!!” È così che a notte fonda, furtivi, togliamo un vetro alla gru. Mancano due centimetri per parte,comunque lo fissiamo col nastro adesivo in modo che funzioni anche il tergicristallo. La parte migliore al lato guida.

Dedica di Duilio Agostini alla partenza della Milano-Taranto con la moto preparata da Pomi a casa sua (1° al traguardo)
Dedica di Duilio Agostini alla partenza della Milano-Taranto con la moto preparata da Pomi a casa sua (1° al traguardo)
Imola, 2 aprile 1955 si scalda il motore (Agostini, Pomi e Todero)
Imola, 2 aprile 1955 si scalda il motore (Agostini, Pomi e Todero)

Sbarchiamo a Dover e ci reimbarchiamo a Liverpool per poi sbarcare sull’Isola. Qui ci aspetta Lorenzetti: “Cos’è successo alla mia macchina?!” “È stato lui” è la risposta simultanea che gli diamo, indicandoci l’un l’altro io e il Gino. Il pilota si scioglie in una risata. Raccontiamo gli antefatti, il parabrezza non lo troveremo né sull’isola né in Inghilterra. Torneremo a casa rabberciati e ripareremo la macchina a Milano. “Toh, Piero, questo è per te” mi dice il Bettega porgendomi un motore dell’Albatros; “dai una mano a quel ragazzo lì, si chiama Tommy ed è un privato. È tutto tuo.”

Non mi pare vero. Ci sono in giro i furgoni delle Case fornitrici, io ho fatto amicizia con i rappresentanti più giovani: al box della Champion per scroccare candele nuove, a quello della Avon per le gomme, a quello della Ferodo per le guarnizioni freni, e via via man mano che mi servivano componenti e che comunque tutti questi fornitori ufficiali eran ben contenti di fornire.
Giù la forcella Brampton e su una del Gambalunga. Alla fine la moto vien pronta sul campo.
Sul Libro d’oro della Guzzi oggi c’è scritto che il TT classe 250 cc , svoltosi il 6 di giugno del 1951 all’isola di Man fu vinto da Tommy Wood.
La Gazzetta dello Sport, il 7 giugno, titolava pressapoco così:
VINCE (PURTROPPO) LA GUZZI (Wood non era italiano).

Monza, 9 settembre 1956, Piero Pomi è il primo da sinistra
Monza, 9 settembre 1956, Piero Pomi è il primo da sinistra
Umberto Todero al cronometro
Umberto Todero al cronometro

 

Duecento chilometri

0
Duecento chilometri

di Marco Melillo

Duecento chilometri.
L’idea era quella di viaggiare, partire in macchina per un secondo tour in mezzo alle colline senesi, e dare il via ad una nuova avventura sulla via del ritorno. L’idea. Di fatto qualcosa si è modificato in corso d’opera, di quell’idea. E quel che ne è rimasto, ora, è quanto segue.
Un acquisto sconsiderato in periodo di crisi, un amore ai tempi del colera. un Guzzi Nevada 750 del 1991, con quarantanovemila chilometri sul groppone. e millecinquecento euri in meno sul conto.

L’idea del viaggio, dicevo, cambia non appena si monta in sella. E si monta in sella con una mezza sfida di tornare a casa da Arezzo, i duecento chilometri di cui sopra, dopo una sola prova su un Guzzino 350 al piazzale dei macelli, a Piombino, qualche giorno prima. Si parte, per fortuna, anche col supporto logistico e spirituale del Carlone, addetto al riportaggio della macchina a casa, alle indicazioni di viaggio, alle dritte in fase di guida, e a sopportare le mie inevitabili, numerose soste, previste e non. La lezione essenziale del primo giro si era limitata a come-si-cambia come-si-frena come-si-curva, e fondamentalmente sembra essere tutto.
In verità il primo approccio, a Arezzo, è con un cilindro che non vuole andare, un’accensione che sembra dare problemi, un tentativo (fallito) di partire a spinta. Poi, tra moccoli e magie, sempre col supporto impagabile di Carlo, è andata. Non mi chiedete come o perché, a un certo punto mi sono quasi convinto che ci avesse parlato, con la moto! Fatto sta che è andata.
Si parte, ovviamente, col cielo grigio topo che minaccia acqua: d’altra parte ho scelto io di andarmela a prendere a novembre. E si viaggia non sapendo la strada, fortunatamente guidati fino a fuori città dal vecchio proprietario che ci accompagna fuori dal delirio aretino per percorsi meno battuti.
Comunque, arrivati alla prima strada umana riconoscibile e ottenute le indicazioni, un saluto, una sosta per abbuffarsi e si riparte. Si scolletta a Civitella Val di Chiana, e solo dopo, guardando la cartina, mi rendo conto di che diavolo di strada abbiamo preso. Almeno ho rispettato le prescrizioni del foglio rosa, di certo non era troppo trafficata. Le sensazioni del primo momento sono strane, comunque. Mi sento teso ma divertito, insicuro ad ogni curva, e di fatto l’idea del viaggio passato a rimirare il paesaggio, a godersi gli odori della campagna in inverno, svanisce non appena scollettato. Devo stare attento alla strada, devo pensare alla guida, e l’unica distrazione che mi concedo è quella di ascoltare il motore ad ogni cambiata, per provare a impararlo.

Il resto sono curve a velocità da bradipo, una strada infilata per sbaglio che mi avrebbe portato chissà dove, poi l’immissione in quattro corsie. Lì, l’unica eccezione alla mancanza di occhio per tutto quello che non è la guida: arrivati quasi a Grosseto, complice la stanchezza che a distanza di tre giorni avrebbe continuato a pesare sulle braccia, si fa largo il bisogno di una nuova sosta, a riprendere fiato. E mi maledico per non avere con me la macchina fotografica, in mezzo alle colline, mentre il sole si va a spengere in un mare che sta là dietro, che c’è, anche se si riesce solo a intuirlo.
Pochi minuti, prima di rendersi conto che se sta tramontando è meglio muoversi. E’ meglio evitare di trovarsi su una strada che non conosco, su un mezzo che di fatto non so ancora guidare, di notte. Ovviamente le considerazioni arrivano tardi. Pochi chilometri prima di Grosseto è già buio pesto, e alla tensione che sale va anche a aggiungersi un anabbagliante bruciato mentre ormai siamo in vista di Follonica. Il panico vince sull’idea iniziale di rimanere solo visibile con le luci di posizione, e ci metto un attimo a sparare gli abbaglianti in faccia a tutti quelli che incrocio. Mi avranno odiato, probabilmente. Ma almeno ce l’ho fatta ad arrivare incolume alla Venturina, cambiare il faro da Paparo e ripartire verso casa senza aver tirato a dritto neanche in una curva, scampando alla pioggia, dopo aver salutato e ringraziato Carlo, ovviamente mai abbastanza.

Duecentonove chilometri. Niente rispetto ai resoconti di viaggi infiniti verso il nordeuropa, ai racconti di curve improponibili e paesaggi da lacrime. Ma sono i miei primi in sella alla moto: un banalissimo viaggio di ritorno da Arezzo a Piombino in mezzo ad un paesaggio alla fine abbastanza familiare, durante la stagione più brutta in cui lo si può vedere. Ma è il mio piccolo primo viaggio, e mi andava di condividerlo. Provare a raccontarlo per quello che è stato, e pensare di scrivere di quel che sarà.

