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IL GIRO DEL MONDO DI UROS E METKA – Il Cammello di Mandello

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Il Cammello di Mandello

di Uros Blazko

Introduzione di Sostene Chiaranda

Con questa prima puntata, iniziamo una serie di racconti, relativi ad un viaggio molto particolare fatto da amici Sloveni; Uros Blazko e sua moglie Metka Salehar.
A seguito di un buon guadagno in Borsa, Uros decide che questi soldi li “userà” per un viaggio in giro per il mondo a bordo di una Moto Guzzi.
Uros viene aiutato da dei “supporters” nell’acquisto di una Moto Guzzi Quota 1100 ES, ed inizia i lavori di allestimento del motociclo per affrontare il suo viaggio. Quindi prepara anteriormente dei supporti per due taniche da 20 litri cadauna, una per la benzina ed una per l’acqua, che poi una volta superato il Deserto del Sahara saranno eliminate, così da poter spostare il carico della moto sull’anteriore, e monta posteriormente una coppia di borse in alluminio di notevole capacità.
Per quanto riguarda il primo continente, e cioè l’Africa, il viaggio ha toccato i seguenti Paesi:
Marocco, Mauritania, Mali, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Camerun, Repubblica CentroAfricana, Congo, Uganda, Kenia, Tanzania, Malawi, Zambia e Zimbabwe.
Il viaggio ha inizio il 5 settembre 1999, e mentre nell’emisfero nord dall’autunno si passava all’inverno, in quello sud stava nascendo la primavera. Basta girare nel globo alla giusta velocità ed ecco che possiamo viaggiare in un’estate eterna!
Siamo in Marocco, il nastro nero d’asfalto ci porta in uno spazio immenso di sabbia giallastra, il sole si sposta nel cielo così in alto che non ostacola lo sguardo, ma è così forte e lucente da dare l’impressione che splenderà per sempre!
L’Atlantico si trova alla nostra destra, il Deserto ci circonda, mentre la Guzzi ingoia i chilometri attraversando il Marocco verso Dakhla, città nell’estremo sud del Marocco e luogo dove i viaggiatori si radunano prima di attraversare il Deserto del Sahara.
Da qui si procede in convogli che vengono scortati per motivi di sicurezza da militari dell’Esercito Marocchino. Ma questi ultimi hanno anche il compito di evitare che viaggiatori “particolari” abbiano dei contatti con gli abitanti di quella che una volta era una Colonia Spagnola, e che ora è il Sahara Occidentale. Essi lottavano per la liberazione ed ora vivono confinati, nei pressi delle rare Oasi nel Sahara. La pista che stiamo percorrendo è minata a destra e a sinistra.
Il convoglio parte due volte la settimana e si perde un giorno intero solo per procurarsi il lasciapassare e i permessi dell’esercito e della dogana marocchina. Il mattino seguente i militari controllano tutti i documenti e organizzano la colonna dei veicoli; la partenza avviene a mezzogiorno, e quando arriviamo al confine con la Mauritania è già buio. Ci portano a dormire in una fortificazione militare composta da poche costruzioni vuote e prive di arredamento, e al chiarore dei fuochi e al canto dei Mauritani ci addormentiamo in un sonno profondo.

 

Il risveglio non è stato dei migliori: qualcuno mi ha rubato durante la notte la borsa da serbatoio della moto. Dentro la borsa c’erano degli attrezzi e le cartine stradali, cose che per il ladro non avevano nessun valore, ma per me erano importantissime, e malgrado la denuncia fatta al Comandante del convoglio e la susseguente perquisizione fatta sui mezzi del convoglio stesso, non si trovò niente. Disperati per la perdita del materiale, ripartiamo alla volta della Mauritania, dove incontriamo per la prima volta la sabbia e per attraversare il confine bisogna oltrepassare un alto mucchio di ghiaia.
Le tre motociclette del convoglio superano l’ostacolo senza problemi, mentre i fuoristrada hanno bisogno di una spinta. Proseguiamo per circa sessanta chilometri fino alla città di Nouadhibou, dove termina la scorta del convoglio e ognuno è lasciato libero di proseguire da solo.
La Mauritania è un Paese poco sviluppato e quasi privo di turismo; la maggior parte della popolazione vive nel sud del Paese, dove si dedica all’agricoltura vicino al fiume Senegal.
Le città sono composte da case basse col tetto piano, e sono collegate da ampie vie raramente asfaltate, e dove terminano le case terminano le vie e comincia la sabbia. La gran parte degli abitanti della Mauritania sono Mauri, discendenti dagli Arabi e dai Berberi.

