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Viaggio in Turchia

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di Filippo Barbacane

 

Tre i punti salienti del “trip” che ci aspetta:

Niente GPS, gingilli vari e ne cartine geografiche così saremo costretti a improvvisare, sbagliare, domandare e quindi avere contatti con la gente del posto
Uno scopo ben preciso, magari un po’ assurdo, ma comunque una meta, in questo caso fare un volo in mongolfiera sulla Cappadocia.
Nessuna prenotazione, nessun albergo, punto preciso, campeggio, orario, scadenza,ecc niente di niente solo asfalto e strada da percorrere.
E’ lunedì 21 luglio 2010, il tempo inclemente ci aspetta, una pioggia fitta e intransigente è lì pronta con lo scopo di piegarci, ma noi non ci spezzeremo, siamo abituati a ben altro.

Nonostante l’acqua impietosa abbiamo un sorriso ebete stampato sulla faccia, ci aspettano 2 paesi, più di 5000km e una certa incertezza in cosa incontreremo.

Il traghetto a Brindisi lo raggiungiamo umidi e bagnati, con temperature più autunnali che estive, ma alla fine il grosso vocione dell’omone greco che ci inveisce contro per caricare le moto nel traghetto ci fa solo sorridere e preparare alla traversata di una notte in una cabina che definirla tale è già tanto.

Si sbarca in Grecia a Igumenitsa, tempo meteorologico a prima vista buono con grosse nuvole all’orizzonte che poco ci preoccupano, un vecchio siciliano trapiantato in Grecia ci tiene compagnia durante la colazione con i suoi ricordi della terra natia, gente simpatica i Greci, una faccia una razza come si dice.

Scegliamo di non fare l’autostrada ma le strade di montagna, bellissime, ottimo asfalto, fino a che non comincia a piovere su di un passo montano, a un tratto sembra di stare più in Irlanda d’inverno che in Grecia d’estate, non riesco neanche a fermarmi per cogliere qualche ottimo scatto tale è il freddo e la bruma che mi impedisce di vedere la cima degli alberi.

Un autista pazzo su di un grosso autobus ci passa a 10 cm a più di 100 all’ora sorpassando i piena curva le auto e i tir che procedono a passo d’uomo, una scena terrificate, sembrava la scena del film Speed dove il pullman non poteva fermarsi altrimenti esplodeva, una delle cose più assurde mai viste su strada in tutta la nostra vita.

La meta di oggi è il confine Turco ma con questo tempo ci rendiamo conto che non è fattibile fare 900km, anche se alla fine ne faremo 750, così ci fermiamo ad Alessandropulos, bruttina città della Grecia a dispetto del suo nome altisonante, non senza aver preso 2 km prima dell’arrivo una grandinata di grossa qualità.

In questo viaggio abbiamo già capito alla fine del primo giorno che la pioggia sarà una costante, ma allo stesso tempo che sarà direttamente proporzionale al nostro divertimento.

Il bello di un viaggio realizzato così in piena libertà è quello di cambiare piano quando e come si vuole, così invece di puntare verso la Cappadocia, viste anche le previsioni, cambiamo completamente giro invertendolo al 100% e puntiamo verso Istanbul.

L’arrivo in città è stordente, assordante, inquietante, allucinante.

U n gigantesco serpente di asfalto a 5 corsi per lato sale e scende dalle colline scoprendo a volte il mare a volte giganteschi palazzi dozzinali, con l’onnipresente interminabile fila di auto incolonnate che con la luce del tramonto rimanda più a scene da Highway americana che dell’ est del mondo.

Gente che attraversa l’autostrada con pacchi in mano, altri che scendono al volo dagli autobus per rifugiarsi sotto i ponti di cemento armato a far la polvere aspettando un ennesimo e scassato pulmino che li carichi di nuovo.

I prossimi tre giorni li dedicheremo a Costantinopoli(Istanbul) con quasi 15 milioni di abitanti, il terzo centro municipale più popoloso del mondo e la seconda area metropolitana più popolosa d’Europa, dopo Mosca.

Una metropoli molto simile alle altre sparse per il globo ma sicuramente con un profilo unico, così scavato nell’acqua, con lo stretto del Bosforo che divide l’Europa dall’Asia, città di confine, di passaggio che fa viaggiare la fantasia in modo unico.