Duecento chilometri Duecento chilometri 2

 

 

 

 

Parole in CO2

0
PAROLE IN CO2

di Paolo Gambarelli (Mototopo)

Immobile
goccia dopo goccia
la mia Guzzi
instabile da tempo
in attesa dell’eterno congiungimento
di oleose stalattiti e stalagmiti.

Si dice che l’amore sia lo specchio della nostra anima.
Forse ci si dovrebbe innamorare fino a perdere la testa.
…per poi guardarsi allo specchio e non più trovarsi?
Sarà forse questo il dilemma di un guzzista quando, sfuggente in moto,
si cerca allo specchio di una vetrina?

Una pedana che incide l’asfalto di una curva è un po’ come il bisturi di un chirurgo nel mezzo di un’incisione circolare attorno al battito di cuore.

Spesso non è importante dire quello che si pensa della propria moto e nemmeno che gli altri condividano quello che pensiamo della nostra moto.
Alla fine è sempre più importante portare gli altri a dire ciò che vorremmo pensare della nostra motocicletta.

“Toglietemi ciò che è utile, ma lasciatemi il superfluo”
Oggi sono un uomo etico!
La mia coscienza si è fatta arbitro del libero arbitrio.
Domani sarò un guzzista etico! Lascio la moto a casa o rileggo con consapevolezza Baudelaire.

C’era un tempo delle caduche pagine di carta.
Oggi è il tempo delle volatili pagine dei siti Web.
Trovo di un certo fascino come in Anima Guzzista questa trasmigrazione di pagine avvenga su di un’aquila alata.

PAROLE IN CO2

C’è chi ha scritto che il guzzismo è quella malattia mentale di cui ritiene di essere terapia.
Finalmente è arrivato il tempo dell’accanimento terapeutico.
E’ probabile che verrà anche il giorno dell’eutanasia?!

PAROLE IN CO2

Una motocicletta rappresenta sempre il massimo sincretismo tra tecnica motoristica e tecnica ciclistica. Pare altresì che un V11 sia spesso l’estrema apologia di un rito Vudù, anche se alcuni sostengono che il sincretismo espresso nel culto Macumba sia più appropriato.

Ci sono periodi in cui, in modo alterno ed incessante, il mio sguardo è rivolto verso l’alto alla ricerca di una Fonte di Salvezza e verso il basso alla costatazione del personale Pozzo della Perdizione, impedendomi di fatto di fermare l’occhio all’altezza mediana dell’orizzonte. A quella altezza che è dell’alba e del tramonto e di ciò che vi è nel mezzo; a quella altezza che è di altri occhi e di un altro sguardo. A quella altezza che è di ciò che non ho.
Alle volte essere anche un solitario motociclista dal vigile occhio rivolto all’orizzonte è di aiuto.

E’ strano come ai piloti sia dato il compito di lasciare un segno di sé gommando e poi sgommando le tracce del loro passaggio.

Sentire l’urlo che riempie il vuoto è vedere il vuoto riempire la nudità.

PAROLE IN CO2

Sentire il rombo che riempie il vuoto è vedere il vuoto riempire la velocità.

PAROLE IN CO2

TRILOGIA SU DUE RUOTE

In garage

In strada

In pista
organi malfermi
serro
comprimo
e come prima sbucano,
sbocciano
dal carter,
tubi
torti
a vista,
liquidi nei punti morti
colano,
calci e urti di bielle
che non stanno,
snodi
su cui accanire
incastro di anni,
e vanno a vuoto
i colpi
d’occhio,
dadi rotti
le pupille
senza fuoco,
nebbia di nervi
che si stringono
addosso:
tra schiacciate ali
volo imploso
le mie marmitte
aperte
paesaggi malfermi
guardo
comprimo
e come prima sbucano,
sbocciano
all’orizzonte,
lamiere
torte
a vista,
corpi nei punti morti
colano,
calci e urti di guard-rail
che non stanno,
incroci
su cui accanire
incastro di anni,
e vanno a vuoto
i colpi
d’occhio,
semafori verdi
le pupille
senza fuoco,
groviglio di nervi
che si stringono
addosso:
tra schiacciate ali
volo imploso
le mie marmitte
aperte
avversari malfermi
inquadro
comprimo
e come prima sbucano,
sbocciano
alla curva,
carene
torte
a vista,
sudori nei punti morti
colano,
calci e urti di traiettorie
che non stanno,
frenate
su cui accanire
incastro di anni,
e vanno a vuoto
i colpi
d’occhio,
record sfumati
le pupille
senza fuoco,
elastici di nervi
che si stringono
addosso:
tra schiacciate ali
volo imploso
le mie marmitte
aperte

Si dice che il modo migliore per avvicinarsi all’essenza delle cose sia quello di immedesimarsi totalmente con esse.
A pieni polmoni e con bocca aperta come carburatore ho provato il più possibile a respirare aria, bevendo i liquidi più energetici fino a riempire il serbatoio del mio stomaco. Ho poi corso e corso con i più disparati moti alterni dei miei organi interni fino ad esaurimento delle mie suole di gomma; ma la mia defecazione non è ancora di biossido di carbonio.

Ogni volta che mi capita di entrare dall’ingresso principale di una concessionaria rimango sempre interdetto da tutta quella verginità motociclistica così ostentata. Forse è per questo che preferisco sempre entrare dall’officina.
Anche se, a dire il vero, quando andai all’EICMA ebbi più l’impressione di essere a una convention porno.

Parole d’amore alla mia Moto Guzzi

Il gioco con le parole può essere a volte come una droga. Un po’ come continuare a sfregarsi un prurito pur sapendo che poi complicherai la situazione. Il gioco di parole viene a volte lieve e senza sforzi ma poi spesso ti violenti a rileggerlo avanti e indietro, avanti e indietro con lo stesso immobile significato, proprio come uno sfregamento continuo che ripercorre con ostinazione il proprio solco. Lo starnuto è differente. Per lo starnuto ci vuole una grande e faticosa preparazione, un grande impegno preliminare sia fisico che mentale. Ma l’appagamento, il piacere e la serenità che ti dà lo starnuto ti ripaga sempre dell’impegno che hai dovuto precedentemente donargli.
Ecco perchè cerco di rifuggire lo sfregamento da prurito, del fraterno prurito. Sì, perchè lo sfregamento è fraterno, è sempre più o meno identico a se stesso e non ti conduce da nessuna parte. E’ tuo, te lo tieni e rimane comunque lì, immobile senza chiedere e dare nulla di più di quello che esso è. L’avvicendarsi dell’atto dello sfregamento può essere a volte come l’avvicendarsi delle parole in un cartiglio.
Lo starnuto invece è potenza, è vita, è liberazione. Dopo lo starnuto tutto è in qualche modo nuovo e libero da condizionamenti. E’ per questo che lo starnuto è spesso pericoloso, di questo bisogna essere comunque consapevoli; lo sfregamento da prurito fraterno, mai.
L’effetto dello starnuto è un po’ come il Big Bang. C’è un prima e un dopo, e il dopo non può che essere vita; un prima e un dopo così diversi e al contempo complementari. Lo starnuto, come il Big Bang è immediato; immediato come lo sono due sguardi che si incontrano.
E’ per questo che io ora non me la sento di accettare lo sfregamento del prurito fatto di parole fraterne e ritengo giusto e onesto credere alla favola dello starnuto, che è la favola della libertà; la libertà di ognuno di noi di decidere del suo futuro.
Che ci facciamo in fondo io e te delle parole? .