 

E’ mezzogiorno e a causa del calore tutti si ritirano all’ombra, così ci fermiamo anche noi e mentre ci riposiamo scambiamo alcune parole con Abdullah, che ci dice: “Noi rispettiamo ogni fede, anche gli infedeli”, ma dopo pochi minuti Abdullah ci vuole convertire alla fede di Maometto. Ad un certo punto egli incomincia a spiegare i diritti delle donne musulmane, e allora Metka si alza e se ne va, e il nostro colloquio si interrompe bruscamente.
E’ giunta l’ora di attraversare il Deserto del Sahara; nel convoglio ci sono dei commercianti con degli autocarri carichi di vecchie automobili che devono vendere in Senegal delle auto e oltre al nostro Quota ci sono anche altre due moto.
Subito c’è una discussione per il costo della guida:“Duecento Franchi Francesi per ogni veicolo sono davvero troppi!” dice uno dei motociclisti; “La guida guadagna più di me!”.
“Non è troppo per chi apprezza la propria vita!” gli risponde il suo passeggero, e gli ricorda cos’era successo la volta scorsa, quando hanno tentato di attraversare il Deserto da soli: ad un certo punto avevano perso l’orientamento, e avevano girovagato per due giorni, l’acqua era finita ed erano in preda alla disperazione quando per caso furono trovati da un indigeno che passava di lì!
Fadel era la migliore guida, e in fondo cos’erano duecento Franchi in confronto alla vita?
Con l’altra moto (un’Honda Africa Twin) c’è Fred, un Sudafricano che ritorna a casa dall’Inghilterra, con cui mi accordo per fare un viaggio insieme in futuro.
Ci aspettano cinquecento chilometri di sabbia per attraversare il Deserto del Sahara, e quindi decidiamo di partire l’indomani di buon mattino.
Si parte, ma i problemi cominciano immediatamente. La nostra Guzzi sovraccarica di bagagli e delle due taniche di benzina e d’acqua affonda nella sabbia, non riesco a farla andare dritta.
Fadel ci dice che la moto è troppo carica e con questa andatura rallentiamo tutto il convoglio, cosicché decidiamo di caricare il bagaglio, le taniche e anche Mekta su un’auto.
Alleggerita la moto e superati i sessanta chilometri all’ora, la moto si solleva sulla superficie della sabbia e ora sembrava di volare.
Le auto, quasi tutte molto vecchie, con il vento che soffiava forte da dietro rispetto al senso di marcia cominciano a surriscaldarsi, e allora bisogna fermarsi e girare le auto verso il vento con il cofano aperto, in modo che si raffreddi il radiatore.
Fadel, molto preoccupato, ci raccomanda di restare vicini per aiutarci nei frequenti insabbiamenti.

 