I tre giorni a Istanbul ci vedono alla scoperta della città, io sempre con la macchina fotografica in mano e questa volta anche la videocamera, così interessato questa volta a realizzare anche un reportage video del viaggio.

Le cose da vedere sono tante anche se naturalmente visto il tempo ci concentriamo su quelle più conosciute come la Sultanahmet camii (Moschea Blu), Hagia Sophia (Basilica di Santa Sofia), il Palazzo Topkapi( Porta del Cannone).

Si incontrano più Italiani che Turchi e la cosa scazza un po’, sogniamo già l’Anatolia centrale e la Kappadokia, come si chiama in lingua Turca.

Però ci aspetta un ultima cosa nella città una volta nota come Bisanzio e Costantinopoli, un lungo trattamento all’Haman più antico della metropoli, con quasi 500 anni di storia.

Veniamo accolti nel camekan(ingresso) da grezzi e rudi omoni in asciugamano che ci invitano ad entrare nel bagno Turco attraverso il sogukluk(stanza di transizione) con 50° di temperatura e infine nell’hararet una stanza con pianta circolare e al centro un grosso ripiano di travertino dove una volta sdraiati ti scrostano violentemente e energicamente tutta la rumenta che hai addosso, e dopo una bella secchiata di acqua fredda ti danno pure un paio di schiaffoni ben assestati sulla schiena, roba da uomini duri, forse!

Alla fine come da consueto un bel tè ci aspetta fuori, dove spauriti turisti inglesi e americani stanno per entrare a farsi sbattere per bene , accennano sorrisi di condivisione ma in effetti non sembrano poi così a loro agio.

Se sai osservare scovi in Istanbul i due aspetti di questo paese, se non ti lasci trasportare dell’aspetto turistico e dozzinale, riesci a intravedere piccoli scorci di antiche tradizioni, usanze e abitudine antiche di secoli, in pieno contrasto, ma anche convivenza , con l’era moderna, con una città che oramai ha l’aria Europea ma che racchiude in se storie e leggende uniche.

Il giorno della partenza per l’entroterra Turco è denso di aspettative, special modo per l’aspetto meteorologico che fino ad adesso ci ha un po’ deluso.

Carichiamo le moto a bestia, sembriamo due profughi più che motociclisti, ma sappiamo che tra poco passeremo il ponte di Galata sul Bosforo che ci traghetterà dall’Europa all’Asia, che per me ha un sapore speciale in quanto da quel momento potrò dire di aver toccato tutti e 5 i continenti.

E dopo qualche indecisione nel riuscire a raggiungerlo, trovandoci più volte sotto di esso o alla sua sinistra o alla sua destra , riusciamo a cavalcarlo.

Pensare che fu Leonardo Da Vinci il primo a proporre di costruirne uno sul corno d’oro, mettendo addirittura la sua testa in gioco come garanzia della sua riuscita, ma poi il sultano non accettò credendolo impossibile.

Nel 2002 i Norvegesi invece dimostrarono che sarebbe stato possibile il progetto di Leonardo proprio costruendone uno basandosi sui suoi progetti.

Devo dire che è solamente un ponte probabilmente, ma oltre a rimanere colpiti dalle sue dimensioni ciò che ti emoziona maggiormente è il sentire dentro ciò che il suo attraversamento significa, un passaggio in un altro mondo, in un’altra cultura.

Lo attraverso in piedi sulle pedane della moto, è mattino presto, la luce è perfetta, la vista di Istanbul eccezionale, lo scorrere dell’asfalto veloce ma inesauribile.

Alla fine del ponte però ci scontriamo con la realtà burocratica di tutti i giorni, dobbiamo acquistare una carta ricaricabile per poter prendere l’autostrada del costo di ben 45 euro a testa, e la procedura è stata anche lunga e sicuramente non agevolata da un caldo torrido.

Alla fine si parte, direzione Ankara e poi Kappadokia.