I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO – Io sto con gli “Elefanti”

0
I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO
di Gianmarco Mirabile
 Foto di Simone Rambaldi e Paolo Sala

Mi piacciono le sfide che sfiorano il limite dell’impossibile. Mi sono sempre piaciute, ma questa volta ho superato me stesso. Dal 2006 conservo in garage una delle poco vendute, ma tanto divertenti Moto Guzzi TT35 dell’86 che ho subito battezzato col soprannome “Piggy” (la moto maiala). Non è in perfetto stato di conservazione ma per l’utilizzo da “battaglia” in città è ottima. E’ stretta, maneggevole e il manubrio largo (è come un Renthal) facilita molto il controllo del mezzo. L’ampio angolo di sterzo aiuta a disimpegnarsi nello slalom tra le auto. Il cambio, coi rapporti corti, trae d’impaccio in molte situazioni imbarazzanti tipiche del traffico cittadino e con esso il motore diventa tanto pronto che pare di avere il doppio dei cavalli reali. Piggy è approdata nel mio box quando il precedente proprietario l’aveva già Supermotardizzata: il parafango crossistico alto davanti ha lasciato posto all’Acerbis filo ruota; i soffietti, per riparare dai sassi gli steli forcella, sono stati asportati, come pure la pesante intelaiatura portapacchi sul codino; gommatura da stradale pura, per nulla adatta al fuoristrada. Se aggiungiamo anche le sospensioni snervate da vent’anni d’uso e una frenata che, quanto a potenza, lascia parecchio a desiderare, il quadretto è completo. Alcuni amici guzzisti che l’hanno vista (per parcheggiarla non uso cavalletti, l’appoggio col manubrio contro il muro “alla randagia”), hanno commentato con frasi tipo: “La tua è una moto da rapina!”. Mi è pure capitato d’essere fermato, in città, da normali appassionati in sella a supersilenziose moto orientali che mi hanno detto: “E’ proprio bella, non ho mai visto una Guzzi così. È unica, hai fatto proprio una bella special!”. Già, la mia nonnina non dimostra affatto i suoi ventidue anni, complice anche una bella vernice blu elettrica metallizzata che la svecchia dandole quel pizzico d’aria giovanile da moto sbarazzina.
Settembre 2006. Ricevo una telefonata dal mio amico Simone, un “malato” d’Enduro che possiede una sacrilega (per noi di Guzziland) Honda Transalp che m’invita a partecipare ad una gara amatoriale d’Enduro riservata solo a “pachidermici” bicilindrici off-road ed ai monocilindrici di ALMENO centocinquanta chili di peso. <<Piggy di cilindri ne ha due e siamo ben oltre i 150 kg, vuoi venire?>> Lì per lì gli rispondo con un sì deciso, senza pensarci troppo. Passati due minuti, realizzo quello che mi ha appena detto e mi pento della risposta…ma la telefonata si è già conclusa e ormai il danno è fatto. Ci sono da considerare alcune cose. La prima è che il sottoscritto non ha mai e sottolineo mai messo una ruota in fuoristrada (se escludiamo la via di fuga in pista dopo un “lungo”). Ho da sempre posseduto moto sportive o comunque stradali, mai una tassellata prima di Piggy. Si capisce che affrontare per la prima volta nella vita un percorso fuoristrada, per giunta in una gara, è un’impresa che chiunque, sano di mente, considererebbe folle. In secondo luogo, Piggy l’ho appena acquistata e non ho ancora grande dimestichezza con essa.
Da Milano a Trescore Cremasco (CR), luogo in cui si svolge la gara, arriviamo in sella alle nostre enduro di media cilindrata con la statale. La trasferta è avvolta da foschia e umidità tipiche degli autunni padani. La manifestazione si svolge in un campo messo a disposizione da alcuni agricoltori appassionati di moto, per cui è richiesto l’uso di buon senso e civiltà per non recare disturbo a nessuno al passaggio con le moto. Alla manifestazione partecipano anche alcuni enduristi navigati come alcuni giornalisti di Motociclismo Fuoristrada o ex piloti navigati ormai in pensione. Sono previste tre prove speciali cronometrate in un fettucciato ricavato da un campo agricolo e tre giri di percorso entro-fuoristrada che comprendono anche due lunghi guadi. Alla fine della gara, grigliata per mettere tutti d’accordo, se non con l’inclemente cronometro, almeno con le gambe sotto al tavolo e la pancia piena. Arriviamo nel luogo dell’appuntamento (in ritardo) e c’iscriviamo tra gli ultimi. A me spetta il numero 109, che attacco con fierezza sul cupolino. Firmo lo scarico di responsabilità e poi briefing tenuto dall’organizzatore Luigi Corrù. <<Mi raccomando, – dice Gigi col microfono vicino alla bocca – siamo qui per divertirci e passare la giornata in compagnia. Evitate di strafare e, soprattutto, non fatevi male! L’ambulanza è presente ma non è necessario usarla…>>. Nel mio caso non c’è pericolo…a meno che non m’investa qualcuno. Nell’attesa d’entrare nel fettucciato, si forma un gruppetto di curiosi vicino a Piggy che mi fa domande sulla mia anticonformistica cavalcatura: l’unica Moto Guzzi presente alla gara! Sono fiero di me e della mia prode Piggy, compagna di mille avventure…e bla bla bla. La gente sembra divertita nel vedere la mia moto (e forse anche me, che sono vestito da tutto tranne che da Endurista!). Pare un chicco di riso dentro un formicaio tant’è insolita.