Con tutti questi inconvenienti, alla fine di questa prima giornata nel Sahara abbiamo percorso solo un terzo del tragitto. Mangiamo qualcosa e ci sdraiamo sfiniti dentro ai sacchi a pelo, addormentandoci sotto il chiarore delle stelle.
E’ mattino, ci svegliamo coperti dalla sabbia portata dal vento, e dopo una rapida colazione si parte per compensare il ritardo accumulato il giorno prima. Tutto il giorno a guidare, spingere veicoli insabbiati, riparare i guasti sulle auto dovuti all’alta temperatura, e alla sera finalmente il riposo, mangiando dei grossi pesci acquistati sulla costa Atlantica, e poi via dentro il sacco a pelo.
Il terzo giorno di questa dura attraversata del Deserto del Sahara ci ritroviamo a viaggiare sulla costa Atlantica, ma in una zona coperta di aréna, (una sabbia finissima che quando si bagna diventa molto insidiosa), con da un lato il mare e dall’altro alti mucchi di aréna. Siamo costretti a passare prima delle due del pomeriggio, prima cioè che salga l’alta marea. Al nostro passaggio su questa “trappola di fango” notiamo che alcuni non hanno fatto bene i conti, e l’alta marea li ha colti di sorpresa: i loro mezzi sono intrappolati e sommersi per metà da questo impasto di sabbiolina ed acqua. Sto seguendo le auto e gli autocarri, ma correndo dietro di loro vengo tradito dalle profonde impronte lasciate dai mezzi che mi precedono e non riesco neanche più a contare le volte che io e la mia Guzzi siamo finiti a terra. Fadel si accorge di questo e mi fa andare in testa alla colonna. Ora mi trovo a viaggiare a centoventi chilometri orari come un fulmine, e la Guzzi lascia solo delle leggere impronte sull’aréna bagnata; dal mare mi arrivano addosso gli spruzzi d’acqua e vedo stormi d’uccelli spaventati che fuggono verso il mare.
Fred con la sua Honda mi insegue non senza difficoltà, e mi raggiunge appena in tempo per avvertirmi che al prossimo bivio devo svoltare a sinistra, è mezzogiorno e davanti a noi scorgiamo tre antenne molto alte: sono la conferma che siamo vicini alla capitale della Mauritania, Nouakchott. L’attraversamento del Sahara è durato due giorni e mezzo.
A questo punto lasciamo il convoglio e in compagnia di Fred ci dirigiamo verso il Mali, ma ormai sta sopraggiungendo la sera e decidiamo di accamparci. Il tempo promette un temporale di quelli tosti: i fulmini solcano il cielo, ma poi -per fortuna- in pochi minuti il vento spazza via tutto e non cade neanche una goccia di pioggia. Seduti davanti al fuoco, Fred si conferma un profondo conoscitore dell’Africa, dandoci una serie di consigli, e poi ci dice: “Quando accamperete nel sud dell’Africa dovrete stare attenti che il fuoco non si spenga: gli animali feroci li potete tenere lontani solo con il fuoco, non hanno paura di nient’altro. Il sistema migliore da adottare è quello di sistemare dei rami secchi attorno all’accampamento, in modo da accenderli nel momento che vi doveste trovare in pericolo”. Improvvisamente Fred fa un sobbalzo, prende un ramo ardente e uccide uno scorpione che stava passeggiando tra i miei piedi; solleviamo la coperta dove ci siamo sdraiati e ne troviamo altri tre! Fred uccide anche questi e ci dice: “Quelli piccoli sono velenosi come quelli grandi, e siccome si spostano sempre in gruppetti, se non li uccidi tutti è meglio che sposti l’accampamento”. Si riparte e per tre giorni, viaggiamo sui bordi delle piste allagate, è appena finita la stagione delle piogge e dove il ciglio della pista non è percorribile lottiamo con sabbia, fango e buche enormi, ma il confine con il Mali dev’essere vicino. Arriviamo in un villaggio, tra i muri di case di fango, arriviamo nella “piazza centrale” e siamo subito accerchiati dagli abitanti del villaggio, alti di statura e dalla pelle nera come il carbone, che prima ci guardano e poi ci toccano con curiosità. Dopo qualche istante, mi faccio coraggio e chiedo: “Mali?” e loro mi dicono di no, e mi fanno un cenno in direzione di una montagna; dopo pochi minuti sulla pista resa scivolosa dalle piogge la moto perde aderenza e scivolando si ferma giusto davanti all’Ufficio Doganale del confine con il Mali.
Ma chi ha chiamato l’Africa il “Continente Nero”? Io e Metka lo abbiamo trovato rosso! Rosso per il colore del sole verso sera, rosso per la pelle bruciata, rosso per la laterite che quanto è bagnata ricopre i nostri vestiti di fango rosso e quando si secca si volatilizza nel vento formando nuvole rosse. L’unica cosa non rossa è la giungla, con le sue piante verdi e la strada asfaltata, che la pioggia riesce a malapena a lavare.
Siamo sul valico di confine di Ekok, che divide la Nigeria dal Camerun; pensavamo di sbrigare velocemente le pratiche per attraversare il confine, invece le guardie Nigeriane ci hanno fatto perdere tutta la giornata. Quando siamo arrivati al confine con il Camerun, la guardia camerunense ci dice: “Ti è piaciuta la Nigeria?” “Ma…”, io non so cosa rispondere, e lui sbattendo i timbri sui nostri passaporti: “Il Camerun ti piacerà di più!”.
Ripartiamo per addentrarci in Camerun, l’asfalto sparisce e ci ritroviano a viaggiare in una pista fangosa che a volte è profonda anche più di un metro: a malapena riesco a vedere al di fuori di essa.