Le strade si srotolano come lunghe lingue nere, con rettilinee di decine di km, lunghe curve e poi ancora rettilinei, la musica nelle nostre cuffie ci aiuta a far passare le ore e ci accompagna nel tragitto, riuscendo in qualche modo a rendere il tutto ancor più piacevole,come se il paesaggio fantastico non lo fosse già abbastanza.

Dopo aver passato Ankara, la cui periferia è uno dei paesaggi più tristi, alienanti e demoralizzanti che abbia mai visto.

Una serie di case e palazzi impilati come lego a gruppi definiti e standardizzati, tali da far pensare più a un ghetto che a un quartiere per persone libere.

La attraversiamo velocemente puntando le forcelle verso l’Anatolia centrale, verso verdi pascoli e i laghi centrali.

Il lago Tuz Golu alla nostra destra ci cattura gli occhi che ad una prima rapida occhiata sembrano colti da qualche strana allucinazione, mentre poi quando la strada si fa più radente ai suoi bordi ci rende possibile capire che il lago e di un bianco/rosa scintillante.

E’ un lago salato, dalla superficie enorme lungo 80km e largo 50km, profondo pochi metri sul quale non vi è nulla se non qualche cicogna a sorvolarlo o qualche pecora o vacca a lambirlo in cerca di erba verde.

La luce radente del tramonto in arrivo contribuisce a dargli un aspetto alieno e lontano, per decine di km non facciamo che osservarne la superficie piatta e quasi miracolosamente riflettente, purtroppo si sta facendo buio e il tempo ci traina in avanti verso la nostra destinazione, Goreme, nella Cappadocia.

In diversi momenti avrei voluto/dovuto fermarmi a realizzare qualche scatto, delle donne sedute a terra vicine un carretto di legno a mangiare dei meloni verdi mentre osservavano il tramonto, e un pastore anziano che accompagnava il suo gregge proprio in riva al lago, avrebbero meritato una pausa, un approfondito studio sulle lunghe ombre che la nostra stella proiettava a terra, ma viaggiare in moto vuol dire anche questo, quindi va bene così, porterò certe immagini dentro di me per sempre.

La Cappadocia e alle porte, una regione nel cuore dell’Anatolia centrale dall’aspetto lunare, nella quale una piccola cittadina dal nome di Goreme ci aspetta con le sue case ricavate nella roccia, dallo strano nome di Camini delle Fate.

Oramai è buio, curva dopo curva cerchiamo di non perderci ,anche perché oramai stanchi e sporchi agogniamo il letto e soprattutto una lunga doccia, dopo qualche cartello e qualche deviazioni all’uscita di una curva ci troviamo davanti uno spettacolo unico al mondo, estremo, singolare, inimmaginabile, nessuna foto, nessun racconto può mai rendere l’idea dell’emozione che la città di Goreme può darti alla sua visione.

Le luci calde sparse per la città e puntate verso le rocce adibite a case addirittura dal IV secolo a.C. ti lasciano inebetito, l’intera regione si è tramutata in un incredibile universo rupestre con centinaia e centinaia di costruzioni adibite a chiese, cappelle, monasteri.

Non possiamo far altro che trovare un albergo e riposarci per affrontare al meglio questo nuovo mondo a noi sconosciuto.

La mattinata è fresca e densa di idee su cosa fare e vedere, ma come questo viaggio ci ha insegnato fino ad ora, non puoi mai sapere cosa ti aspetta dietro a una curva e così è stata anche questa volta.

Mentre girovaghiamo in giro per trovare un buon posto dove lasciare le moto per andar a visitare il museo a cielo aperto di Goreme ecco che un ragazzo ci indica uno spiazzo, ma lo fa in italiano.

Tom si era allontanato e nel fra tempo io mi intrattengo a parlare con lui, si chiama Sinan, parla un ottimo italiano ed è una persona affabile e gentile.

Scopro che è la guida turistica dei giri in moto che organizzano le conosciute agenzia di viaggio on line per motociclisti Raid Inside e Moto Orizzonti., non poteva quindi andarci meglio.

Si offre di portarci a fare un giroingiro, tralasciando le turistiche e affollate mete delle decine di pullman che vediamo in giro, ma al contrario di mostrarci siti interessantissimi e unici.