Ed eccoci alla gara. Tocca a me: mi posiziono sulla linea di partenza e aspetto il via del commissario di gara. Tre, due, uno… parto sgommando con la ruota posteriore (sulla terra battuta con le gomme stradali è facilissimo!) e affronto la mia prima, vera ed entusiasmante curva in fuoristrada. È subito panico! Le moto che hanno girato prima di me, un centinaio in tutto, hanno già creato i solchi e le cunette sulle quali bisogna appoggiare le gomme per fare le curve nei fettucciati. Abituato ai parametri di tenuta gomma-asfalto ai quali sono ormai assuefatto da anni, devo rivedere completamente il mio stile di guida: qui le ruote si muovono in continuazione e la sensazione d’aderenza precaria mi fa irrigidire come non m’era mai successo. Alla seconda curva dopo il via, perdo l’anteriore e la moto s’appoggia a terra. Pork!…da sotto il casco impreco, pensando che sono solo alla seconda curva e son già orizzontale. La situazione non è per nulla rassicurante se penso che ho ancora circa due chilometri di fettucciato da affrontare. Provo a rialzare il Gùss ma nulla, la tecnica delle braccia sotto la sella che tirano in su, spingendo coi quadricipiti, e il ginocchio che aiuta la manovra non ha efficacia. Sembra un elefante accasciato tant’è pesante, nonostante l’estetica snella e la maneggevolezza nella guida su asfalto facciano apparire il contrario. Mi vengono in soccorso dei ragazzi e mi aiutano a rialzare la moto. Ho la fronte imperlata dal sudore. L’avviamento elettrico Lucas non mi tradisce e il motore si riavvia prontamente. Non m’abbatto e caparbiamente ci riprovo. Inserisco la prima e riparto, tenendo bene a mente i consigli di Simone: il cerchio anteriore da 21’’ è fatto per passare sopra agli ostacoli: per farla curvare la devi inclinare e tu devi restare col busto verticale. <<Un gioco da ragazzi per uno che consuma le saponette della tuta di pelle in pista e non mastica di fuoristrada da quando è nato – penso ironicamente tra me ->>. Affronto il rettilineo che segue per intero il lato del campo con la sgradevole sensazione di non controllare il mio mezzo. Qui non ci sono tasselli ruota a mordere il terreno. Ogni canale che la ruota davanti incontra viene seguito fedelmente…anche contro la mia volontà! Per non farmi venire un infarto, procedo a velocità bradipo, forse pure un po’ più lento. Ho il polso destro bloccato dall’insicurezza, non mi fido a dare gas. Maledetta paura di cadere! Sembra di stare seduto su di un veicolo in equilibrio precario che fa un po’ ciò che vuole lui, non io. E’ un po’ come salire in sella per la prima volta e reimparare a guidare da zero. Strano dopo tutti questi anni in sella, ma molto, molto stimolante. Ho scoperto un nuovo modo d’intendere la motocicletta quando ormai pensavo che questo mondo mi fosse molto familiare. Mi sbagliavo, e confermo la teoria di chi dice che, nella vita, non si finisce mai d’imparare. Esco indenne dal fettucciato, riuscendo a cadere solamente una seconda volta. Poi campo, strada bianca e…guado. Mammamiaaiutoooo! Il percorso prevede l’attraversamento di un paio di canali per lungo, guadi veri e propri, non semplici pozzanghere da raccontare come “mari aperti” agli amici al bar. L’acqua è profonda in alcuni tratti fino a 60 cm e sul fondo ci sono ciottoli grossi e viscidi che si muovono col peso della moto. Un pazzo! Gomme stradali, acqua sopra i perni ruota, gas costante e…doccia assicurata dagli schizzi che salgono dalla ruota anteriore. Prima di entrare, ho chiesto informazioni sulla fattibilità del guado (per me e il mio mezzo) a degli enduristi navigati lì presenti che mi hanno risposto: <<Sì sì, i ciottoli sul greto sono stabili e non sono un problema anche con le tue gomme stradali, vai tranquillo! L’importante è tenere il gas costante.>>.
“Vai tranquillo!”: frase celebre che hanno detto al tizio che poi è finito in galera e gli hanno rubato la moglie.
<<C’è poco da stare tranquillo, – mi suggerisce il mio istinto – ma ormai sono qui, perché non provare?>>. Una persona sana di mente avrebbe trovato svariati motivi coerenti per non affrontare il guado, come il fatto che, se cadi a mollo, oltre a tornare a casa bagnato, torni pure senza moto, perché se entra l’acqua nel motore lo fai fuori. Io invece ne ho fatta una questione d’orgoglio personale, mi sono appigliato al pretesto di fare un’esperienza nuova. Ho puntato la ruota anteriore verso l’acqua e mi ci sono tuffato. Non so come ho fatto, ma non mi sono né bagnato più di tanto, né sono caduto ed ho passato il guado miracolosamente indenne. “Kickn’ass” dicono gli statunitensi in slang, colpo di culo (si può dire?) tipico del principiante, la traduzione italiana. Dopo il guado, il percorso prevede di passare in un prato con erba umida, forse il tratto meno impegnativo del percorso insieme con l’attraversamento del campo coltivato a pannocchie e solcato dalle enormi ruote dei trattori. Passaggio tecnico in un bosco, scollinamento nell’alveo d’un torrente pieno di fango dal quale è impegnativo cavarsi fuori. Una mano da colleghi motociclisti per uscirne e lo spirito di gruppo che ci rende fratelli mi fa riemergere insieme a Piggy sull’altra riva.
La guida in piedi sulle pedane del Guzzi TT35 è piacevole ed aiuta a controllare bene il mezzo. Lo sguardo dall’alto, inoltre, fornisce una visione più completa di ciò che succede davanti per quel che riguarda condizioni e praticabilità del fondo sul quale mettere le ruote. Le pedane sono da fuoristrada vera, coi dentini in ferro che mordono la suola in gomma degli stivali. Il manubrio è davvero larghissimo, e questo aiuta ad alleviare, con la sua leva, la fatica che si affronta in fuoristrada per il peso elevato complessivo della moto. Il motore Moto Guzzi, accoppiato al cambio coi rapporti corti, è una manna dal cielo e mi non mi ha mai messo in difficoltà. Merito della regolarità di funzionamento ai bassi regimi che ti permette di puntare il gas e di trottare a passo d’uomo godendoti il panorama (ma non era mica una gara?!).
Il sole cala all’orizzonte, gli ultimi passaggi si affrontano coi fari delle moto che creano nei campi un’atmosfera suggestiva. Sembra di vedere dal vivo le foto in notturna delle moto che partecipano alla Parigi-Dakar. Da pelle d’oca. Per concludere la serata, cena tutti insieme tra birra, salamella e ravioli. Nei giorni successivi, leggo con sorpresa sulla rivista mensile “Moto ON-OFF Lombardia” un articolo che parla di questa manifestazione e un commento di Corrù che mi fa sobbalzare dalla sedia: <<Per Gigi c’è un solo vincitore morale, il pilota di una Moto Guzzi con gomme stradali che ha faticato non poco a terminare tutta la gara>>. Follia o passione lascio a voi deciderlo, io, però, mi sono divertito un sacco.