Il Cammello di Mandello

Mentre guido a fatica, perché la moto scivola da tutte le parti, penso a come farò ad uscire da questa “specie di vasca”. Ci fermiamo al primo villaggio e seduti su dei tronchi ci beviamo due birre calde; nel frattempo si avvicina un giovane, ci saluta molto cordialmente e cominciamo a parlare con lui. “Da qui fino a Mamfe ci sono sette villaggi, non abbiate paura: sarete accolti bene!” ci dice, e noi gli chiediamo: “ Com’è la strada?” “Siete fortunati, la stagione delle piogge è terminata due settimane fa! Prima era impossibile spostarsi”.
Salutato il giovane, ripartiamo in direzione di Mamfe, e lungo la strada troviamo tanti gruppi di uomini che camminano in fila indiana ed hanno in mano dei macete, ma fortunatamente ci salutano alzando la mano non “armata”. Dopo un po’ giungiamo in un punto molto difficile: Metka scende dalla Guzzi, e camminandomi davanti mi indica i punti dove passare. Tutto d’un tratto la moto comincia a scivolare lateralmente: il cavalletto urta il bordo della pista, io perdo l’equilibrio e finisco insieme alla moto con le ruota all’aria dentro al fosso profondo due metri! Quando ho riaperto gli occhi, ho capito di essere stato molto fortunato, perché la moto cadendo sottosopra si è “appoggiata” sul manubrio e sul portapacchi colmo di bagagli, e questo ha fatto sì che rimanesse dello spazio sotto alla moto permettendomi di uscirne indenne quasi miracolosamente.
I danni alla Guzzi sono minimi in confronto al “volo” fatto: il parabrezza è a pezzi, il manubrio storto, ma tutto il resto è OK. Adesso il problema è tirar fuori la moto da questo maledetto fosso!
Qui dicono: “In Africa non si è mai soli….” e anche stavolta è così: nel giro di qualche minuto è arrivata gente del posto, e così abbiamo rimesso in carreggiata il “Mulo di Mandello”. A questo punto bisognava festeggiare, e così, insieme alla gente che ci ha soccorso, siamo andati al vicino villaggio di Seyumojock ed abbiamo offerto loro da bere.