La prima meta è la più antica chiesa scavata nella roccia di tutta la Cappadocia, risalente al XII secolo, priva di decorazioni ma incredibilmente affascinante e raggiungibile in moto attraverso passaggi su sabbia e arbusti taglienti.

La seconda invece è davvero qualcosa di unico, una piccolissima chiesa scavata in un camino delle fate, chiusa al pubblico poiché non ancora restaurata e quindi ancora originale nella sua veridicità, dobbiamo chiedere le chiave del cancello ad una famiglia che vive li vicino e che ne custodisce gelosamente l’ingresso.

Al contrario delle chiese del museo questa non ha colori sgargianti e artificiosi ma sbiaditi e anche danneggiati dagli autoctoni nel tempo, in quanto qui hanno vissuto molte famiglie che l’hanno adibita a loro dimora abituale, tagliando le colonne che limitavano lo spazio e cancellando le immagini degli occhi dai volti di Gesù, apostoli e santi in quando nella religione mussulmana tale rappresentazione non è permessa.

Siamo solo noi seduti dentro questa chiesa, in un silenzio surreale, provando a immaginare chi è passato attraverso queste piccole mura, dai primi Cristiani che le hanno scavate con attrezzi rudimentali con chissà quali fatiche, hai pittori che le hanno decorate con colori così vivi ma così naturali o biologici come si direbbe oggi, ed infine a chi l’ha abitata fino a pochi anni fa, vivendo e convivendo quotidianamente con secoli di storia.

Ci avviamo verso le scalette dell’uscita voltandoci ancora una volta ad osservare qualcosa che probabilmente non vedremo mai più ma che ci ha così affascinato che non scorderemo mai.

Un giro fra i camini delle fate in una zona isolata e sorprendente ci permette di rinfrescarci un attimo ad un improvvisato e inaspettato chiosco di spremute di arance tenuto da un ragazzo e dai suoi due figli che ci guardano un po’ stralunati con le nostre moto.

Dopo tutto questo ci aspetta una bella mangiata in un posto a prima vista tutt’altro che tipico, sembra un autogrill, ma che poi si rivela essere frequentato solo dal gente del posto in pausa pranzo e non da turisti in cerca di “cose tipiche”, e in effetti mangiamo cose squisite.

Sinan è una persona eccezionale, ci racconta con veemenza della bellezza della sua terra, della voglia di costruire un albergo usando solo risorse del luogo, della forza del suo popolo e della voglia di far conoscere la sua cultura a tutto il mondo, e noi non possiamo che condividere tutto questo.

Nel pomeriggio realizzo un sogno forse covato da bambino leggendo tanti libri, percorrere la via della seta in moto, una piccola porzione certamente ma pur sempre rievocativa di storie e racconti leggendari.

Proprio su questo tragitto abbiamo l’occasione di assistere, in un antico rifugio per viaggiatori del 1492 interamente in pietra, una danza mistica e antica di 800 anni eseguita da discepoli di alcune confraternite islamiche sufi, i Dervisci.

Il rituale prevede una danza rotatoria dove la mano sinistra è abbassata verso la terra mentre la mano destra è girata verso il cielo. Il danzatore diviene così il medium tra la terra ed il cielo. Queste danze, secondo i Dervisci Rotanti, sono il loro modo per allontanare la mente da ogni contatto con le cose terrene e per far si che le loro anime si allontanino dai corpi così da potersi riunire a Dio.

E’ un rituale che colpisce molto, la musica in special modo ti porta in uno stato di pace, di tranquillità, la rotazione di queste ampie vesti bianche ti spingono a riflettere su un concetto molto semplice e caro a tutti i popoli del mondo,cioè che tutto gira.

Non è una rappresentazione per turisti come quelle che hanno cercato di venderci nei ristoranti di Istanbul e un po’ ovunque, è reale, infatti ci proibiscono qualsiasi rumore, applauso, fotografia o filmato, questo un po’ mi dispiace ma è giusto così.

Il ritorno in albergo di notte in mezzo alla desolata Cappadocia con piccole luci a illuminare i minuscoli villaggi è anche esso qualcosa di mistico per noi, andiamo a dormire arricchiti sicuramente di qualcosa di speciale e soprattutto com la consapevolezza che l’indomani mattina sarà il momento di portare a termine la meta che ci eravamo prefissati, La Mongolfiera!