I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 10 I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 1 I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 2 I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 3 I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 4 I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 5 I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 6 I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 7 I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 8 I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO 9

 

ll mio 1° elefantentreffen

0
immagine-racconto

di Alessandro Soriga

Come ho già avuto modo di scrivere sul forum, doveva essere l’anno scorso, ma per motivi che non sto qua ad elencare è saltato e ho rosicato per un anno intero, ma allo stesso tempo è stato un anno dove psicologicamente mi sono caricato al punto che mi sentivo “invincibile” rispetto a qualunque avversità.
Tra una chiacchiera e l’altra qua nel forum, prendiamo accordi con nettuno61 per partire assieme, lui c’è già stato l’anno scorso, è sicuramente utile essere in due, ma se uno ha anche già un po di esperienza è ancora più utile. Decidiamo di evitare di portare “doppioni” e oltre alle cose personali, ci accordiamo su ciò che può essere utile ad entrambi: nell’ordine io porto un paio di kg di pasta, del ragù, 4 bottiglie da lt 1.5 di vino da me prodotto, 1 di mirto, idem come per il vino, 1 di filuferru circa 4 kg di carne, un segaccio, 1 roncola, 1 graticola, 1 pentola per la pasta, 1 colapasta, 1 caffettiera, , caffè, pane carasau, pane tipo spianata, sale fino e grosso; nettuno a livello alimentare è fornito circa allo stesso modo, ha in meno il vino ma ha in più il latte per la “classica” colazione italiana, fornello e soprattutto NAVIGATORE.
Due giorni prima della partenza lo chiamo e gli dico “invece di aspettarci in strada sotto a qualche ponte, perché non vieni a casa, pranziamo e poi partiamo assieme?” e così abbiam fatto; giunti a casa sistemiamo bagagli e specchietto della sua in quanto reduce da una caduta, fortunatamente senza conseguenze serie ne per se ne per la moto e si parte. 40 KM esatti e la moto di nettuno si ferma!! Una controllata generale e…… la batteria non va; la moto non accenna a dare segni di vita a livello di corrente, tira fuori l’avviatore rapido e la moto riprende magicamente vita, si pensa immediatamente all’alternatore che non carica e nettuno mestamente dice: “il mio elefante finisce qua; cosa ti posso dare? Hai l’attacco per l’accendisigari? Ti do il navigatore” “l’unica cosa che puoi prestarmi è il fornello, attacco per l’accendisigari non ne ho” e cosi il mio viaggio prosegue in solitaria, so che devo andare verso Monaco e verso Passau, durante il viaggio sino all’imbarco a Golfo Aranci continuo a pensare che andrà tutto bene,. . . . che in qualche modo me la caverò e intanto continuo a bestemmiare per l’acqua che viene giù, ma intanto mi ha permesso di testare la tuta: non è filtrata una goccia d’acqua.
Mercoledì 28 sbarco a Livorno (io sarei voluto partire il mercoledì, ma nettuno ha insistito per partire il martedì perché quest’anno l’inverno è particolarmente rigido e per chi come noi neve e ghiaccio ne vede 1 volta ogni 10 anni è meglio essere previdenti) e chiaramente prendo direzione autostrade. Forse per chi sta “in continente” il problema non si pone, ma i miei ricordi scolastici di geografia non sono molto vivi e ad un certo punto vedo l’indicazione Parma – Genova verso sx e Firenze – Bologna verso dx, che faccio? Grossomodo ho l’idea di dove sia situata Bologna ma… Parma? So che è in Emilia, ma la dislocazione geografica in questo momento non l’ho presente; Genova non è la direzione che mi interessa, . . . . e se vado in quella direzione e trovo uno svincolo per Parma che poi magari è la direzione giusta? Intanto proseguo, quando mi trovo al bivio opto per Bologna e a posteriori riguardando il tutto sulla carta a mio avviso è stata la scelta migliore. Il viaggio prosegue tranquillamente sino a che tra Barberino del Mugello e Roncobilaccio capisco che i miei guanti assieme ai paramani autocostruiti non sono proprio il massimo, ho un freddo intenso alle mani e inizio a dubitare anche sugli stivali.
Procedo senza particole fretta perché in me rimane la convinzione di essere in anticipo di un giorno, arrivo a Trento intorno all’una, non so come ma decido di dirigermi verso la zona industriale, faccio un giro con la moto non vedo alcuna indicazione “Ristorante” chiedo in giro e mi indicano un edificio sulla mia sx, entro e mi rendo conto che è una sorta di mensa per tutte le aziende che operano li, comunque, primo, secondo, contorno acqua vino e caffè € 8.65, il cibo era buono, meglio di cosi non poteva andarmi, intanto le temperature sono abbastanza accettabili io ho indosso un paio di jeans, una camicia e la tuta, non sento freddo, tra me e me penso: “ non è che gli altri abbiano esagerato? Sono già a Trento, si vede anche un po di neve ma freddo nulla” . . . Mi è bastato arrivare a Bolzano per ricredermi: un’escursione termica verso il basso incredibile, mani e piedi ghiacciati generale sensazione di freddo e anche il viso e la testa iniziano a soffrire (ancora non avevo messo il sottocasco) a Vipiteno il freddo è ancora più intenso e più vado verso il Brennero più la neve a bordo strada aumenta e più le cose peggiorano, non sento più ne mani ne piedi, proseguo comunque e decido di fermarmi alla prima stazione di servizio per apportare qualche accorgimento all’abbigliamento; per le mani non posso fare nulla ma per tutto il resto posso intervenire eccome!!! Intanto sono quasi le 16.00 e noto che sono abbastanza vicino a Innsbruck decido di soffrire ancora un po e fermarmi direttamente li: Innsbruck sud, una bella discesa molto bagnata e ghiaccio tutto attorno, non sono abituato a queste situazioni, l’affronto a velocità alquanto moderata e appena entrato in città (la neve e il ghiaccio la fanno da padrone) inizio scrutare edifici e cartelli alla ricerca di un hotel, ma l’occhio sempre vigile al ghiaccio per strada, ad un certo punto . . . . dolce visione: ZIMMER! Hotel carino (in tutti i sensi: bello ma per i miei gusti un po caro € 52.00) moto in garage, che sta di fronte all’hotel in un piazzale più in basso, quasi un fosso. Noto che il piazzale è abbastanza pulito quindi non ci DOVREBBERO essere problemi per il ghiaccio.