Il Cammello di Mandello
Siamo al tardo pomeriggio: il cielo è scuro e coperto di pesanti nuvole, e nell’indecisione se ripartire o no stiamo chiaccherando con Celestine, autista di un vecchio camion Unimog, diretto anche lui a Mamfe. Cosa trasporti non lo so, però il carico è pesante, in più sul cassone ha tre ruote di scorta e alcune persone. Io credo che il peso superi le tre tonnellate.
Lui mi dice: “Gli affari sono affari! Se le balestre si rompono, le sostituirò.” All’improvviso sopraggiunge un auto: è l’Ispettore delle strade, e ci dice che se vogliamo partire lo dobbiamo fare subito, perché altrimenti chiuderà la sbarra e non si potrà transitare per la strada finchè non smetterà di piovere. Questo lo fanno per evitare che la gente si trovi senza aiuto, impantanati con le auto. In un attimo due autovetture e Celestine con il suo vecchio camion spariscono nel buio, mentre Metka ed io decidiamo di rimanere. La guida notturna è pericolosa, la moto ha solo un fanale e la luce in queste situazioni non è sufficiente, i buchi formano delle ombre tremende sulla strada e una buca potrebbe causarci un altro incidente. Per oggi uno è più che sufficiente.
Durante la notte in una specie di Chiesa del villaggio è cominciata una strana cerimonia: la voce del Predicatore si espande tra le capanne del villaggio: “Più forza” urla, “Più fede, per unirci con il Redentore” grida in una misto di Inglese e non so di quale altra lingua. Gli abitanti del villaggio presenti rispondono alle sue preghiere, e spesso cantano una canzone monotona, poi un’altra predica ed un’altra canzone. Fuori incomincia a piovere, e ci addormentiamo in preda a degli incubi. E’ mezzanotte, sono svegliato dalle urla di donne e dal rullare dei tamburi. Il Predicatore che urlava ancora più forte: “Più forza! La salvezza è nelle mani del Redentore!” A questo punto non resisto: mi alzo e mentre mi metto le scarpe Metka mi supplica di non andare, ma invano. Davanti alla Chiesa un gruppo di uomini mi impediscono di entrare: intravedo solo le luci delle candele e ascolto le voci. Le urla della donna all’interno si sono calmate, gemeva come se facesse l’imitazione di una scimmia; il Predicatore gridava e gli uomini ripetevano dopo di lui: “Rivelati! Dimmi il tuo nome! Vieni fuori!”. Uno degli uomini mi spiegò: “Questa donna è posseduta da uno spirito di scimmia, però è stata fortunata per non essere posseduta da uno spirito di serpente o di coccodrillo, perché in quei casi l’esorcismo durerebbe tre giorni! Lo spirito malvagio del serpente a volte non si può esorcizzare”. “Che cosa succede ad una donna così?” gli chiedo, ma lui non mi risponde. Non potendo fare altro rientro nella mia stanza e Metka mi chiede cos’è successo: “Non me lo chiedere! Stai attenta: non passeggiare da sola nella giungla!”
Dopo la notte trascorsa insonne ci alziamo e fuori non piove più, il cielo è ancora minaccioso ma la sbarra è aperta, così decidiamo di partire immediatamente da quel posto. Poco dopo abbiamo raggiunto le due auto che erano partite la sera prima ed erano rimaste impantanate nel fango, a bordo i passeggeri dormivano ancora. Altri due chilometri più avanti troviamo Celestine con una gomma forata, le tre ruote di scorta sgonfie… mi fermo per dargli una mano, ma lui mi ringrazia e mi dice di continuare, è abituato a queste cose. Ora la strada comincia a farsi ripida e con il fango che c’è è un miracolo rimanere in piedi. Dopo qualche centinaio di metri vedo un cartello di lavori in corso: chiedo ad un uomo, che nel frattempo è salito dalla giungla, che lavori stanno facendo e mi dice che stanno spostando dei tronchi che sono caduti sulla strada indicandomi dove posso passare per aggirare l’ostacolo. Dò una rapida occhiata, e mentre metto la prima penso: “Non ce la farò mai!” La ruota posteriore slitta sul fondo fangoso, poi sento che fa presa al terreno a strappi, la moto avanza! Ormai manca poco all’apice della salita, un ultimo salto, fuori dalla “grondaia di fango” ed eccomi in cima! “Siiiii! Ci sono riuscito!” gridavo pazzo di felicità, e mentre mi giro a cercare dove fosse Metka, che era salita a piedi, vedo due uomini dietro alla moto coperti di fango dalla testa ai piedi! Mi hanno spinto per tutta la salita, e io ero convinto di essere un grande centauro!!!