La sveglia è alle quattro e trenta, un orario a me sconosciuto normalmente, anche se poi ringrazierò me stesso per lo sforzo fatto.

Ci vengono a prendere i ragazzi della compagnia delle mongolfiere e ci portano sul posto.

Proprio quando arriviamo stanno gonfiando con l’aria calda del bruciatore la mongolfiera, e con nostro immenso stupore notiamo che di mongolfiere ce ne sono a decine, sparse in tutta la vallata, un immagine a dir poco surreale.

Saltiamo dentro il cesto e con pochi gesti degli addetti ci ritroviamo a qualche metro da terra liberi di sorvolare la Cappadocia.

L’emozione è enorme, per tanti anni ho visto documentari su tizi che giravano il mondo in mongolfiera, che attraversavano l’Africa o l’Australia, immaginando quando e se un giorno sarebbe toccato a me, e ora stava succedendo.

Non è facile descrivere le sensazioni in quando è diverso da tutto ciò che uno possa immaginare, poiché la salita è lenta, non adrenalinica come con un aereo, o la discesa come con un paracadute.

Tocchiamo le rocce con le mani e sfioriamo le cime degli alberi con la cesta, per poi salire sempre più su a centinaia di metri di altezza, il posto ideale per scattare centinaia di foto naturalmente.

Dopo qualche ora comincia la discesa e devo dire che non vedo l’ora di avere di nuovo la possibilità di salire sopra una mongolfiera, ovunque ce ne sia una.

La mattina parte bene, almeno meteorologicamente parlano poiché per una volta minacciose nuvole non ci aspettano al risveglio.

La direzione è quella dei laghi centrali per poi arrivare fino alla famosa località di Pammukkale e della città romana di Hierapolis.

Il tragitto è uno dei più belli che abbiamo percorso, per circa la metà del tempo.

Attraversati i laghi le nuvole si fanno minacciose e preventivamente indossiamo le tutte antipioggia, all’inizio è una pioggia indifferente ma poi su una lunga strada che costeggiava vasti terreni coltivati si fa dura e intransigente.

Notiamo piccoli carretti trainati da asini indistruttibili con a bordo agricoltori e le loro mogli che cercano di ripararsi sotto un telo di plastica, anche noi cerchiamo riparo in uno dei rari benzinai che incontriamo che molto gentilmente ci offre tè caldo e dei panni per asciugare moto e parabrezza, davvero gente ospitale e disponibile i Turchi.

Si riparte, l’acqua si calma e il sole fa timidamente capolino, arriviamo in serata a Pammukkale e troviamo un albergo con un simpatico tipo che cerca di parlare uno stentato e incomprensibile Italiano, dopo che un altro soggetto in moto aveva cercato di venderci una stanza per 10 euro chissà dove e soprattutto chissà in quali condizioni, ma da buoni Italiani ci abbiamo messo poco a mandarlo via.

In effetti abbiamo notato per tutto il viaggio che i venditori, i mercanti e tutti coloro che cercano di venderti qualcosa con noi Italiano insistono poco, comunque molto meno che con gli stranieri.

L’albergatore ci fa entrare le moto praticamente dentro il ristorante, passando in mezzo a gente che cenava, fantastico per noi che non vogliamo mai lasciarle sole in strada.

Entriamo in stanza, poggiamo tutto e apriamo la finestra, non ci eravamo resi contro che eravamo proprio avanti alle famose cave di travertino di Pammukkale(dal latino Castello di Cotone), qualcosa di indescrivibile, una sorta di cascata bianca come la neve, dalle dimensioni inverosimili, nel bel mezzo della cittadina.

Si va a dormire che domani ci aspetta una fantastica giornata.

Sveglia presto per arrivare prima delle decine di autobus turistici che invadono la città a metà mattinata.

Paghiamo l’ingresso al sito e ci dirigiamo verso la città di Hierapolis, una delle meglio conservate del mediterraneo con un teatro romano enorme e ben conservato anche esso.

Le immagini della città ricostruita ti lasciano a bocca aperta, deve essere stata qualcosa di spettacolare, posata su un altopiano che dominava su tutto praticamente, con un lunghissimo viale che la attraversava, con diversi teatri, monasteri, colonnati e splendide dimore.