Al mattino di giovedì faccio tranquillamente colazione, decido di portare su la moto e poi vestirmi con calma ma……… il piazzale è una lastra unica di ghiaccio spesso 5 o 6 cm. Mi faccio coraggio, credo sia inutile attendere, lo strato è troppo spesso e la temperatura è troppo bassa perché si sciolga; con molta cautela riesco a portare la moto fuori dal garage e dal ghaccio, ok è fatta. Mi vesto e sono le 8.45 pronto a rimettermi in viaggio (ero sveglio da molto prima ma ho preferito far sollevare un attimo le temperature, è giovedì e ho fatto già parecchia strada, non ho particolarmente fretta) parto, circa 30 metri, lo stop, d’istinto freno anteriore (sapevo benissimo che non dovevo toccarlo) e la moto è per terra!!! Danni: fortunatamente solo il parabrezza. La moto è stracarica non riesco in nessun modo a rimetterla in piedi e in quella stradina non si vede anima viva; la benzina continua ad uscire dal serbatoio, un rivoletto proprio sotto il tappo e io li ad osservare inerme. Dopo circa 10 minuti passa uno spazzaneve di quelli da città, piccolo, sembra quasi un giocattolo, faccio dei cenni all’operatore, molto gentilmente si offre di aiutarmi ma appena la moto arriva a circa 45° da terra inizia a scivolare dalla parte anteriore e di nuovo giù; cosi per due o tre volte alla fine il tizio avvicina lo spazzaneve “giocattolo” posiziona la benna di fianco alla ruota e finalmente siamo riusciti a tirarla su; nel frattempo io sono grondante di sudore, evito di mettermi in viaggio in quelle condizioni, mi levo un po di roba, faccio scendere la temperatura e poi mi rivesto che sono già le 9.30. Mi dirigo verso l’autostrada con molta prudenza e tengo ben stretto l’acceleratore in modo che “l’istinto” eviti di giocarmi nuovamente brutti scherzi; l’autostrada è parecchio bagnata e in certi punti c’è anche del ghiaccio, procedo ad una velocità di circa 90 km orari e con l’occhio sempre attento alle insidie dell’asfalto, inizio a pensare che strada debbo fare, sino a Monaco non dovrei avere problemi, . . . e poi? 15 minuti circa d’autostrada e mi sorpassano tre moto, 2 salutano il terzo rallenta un po e poi si rimette al passo degli altri, li osservo: stanno andando all’elefante se mi accodo ho risolto i miei problemi relativamente al dove andare ma sono troppo veloci per i miei gusti, intanto Innsbruck è sempre più indietro, la strada è sempre molto bagnata ma non sembra ci sia più ghiaccio, e poi. . . . . . se vanno forte loro perché non dovrei io? Mi metto all’inseguimento, 140, 150, 160 sono sempre più vicini, ma ogni tanto la moto tenta di andare per conto suo, ho paura ma devo raggiungerli, ormai sono a 700 – 800 metri è fatta, vedo i loro stop illuminarsi simultaneamente, LA POLIZIA, rallento anche io ma ormai sono con loro, si procede a circa 130 km orari, continuo a ritenere che sia una velocità eccessiva ma non posso perderli, dopo Monaco non saprei dove andare, invece svoltano per Salisburgo, ricordo che l’anno scorso controllando il percorso si poteva passare anche da li, ok, sempre appresso, sono talmente concentrato nella guida che non sento il freddo, so solo che il paesaggio era completamente bianco, persino gli alberi non riuscivano a mostrare il verde delle loro foglie, mai vista tanta neve e il freddo alle mani e ai piedi pian piano inizia a vincere sulla mia concentrazione di guida, lo sento sempre di più dopo circa 100 – 120 km decido di fermarmi alla prima stazione di servizio perché non sento più mani e piedi, nemmeno fossimo d’accordo vedo che loro prima di me mettono freccia per la stazione di servizio; presentazioni, 4 chiacchiere loro sono di Verona e dicono di essersi messi in viaggio alle 4 del mattino e ora avrebbero pranzato, si sarebbero fermati per la notte a Passau, mi trattengo con loro perché devo recuperare la temperatura e ormai non siamo distanti, se le strade sono così conto di giungere a Solla nel pomeriggio e poi decido se cercare un hotel o montare direttamente la tenda. Hanno una carta a testa, 1 la danno a me tanto loro sono insieme, . . . . . “nel caso dovessimo perderci” mai frase è stata tanto premonitrice!!!
Circa un’oretta di sosta e ci rimettiamo in viaggio, ormai ho stabilito che per i primi 100 – 150 km sto bene sia alle mani che ai piedi, quindi mi metto a ruota degli altri e non sto nemmeno attento alle indicazioni stradali, ma sempre attento al “culo” di chi mi precede; probabilmente non abbiamo fatto 10 km che vedo tutti e tre metter freccia a destra, penso “1 moto in panne?” accosto pure io, sfilo un guanto e prendo le sigarette ma. . . . . . azz stanno ripartendo!! Capisco in quel momento che la sosta era semplicemente per controllare la cartina, velocemente rimetto le sigarette in tasca, infilo il guanto e mi metto all’inseguimento, non hanno praticamente nulla di vantaggio, 400, 500 metri, li vedo scomparire dietro la curva e . . . . . . . affronto la stessa curva . . . l’autostrada si divide in tre direzioni, non sono sulla corsia di dx, devo prendere una decisione in una frazione di secondo, il traffico è intenso, prendo la diramazione al centro ma con la coda dell’occhio riesco a vedere i tre sulla rampa di dx fermi ad aspettarmi. Fine del “passaggio gratis” mi sto dirigendo a Salisburgo Zentrum, faccio inversione, cerco uno svicolo torno indietro e svicolo nuovamente per prendere quella rampa, chiaramente di loro più nessuna traccia, sarà passato più di un quarto d’ora; poco male, ho la loro cartina, imbocco la rampa, 100 mt e una rotonda 4 direzioni diverse….. quale prendo? Ok leggo il nome di un paese (non ricordo assolutamente quale) e un numero: 35 immagino sia il numero della strada, statale o provinciale, imbocco per la 35, mi fermo e controllo la cartina:
1 mi rendo conto che essendo stampata da internet arriva sino a Passau;
2 non compare il nome del paese appena letto;
3 ci sono un sacco di strade e stradine numerate ma nessuna col 35!!
Stiamo calmi, riflettiamo: torno alla rotonda o proseguo? Ok decido di attraversare questo paese che sulla carta non esiste, noto un cartello a distanza, vediamo di che si tratta: è un cartello pubblicitario, ma più in la ce n’è un altro e si scorgono nuovamente delle case, procedo ancora un po, male che vada tornare indietro sono un paio di km in più; il cartello ha ben scritto tra le altre indicazioni: PASSAU km 129 strada n. 20, è fatta, non ho più avuto bisogno della cartina in quanto Passau era segnalato ad ogni incrocio, ad ogni bivio, addirittura quando non c’era nemmeno da svoltare. Tra sosta per il pranzo ecc giungo a Passau intorno alle 16.00, so che sono a circa 50 km dalla destinazione, ma non so assolutamente che direzione prendere, quindi decido per un hotel e……. domani incrocerò qualche moto.
Classica doccia e si va in giro per la città, mi rendo conto che il clima è più mite, lungo tutta quella statale il freddo è stato più intenso che altrove, ma una volta scavalcata l’autostrada, la A3, quasi fosse una linea di separazione tra due mondi diversi, il freddo ha iniziato a diminuire d’intensità cosi come la neve. Siamo a venerdì ore 08.30 mi metto in viaggio, si, ma in che direzione? Mi dirigo verso sud sperando di incontrare qualche moto ad un certo punto vedo un postino: una gran bella ragazza, parlo solo italiano, mastico due parole in inglese in croce ma vale la pena tentare: “bitte miss, i’m going to elefantetreffen, (e indicando con il braccio la direzione) here?” mi guarda, farfuglia qualcosa in tedesco, intuisce che non ho capito e risponde “i don’t” iniziamo proprio bene!! Nel frattempo passa una signora con un bimbo, immagino andasse all’asilo, si ferma ed esclama “elefantentreffen?” mi si illuminano gli occhi, azz…rispondo pure in tedesco “ja” una volta afferrato che non capivo mezza parola di quel che diceva, apre la borsa del figlio prende un pezzo di carta, un pastello e scrive B 12 FREYUNG, mi indica di proseguire nella direzione in cui andavo. Felice come una pasqua mi metto finalmente in viaggio verso Solla, questa B12 è molto bagnata e parecchie zone d’ombra, la paura di trovare dei tratti di strada ghiacciata è sempre presente, un bestione di camion mi segue a distanza ravvicinata, lo distanzio ma le zone d’ombra sono parecchie e mi riprende più e più volte; ho percorso esattamente 18 km e non ho incontrato nessuna moto, qualcosa non mi convince! 