Il Cammello di Mandello

Anima Guzzista è arrivata anche in Scozia

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di Aquila Ribelle

Ebbene si amici Guzzisti un poco per scaramanzia e un poco per modestia, nessuno di Voi sapeva che avrei partecipato, con mia moglie e la mia Vecchia Aquila (Leggi Caly II), alla “4a Motovacanza” organizzata dalla FMI che quest’anno prevedeva un Tour in Scozia, ma ora al mio rientro a casa e senza nessun problema meccanico se non la rottura della lampadina del fanalino posteriore, posso mettervi a conoscenza della mia avventura. Una settimana prima della partenza, la moto è stata portata nell’officina “ La Guzzi Service “ per un controllo generale e il cambio di olio e filtro.

La partenza è avvenuta alle ore 06.00 del 14 u.s. e sono riuscito a partire in orario perché la moto era stata caricata la sera prima, il viaggio è stato tranquillo, il percosso stabilito prevedeva: Raccordo Anulare, Roma – Fiumicino, Autostrada A12 fino a Civitavecchia e poi Aurelia, recuperata una coppia di amici Senesi a Gavorrano, abbiamo proseguito per Rosignano dove abbiamo ripreso la A 12 fino al bivio con l’A15 raggiungendo Bareggio alle 15.30 per un totale di 680 Km. Dopo una serata a Magenta organizzata dal locale Motoclub, eccoci pronti l’indomani mattina per iniziare l’avventura: i partecipanti sono 31 e le moto 20, fra queste solo due Guzzi, la mia e l’EV degli amici senesi, le altre sono Honda, Kawasaki e BMW, certo mi sento in soggezione davanti a tanta potenza e gioventù (infatti sono moto al massimo di 5 anni) ma so che posso contare sulla forza dell’esperienza della mia “Vecchia”.

La tappa di oggi ci porta da Magenta a Thionville per un totale di 671 Km, attraverso la Svizzera alla quale dobbiamo pagare una tassa di 30.00 Euro per il transito in autostrada, e poi la bellissima campagna Francese fino alla nostra meta. Il tempo è buono fa molto caldo e il morale è alto per la nuova avventura, l’unica nota stonata è il passaggio sotto la galleria del San Gottardo, 17km di galleria a doppio senso di marcia dove NON puoi superare gli 80 km/h e NON puoi sorpassare, una vera tortura per il caldo asfissiante e il rumore. Arrivati in albergo, doccia e poi tutti a cena. Il giorno successivo dopo un’ABBONDANTE colazione, di nuovo in viaggio perché oggi ci aspettano solo 365 Km per arrivare a Zeebrugge (Belgio) attraversando il Lussemburgo, dove ci imbarcheremo sul traghetto che ci porterà al porto di Rosynt, purtroppo il tempo inizia a perturbarsi e infatti appena saliti a bordo un violento temporale si abbatte sulla nave ancora alla fonda ma noi siamo già al coperto, però questo non ci rassicura e abbiamo ragione. Il traghetto è bello, le cabine un poco “claustrofobiche” ma la compagnia è buona e dopo una cena luculliana ci ritiriamo per riposarci visto che siamo solo all’inizio del viaggio e ci aspettano ancora tanti Km.