E’ un sito enorme, talmente vasto da perdercisi dentro, ovunque si inciampa in colonne, capitelli e rovine sparse ovunque per migliaia di metri quadrati, l’indifferenza con cui spesso le si scavalca, nonostante i 2000 anni di storia, da l’idea della loro vastità.

Ci avviamo verso il bordo dell’altopiano e qui la cava di travertino come le sue acque termali ti colpiscono come un pugno in faccia, un po’ come attraversare il centro storico di Roma, girare dietro il Colosseo in piena estate e trovarsi davanti una distesa di ghiaccio e acqua interminabile.

Al nostro arrivo non c’è quasi nessuno per fortuna e dopo un iniziale sbigottimento in due minuti siamo già in mutande immersi dentro i fiumi di acqua calda che scavano la roccia bianca come il latte, in effetti la città era stata costruita qui proprio per la presenza di queste cave.

Da esse i Romani potevano trarre il travertino per costruire, ma soprattutto benefici dalle acque termali.

Rimarremmo lì tutto il giorno, anche se l’arrivo dei turisti rende tutto meno confortevole e rilassante, tutti ci imitano infilandosi nei corsi d’acqua, così dopo un paio di ore decidiamo di avviarci verso l’albergo e ripartire, dopo uno delle esperienze più assurde e strane della nostra vita.

Fa caldo, molto caldo, e la nostra destinazione è la città di mare Selcuk, ai cui piedi c’è Efeso, capitale della provincia romana in Asia agli inizi del primo millennio, una delle città commerciali romane più importanti.

Il viaggio inizia bene , i km per una volta sono pochi e la strada e noiosamente dritta per lunghi tratti, anche se attraversiamo sempre posti incredibili dai colori unici che cambiano in continuazione.

Incontriamo anche due motociclisti Tedeschi, ma Turchi di origine, che sono venuti qui per trovare le proprie famiglia.

Viaggiano su due sportive carenate giapponesi, solo a vederli soffriamo per loro, completamente intutati con completi in pelle neri e casci integrali anch’essi neri, una follia.

Facciamo due chiacchiere e ci offrono un’immancabile tè, loro hanno spedito le moto in treno a Istanbul e ora torneranno in Germania piano piano dopo essere stati al mare sulla costa sud.

Ci salutiamo e si riparte, la strada sale e infine avanti a noi si apre un paesaggio marino immenso, la città di Selcuk è una rinomata località di villeggiatura sul mar Egeo.

In lontananza vediamo navi da crociera attraccate al porto praticamente dentro la città, navi enormi, alte 20 piani che così grandi noi non le avevamo mai viste.

In effetti la città è invasa dai turisti, qui si attracca, si scende, si spende e si mangia e poi si riparte.

Dopo giorni di isolamento dal mondo non ci dispiace un po’ di vita e di sano casino.

Troviamo un albergo ricavato un Caravan Serrajo del 1500, cioè una struttura adibita a dare ricovero ai carri durante i loro lunghi tragitti verso o di ritorno dall’oriente, molto bella e ben tenuta , dove la sera preparano spettacoli alla Turkish Night, un po’ troppo turistici e kitsch per noi che preferiamo girare la città alla ricerca di qualcosa di più semplice e casereccio, che puntualmente, e non so se a fortuna o merito, troviamo sempre.

La mattina seguente percorriamo qualche km per arrivare alla città Romana di Efeso.

Arriviamo presto, e questo è un consiglio per chiunque visiti siti archeologici e di interesse in Turchia poiché spesso fra un posto e l’altro non c’è molto da vedere per il turista medio, quindi qui i pullman viaggiano tutta notte per arrivare a destinazione, scaricare centinaia di assordanti e recalcitranti turisti e poi ripartire per la prossima meta.

Arrivano presto abbiamo qualche ora di tregua, possiamo ammirare il teatro romano e soprattutto la biblioteca di Efeso in tutto il suo splendore, percorrere le vie della città tra colonnati e antiche dimore di 2000 anni fa.