4 case messe in croce, decido di fermarmi e chiedere informazioni, chiaramente con la mia vasta scelta di vocaboli in inglese; un chiosco dove cucinano wurstel e altre robe tipiche della cucina tedesca, entro “hi, I no doich, I italien: 1 information please” lui, gran sorriso e la classica domanda: “elefantentreffen?” estraggo il foglietto B 12 lo mostro e lui subito “nein, nein” mi fa capire che devo tornare indietro 2 km, girare ad un bivio e poi…. Non ho capito altro; interviene la moglie che tenta di indicarmi la strada su una carta che hanno appesa li sulla parete, chiedo una penna per segnare in quali paesi devo passare, ma il marito ha un lampo di genio: entra dentro e riviene fuori con la penna e una carta turistica della zona, 1 di quelle dove ci sono segnate anche le vacche che sono al pascolo, mi traccia la strada sulla carta e me la da, faccio per pagare e mi fa capire che si offenderebbe, allora ordino una birra, € 2.10 pago con 5 e lascio il resto.
Ore 10.50 sono a destinazione: la mitica discesa dove mi hanno raccomandato di non andare con la moto, la mitica fossa e già un po di gente in giro; cerco di capire come funziona, chiedo ad un tizio che individuo come italiano “non saprei, è la prima volta anche per me” ok il più è fatto, mi affido all’intuito e all’istinto, non chiedo più a nessuno, pago l’iscrizione, entro dentro e cerco di individuare dove montare la tenda. I posti “belli” sono parecchio distanti e non ho voglia di trasportarmi il bagaglio in culo al mondo, scorgo uno spazio relativamente ampio senza nessuna tenda, è abbastanza vicino alla moto, la decisione è presa: mi piazzo li, mi guardo attorno, una bandiera austriaca e dall’altra parte qualcuno che parla italiano, ma sono un gruppo numeroso già organizzati per conto loro, non mi cagano nemmeno di striscio, completata l’operazionedi montaggio, mi accingo a legare all’esterno la bandiera dei 4 Mori. “Finito?” mi giro e appena più in qua della bandiera austriaca mi accorgo solo in questo momento che c’è una tendina “per conto suo” “ah, sei italiano anche tu? Qua solo? Lo sono anche io” inutile dire che ho immediatamente tirato fuori carne e vino e…. in serata eravamo in 5, tre single e due che sono venuti assieme, nel frattempo lo spazio relativamente ampio è solo un ricordo, strapieno di tende e se alla mia sx c’erano gli italiani, alla mia dx hanno montato i tedeschi che in breve tempo non stavano più in piedi e cascavano sopra le tende,qualcuna si poteva rimettere in sesto, altre andavano montate ex novo. Cazzo ma sono ad un passo dalla mia tenda, prima o poi accadrà . . . . . forse mezz’ora dopo uno casca e rotola un po, si ferma sulla mia tenda, lancio semplicemente un’occhiata che suppongo non sia passata inosservata in quanto nemmeno 5 minuti dopo si avvicinano 2 tedeschi, non sono sbarbatelli come gli altri, sono sulla 40ina o forse oltre, masticano un po di inglese, tra noi 5 c’è qualcuno che fa altrettanto, si scusano a nome dei “giovinotti”, ci spiegano che hanno fumato risolviamo il tutto con il classico “no problem” e giù birra da parte loro e vino (che viene apprezzato particolarmente) da parte nostra, si passa al mirto ed infine decido di aprire le danze con il filuferru, uno di noi 5 (fabio) dice “io non lo bevo ma mi piace l’odore, fai annusare” lo accontento ma noto in lui un’espressione perplessa, verso un goccio di liquido sul dito e assaggio: cazzo è acqua!!!! Mi sono scarrozzato per 1300 km 1 bottiglia d’acqua, non so come possa essere successo (lo capirò a casa quando ne parlo con mia moglie) ma la figura di merda è grande. Intanto il mirto inizia fare effetto e Fabio mi fa “ ma tu sei un guzzista convinto?” “non sono come i fondamentalisti islamici riguardo alla religione, ma per me la moto è solo guzzi!!!” “ beh se provi una bmw (possiede infatti una bmw, non so nemmeno quale modello) visto che ti piacciono i bicilindirici, hai lo stesso effetto della guzzi ma la sicurezza bmw, sai io ho avuto 32 moto…” lo interrompo immediatamente “ma una guzzi l’hai mai avuta?” “NO” “allora devi stare zitto!!!” si continua a ridere, scherzare e bere, non sono ubriaco ma un po brillo si. Si va a letto, i tedeschi continuano a fare un casino della madonna, sono abituato a situazioni del genere, riuscirò a dormire, anche se a sprazzi; intorno all’una o le due di notte, qualcuno “frana” sulla mia tenda, stavo dormendo ma credo che un fulmine ci avrebbe impiegato più tempo ad uscir fuori “scusa, italiano scusa” non so cosa tutto gli abbia urlato contro so solo che rientrato in tenda, dopo un po sento “italianschi . . . bla bla bla . . . fanculo… VAFFANCULO” la voce era un po sommessa, io ho difficoltà a prendere sonno, dopo una mezz’oretta evidentemente si è avvicinato qualcun altro a chiedere spiegazioni: “italianschi . . . bla bla bla . . . fanculo… VAFFANCULO” e prima di addormentarmi riesco a sentire ancora una volta la stessa frase, evidentemente senza rendermene conto sono stato ABBASTANZA duro. La mattina intorno alle 7.00 esco dalla tenda, i tedeschi sono ancora in piedi, uno si avvicina e con un sorriso mi dice “italiano, scusa” io non riesco a trattenere un sorriso e rispondo “vaffanculo” ridiamo, ci stringiamo la mano e subito mi porge una bottiglia con un liquido giallo canarino di un denso impressionante, “adesso voglio fare colazione, non voglio bere, vaffanculo” ormai il termine è diventato un modo per comunicare e ridere, tiro fuori la roncola e inizio a spaccare un po di legna per accendere il fuoco, il tedesco non mi da tregua, insiste con quella bottiglia ed io no, no, no!! Preparata abbastanza legna “sottile” per accendere il fuoco tiro fuori la diavolina e il tedesco inizia ad urlare dah dah dah e scuote la bottiglia, la stappa, versa il contenuto sulla legna, cazzo era accendifuoco liquido, ci siamo fatti una grassa risata, tiro fuori caffettiera, caffè e il fornello di nettuno, accendo ma in un minuto non c’è più gas, mi metto all’opera per sostituire la bomboletta di gas ma……. Che fornello strano, ha un incastro , si nota anche un pezzo di filettatura ma… non riesco in alcun modo a smontarlo; metto la caffettiera sul fuoco vivo idem faccio con il latte che ho comprato a Passau, nel frattempo arrivano i 2 italiani che erano giunti assieme, sono entrambi vigili del fuoco “ ho un lavoretto per voi” e gli porgo in fornello, sono diventati una barzelletta perché per loro è diventata una “questione d’onore”, ma dopo mezz’ora abbondante non erano divenuti a nulla.