Sbarcati in Scozia, dopo appena 22 Km eccoci ad Edimburgo dove ci fermeremo 2 giorni. La città e stupenda e si possono visitare parecchi monumenti tra i quali Il Castello e la residenza della Regina quando si reca in visita alla Città. Il tempo non è clemente, pioviggina e fa freddo e mentre noi giriamo imperterriti per la città vestiti con abiti autunnali, gli “aborigeni” sono in maniche corte e sandaletti. Rimaniamo estasiati, come già detto dalle bellezze della Città ma la stessa cosa non possiamo dire della cucina, anche perché alle 18.00 tutti i negozi chiudono ed i Pub si riempiono di gente, e per trovare posto per “mangiare” è problematico. Partiti da Edimburgo Venerdì 20 dopo 210 Km, eccoci ad Aberdeen, passando per Perth, Forfar, Montuosee Stonehaven, durante il percorso, visitiamo il castello di “Glamis” (notevole) e quello di “Dunnotar” (visto uno, visti tutti). Purtroppo non possiamo visitare la cittadina perché domani mattina ci aspetta un altro trasferimento. La mattina dopo il cielo è plumbeo e noi, “scafandrati” affrontiamo i 198 Km. che ci porteranno ad Inverness, durante il tragitto ci fermiamo alla distilleria “Glenlivet” dove dopo una visita guidata allo stabilimento ci viene offerta (ragione della nostra visita) una (udite udite): degustazione gratuita. Proseguendo verso Inverness, non possiamo esimerci dal visitare il sito della battaglia di Culloden dove nel 1796 i Giacobiti (Scozzesi) combattendo per la propria indipendenza, vennero sconfitti dagli Inglesi, comandati da William Augustus soprannominato, a fine battaglia “il macellaio” a causa dell’enorme quantità di scozzesi uccisi. Il luogo si presenta come un’immensa pianura, da un lato il campo degli Inglesi, abbandonato alle erbacce, perché a detta del vecchio guardiano “concimare la terra è l’unica cosa che gli inglesi sanno fare bene” e dall’altro, una foresta, tenuta in condizioni di pulizia ed ordine incredibili, dove si erano attestati gli Scozzesi. La battaglia fu così cruenta che alcuni Clan Scozzesi scomparirono definitivamente essendo morti tutti i rappresentanti maschi. Durante la nostra visita molti sono stati gli Scozzesi, nel loro abito tradizionale, che abbiamo visto passeggiare sul sito della battaglia e dirigersi verso la foresta, evidentemente il senso di indipendenza dall’Inghilterra è ancora forte. Sarà romanticismo ma visitando quel luogo e vedendo le persone che a distanza di tanto tempo ancora lo visitano, mi sono commosso, facendo miei i loro sentimenti.

La mattina dopo, domenica 22,è prevista la circumnavigazione del “Loch Ness” ma a causa del cattivo tempo (siamo sempre vestiti in abiti autunnali, molto consoni ad una vacanza in moto) optiamo per la navigazione in motonave dello stesso per raggiungere il “Castle Urquart” , scenografico insediamento sull’omonima baia risalente al 1300. Tutti gli occhi sono puntati sulla superficie del lago nella speranza, poi rivelatasi vana, di vedere Nessy, che poi abbiamo saputo non è potuta apparire perché aveva già un appuntamento per una visita di controllo data l’età. L’indomani mattina, ci apprestiamo a percorrere i 296 Km. che ci consentiranno di visitare l’isola di Skye. Durante il percorso ci sono le visite ai castelli di Eilean Donan e Dunvegan Castle e in serata si arriva a Kyleakin dove pernottiamo nell’unico albergo disponibile, forse risalente agli anni 30. Il paese è piccolissimo ed un tempo sarà stato abitato solo da pescatori mentre oggi tutto ruota attorno al turismo. La mattina ci svegliamo con un bel sole che nel giro di due ore sparisce sotto una coltre di nuvole e quindi siamo costretti a partire di nuovo con la tuta da pioggia per percorrere i 284 Km. che ci separano da Glagow. Il paesaggio che attraversiamo è forse quello più bello visto fino ad ora, si tratta di una serie di montagne non molto alte ma percorse da una strada molto panoramica che ci offre degli scorci mai visti. Le moto vanno tutte bene a parte 3 forature occorse ad una BMW e a due Nipponiche, ma per loro fortuna non hanno le camere d’aria e quindi possono ripararle sul posto, io stingo perché pur avendo una camera d’aria di scorta in caso di forature in mezzo alle montagne dove lo trovo un gommista? Ma grazie a San Carlo Guzzi, ciò non avviene e quindi posso proseguire. Strada facendo ci fermiamo in un area di sosta perché a 10 mt. ci sono due alci che pascolano liberamente, fregandosene dei turisti che armati di ogni attrezzo di riproduzione le ritraggono. Non faccio in tempo a spegnere il motore che vengo affiancato da un signore che in perfetto dialetto Toscano mi fa “Oh via ma l’è proprio arrivata fin qua? Bella la mì Guzzi, l’ho riconosciuta prima ancora di vederla” e così abbiamo saputo che era l’autista di un gruppo di Senesi che erano anche loro in Scozia, baci e abbracci tra gente mai vista (cose che facciamo solo noi Italiani quando siamo all’estero e incontriamo un connazionale) e finalmente abbiamo potuto bere, dopo giorni di “ciofeca” un vero caffè fatto con la macchinetta Lavazza che avevano sul pullman. Ripresi il viaggio ognuno per la propria meta, la sera arriviamo a Glasgow dove piove e fa freddo.