Sicuramente per noi Italiani l’effetto è diverso forse perché abituati a tanta storia e a tante rovine, ma qui se ci si ferma a riflettere la cosa sta proprio nella lontananza in cui queste costruzioni erano poste, se ci si ferma a immaginare gli sforzi per costruirle in mezzo al nulla, e soprattutto se si immagina il via vai di genti di tutte le razze che dovevano solcare le vie lastricate di questa città commerciale.

L’arrivo dei turisti, con tutti i loro lati negativi allo stesso tempo ti fa rivivere forse quelle situazioni, migliaia di persone che vanno su e giù per la via principale della città, si ferma, chiacchiera, rumoreggia e discute, un po’ come accadeva appunto secoli e secoli fa.

Il sole sale alto e il caldo comincia a stonarci, ci avviamo verso le moto e imbocchiamo le vai del ritorno in direzione Cannakkale, una città portuale dove un traghetto ci riporterà dall’Asia all’Europa.

Il tragitto è breve ma di qualità, anche se come oramai siamo abituati dall’inizio del viaggio, su un passo di montagna un acquazzone di quelli rapidi e veloci non ci da il tempo neanche di infilarci le tute antipioggia.

Pazienza, ci asciughiamo andando in moto e raggiungiamo proprio al tramonto la città di Troia.

L’emozione è forte, nel sito archeologico praticamente non c’è quasi più nulla, ma la rievocazione di antichi fasti, battaglie, storie e leggende è talmente forte che ci sediamo un attimo ad ammirare il sole che scende sul mare proprio alle spalle della città.

Percorriamo gli ultimi km e dopo aver trovato un albergo proprio sul lungomare affollato e turistico di Cannakkale e andiamo a dormire.

Il giorno dopo saliamo sul traghetto che sembra più un piccolo cargo con gente di ogni genere e dove, una volta sulla costa Europea puntiamo verso la frontiera Turca.

Ci guardiamo indietro mentre ci allontaniamo, vediamo le grosse bandiere Turche sventolare a distanza mentre puntiamo verso le autostrade dannatamente prive di benzinai della Grecia.

Ora capiamo perché abbiamo incontrato diversa gente che era la seconda volta che tornava in Turchia, è un posto meraviglioso, a cavallo tra modernità e tradizione, le persone ci hanno accolto come non pensavamo, e anche noi un giorno riattraverseremo questi posti sicuri al 100%!

Sulla strada di ritorno facciamo ancora piacevoli incontri e dormiamo in una vitalissima e incredibilmente giovane città Greca, Salonicco.

Sulla strada per Igoumenitsa ci dobbiamo fermare sotto un ponte per la quantità di pioggia che sta scendendo, a memoria d’uomo non ricordo di essermi mai fermato in moto per la troppa pioggia che scendeva, comunque sotto il ponte incontriamo anche altri motociclisti un po’ indecisi sul da farsi e molto piacevolmente un furgone del servizio stradale Greco ci si mette dietro e con i lampeggianti accessi non va via fino a quando non smette di piovere e noi non ripartiamo.

Arriviamo a Igoumenitsa e scopriamo che il traghetto è stato cancellato ma ci è andata anche meglio poiché ci trasferiscono su di un altro più moderno, con grandi stanze e soprattutto che invece di attraccare a Brindisi ci lascerà a Bari.

Il viaggio oramai è finito.

Ci portiamo dentro e ci porteremo per sempre un esperienza unica.

Molte persone prima della nostra partenza ma anche al ritorno ci chiedevano perché andavamo in Turchia, con espressione come “ma non è pericoloso?”o cosse del genere se non peggiori e quasi sempre mosse da grande ignoranza sui mussulmani.

Io invece dico che probabilmente è proprio per merito della loro religione che questo popolo è incredibilmente ospitale, disponibile e soprattutto semplice d’animo.

Più viaggio in effetti e più mi rendo conto che la gente più ha e più è saccente e gelosa della propria vita, al contrario chi meno possiede è aperta e disposta e condividere anche cose semplici o quel poco che può offrirti, senza secondi fini.

Ed ora la mente vola già verso altre mete, sicuri di una cosa, che per capirlo il mondo e soprattutto ciò che esso contiene lo si deve vedere con i propri occhi e assaporare con i propri sensi.

Alla prossima.

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