Ore 09.00 i tedeschi riprendono ad essere instabili sui piedi e vengono giù come birilli, nel frattempo si è sparsa voce che all’indomani (domenica) in Italia ci sarebbe stata un’ondata di mal tempo con forti nevicate soprattutto al Brennero; intorno alle 12.00 c’era la metà delle tende rispetto alla sera prima, i due vigili del fuoco decidono che sarebbero andati via nel pomeriggio, gli altri due solitari coi quali avevo fatto gruppo hanno deciso di andar via ugualmente, tento di convincerli, non mi va di trascorrere tutta la sera solo, ormai è difficile anche per me trovare nuovamente compagnia, intanto i tedeschi preparavano un “cannone” che poteva soddisfare metà dei partecipanti al raduno, l’idea di dover “combattere” un’altra notte con i tedeschi, ma sopratutto l’idea di affrontare la neve (per un sardo credo sia una grande impresa) magari da solo, mi spaventa parecchio, quindi riesco a convincere gli altri almeno a pranzare li e anche se a malincuore, avrei voluto fare anche la sera di sabato, andare via: altra grigliata di carne e vino in abbondanza, specifico ai compagni che utilizzando la graticola, non posso caricare i bagagli se non dopo pranzo in quanto per come devo sistemarli sulla moto, la graticola è la prima da mettere, poi la tenda, poi i sacchi a pelo, successivamente la valigia ed in ultimo lo zaino. Fabio mi aspetta, l’altro (Gabriele) inizia ad andare in quanto va con il suo passo (90 – 100) e lo avremo raggiunto per strada. Mi affido a Fabio e sin dal raduno facciamo il giro esattamente al contrario ( infatti io sono arrivato da sotto mentre andiamo via da sopra) tutto procede tranquillamente 130 – 140, la strada per Monaco è bellissima, asciutta, poca neve e soprattutto poco freddo, sino a che giungiamo in Austria le temperature scendono repentinamente e la neve aumenta a vista d’occhio, iniziano nuovamente a gelare mani e piedi, ma almeno una volta la fortuna gira dalla mia: un ingorgo ci rallenta e recupero un po di temperatura, si va a singhiozzo, un po di km procedi regolare un po di km sei in mezzo ad un ingorgo, riesco a tenere temperature sopportabili, sino ad Innsruck, da li tirata unica sino a Vipiteno ma non ero più padrone delle mie estremità sia inferiori che superiori. Gabriele ci comunica via sms che si ferma ad Innsbruck, peccato, avevamo prenotato una camera per tre.
iil mondo è veramente piccolo: doccia, si va al ristorante dell’hotel e chi ti incontri? I 2 vigili del fuoco, si cena e si chiacchiera, ed io dico: “Fabio, ammettilo che quando mi hai visto con tutti i bagagli a terra un po ti sei preoccupato” “ma scherzi? Io quando ho visto i bagagli, tutti quegli elastici e funi ho pensato –questo non ne viene fuori- invece hai messo su due cinghie e hai risolto, hai una gran bella moto, io sul mio bmw non ci sarei riuscito” cazzo che soddisfazione, che rivincita!!!!
Domenica mattina, ore 7.30 risveglio a Vipiteno sotto la neve, io manifesto la mia preoccupazione e incito fabio a far presto, mi guarda, sorride (lui e di Santhià la neve è il suo pane) “non abbiamo nessuna fretta, ora facciamo colazione con calma, poi ci mettiamo in viaggio, il problema è da qua all’autostrada, là se proprio è sporca, aspettiamo uno spazzaneve, ci accodiamo, andremo a 50 all’ora ma facciamo strada, tu vai con i piedi giù e non toccare mai il freno davanti” eh lo so, lo sapevo anche prima che la moto mi cadesse ad Innsbruck. Intorno alle 09.00 ci mettiamo in viaggio, ormai per terra ci sono 10 cm di neve, per me è la prima volta non sono tranquillissimo ma mi pare di comportarmi egregiamente; sull’autostrada nevica ma è pulitissima, procediamo ad un passo di 100 – 110 sino a Bressanone, la neve è diventata acqua e si va al solito passo, 130 – 140 e dal cielo viene acqua, neve, ancora acqua e nuovamente neve, facciamo un tiratone unico sino a Bergamo, infatti io sono in anticipo di un giorno (il traghetto è prenotato per lunedì alle 21.00) approfitto per andare a trovare degli amici, considerato che per lunedì le previsioni mettono acqua.
Lunedì 02/02 sveglia alle 5,30 indipendente dalla mia volontà, purtroppo non ho più sonno, mi affaccio furi e . . . . . è tutto bianco e nevica, ma la neve non è come a Vipiteno, è più spessa, più solida; accendo la tv, previsioni del tempo: mettono acqua, sarà allora solo una questione di tempo, tra un po inizierà a piovere e scoglierà tutto. Ore 9.30 non ha ancora smesso di nevicare, decido di mettermi in viaggio, l’autostrada è a soli 7 km, spero di trovare la stessa situazione che a Vipiteno.
I 7 km che mi separano dall’autostrada vengono percorsi in 45 minuti esatti, sembra di essere sul sapone, in quel miscuglio di neve e fango spostato da dx a sx e viceversa dalle auto e dai camion, soste e ripartenze appresso al traffico, non è proprio il caso di mettersi a fare le virgolette tra le auto. Finalmente l’autostrada, 30 – 50 metri, non mi sento tranquillo, allungo un piede verso l’asfalto, cazzo quanto è scivoloso!!! Procedo a 50 all’ora, sono in balia dei camion che mi sorpassano e mi scaricano addosso tutta la merda che riescono a sollevare dalla strada; procedo in questo modo sino a Brescia, dove la neve diminuisce e anche quella che viene dal cielo è diventata acqua, riprendo la mia andatura normale e procedo verso Piacenza, infatti ho deciso di fare l’autostrada della Cisa, con la speranza che spostandomi verso sud la neve sia sempre meno, subito dopo Piacenza ritrovo la situazione di Bergamo, vado pianissimo e vicino a Parma sono quasi tentato dal fermarmi perché davvero, mi servivano dei pattini più che delle ruote, mi faccio coraggio e proseguo, intanto i cartelli luminosi in autostrada recitano “obbligo di catene sino a Pontremoli” dove cazzo è pontremoli? Quanto mi manca? Mi fermo nell’area di servizio di Medesano, ho un freddo cane, sempre e solo alle mani e ai piedi, si accosta una volante della polizia “ma lei dove crede di andare? Lassù sta nevicando parecchio” “ ho un traghetto dall’altra parte che mi aspetta, e non intendo perderlo” mi guarda perplesso poi esclama: “ io non la fermo ma sappia che rischia parecchio” cazzo è proprio l’incoraggiamento che mi serviva!!!! A questo punto non vedo l’ora di affrontare il passo, mi rimetto in viaggio, l’asfalto è sempre viscido, ci sono belle curve che in condizioni normali mi sarei gustato alla grande, invece speravo di trovarne il meno possibile e la strada comincia a salire, l’andatura si riporta intorno ai 50 all’ora e…… ma in questa autostrada passano solo camion?? Uno appresso all’altro, uno ti sorpassa e dallo specchietto ne vedi sopraggiungere un altro, e un altro ancora…… Dopo l’uscita di Borgotaro (ricordo che passai da li nel 2004 nel mese di marzo, in macchina con un amico e mio figlio, ci fermammo a giocare con la neve come dei ragazzini) l’andatura è ormai a 20 all’ora e i piedi sempre pronti a tenere la moto in equilibrio, ma . . . . . . . la fortuna non mi ha abbandonato: una lunga fila di camion che procedono a passo d’uomo, mi accodo, nessuno mi sorpassa più e si procede in questo modo sino allo scollinamento, il tunnel e . . . ti affacci in un altro mondo: acqua che sembrava buttata giù coi secchi, ma ne per strada e nemmeno nei monti un fiocco di neve, non ho mai benedetto l’acqua dal cielo come in questa circostanza, felicissimo mi fermo e controllo l’orologio: Bergamo Pontremoli km 224 ore impiegate 5.30. il resto è una gran doccia “naturale” sino a Livorno.

Gadget

VI SEGNALIAMO