L’indomani mattina è prevista una gita all’isola di Arran ma a causa degli orari dei traghetti non confacenti al nostro ruolino di marcia, optiamo per la visita alla città la quale mi lascia molto deluso, non ha nulla della vecchia Glasgow, infatti è una città piena di università e l’unica cosa antica rimasta è la cattedrale dedicata al patrono della città San Mungo, costruita nel 1136 e sopravvissuta alle devastazioni degli Anglicani. Il giorno dopo, data della partenza che con 98 km. ci porterà nei pressi di Edimburgo per l’imbarco verso il Belgio, PIOVE e tale tempo ci perseguita fino all’imbarco su traghetto che avviene alle ore 16.00. Saliti a bordo finalmente possiamo disfarci di tutta l’attrezzatura antipioggia e riposarci. La notte purtroppo non è delle più tranquille a causa del mare mosso e l’indomani mattina allo sbarco non tutti hanno riposato, compreso il sottoscritto, e qualcuno si è anche sentito male, ma bisogna partire perché dobbiamo affrontare 563 Km. per arrivare a Strasburgo sfiorando Bruxelles e Metz. Arrivati per l’ora di cena ci corichiamo presto perché l’indomani mattina nei 443 km che dobbiamo percorrere è anche compreso il passo del San Gottardo che decidiamo di affrontare per evitare 10 km. di fila e l’incubo della galleria. Nel tardo pomeriggio arriviamo a Lesa, sul lago maggiore, dove è in corso il TTN 2007, al quale partecipiamo dopo una calorosa accoglienza da parte degli organizzatori per l’impresa realizzata.
Il giorno dopo fatti i dovuti saluti ai 31 partecipanti ognuno riprende la propria strada e a noi ci aspettano ancoro circa 600 km per arrivare a Roma. Alla fine del Tour il tachigrafo segna 5035 Km. che sentiamo tutti, soltanto Lei la vecchia California classe 1986, da alcuni partecipanti al Tour soprannominata il “trattore”, ancora gira e sembra non accusare la stanchezza. L’indomani mattina dopo un lavaggio e un cambio olio, si riposa nel suo Box sfottendo le altre consorelle che sono rimaste a casa, mentre Lei si è sentita anche solo per 15gg la regina dell’Europa.

Aquila Ribelle

“… lei rumba là sotto”

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di Francesco Zironi (Minatore)

Nuovo giorno.
Mi aspettano lezioni, professori che arrivano in ritardo, aule piccole per studenti troppo numerosi e una città che ogni giorno si illumina di un sole pallido la mattina in queste prime giornate di ottobre.
I miei dormono ancora quando indosso i guanti e salgo in sella, giro la chiave, aspetto che le pompe benzina e olio si rianimino, spingendo fluidi necessari all’anima meccanica di questa creatura che ho chiamato Piccolina.
Premo quel tasto e Lei si rianima, vibrante di scuotimento piena. (insieme al vicinato sdegnato per l’inusuale sveglia ndr).
Ingrano la marcia, rilascio la frizione, di nuovo felice.

Rapidamente scorro i portici che ogni giorno mi accompagnano in questa città, percorrendo l’asfalto che porta di là dagli appennini, lasciando di qua, prima una Porta, poi l’altra, verso l’autostrada, ho fretta e non posso divertirmi sui passi – scelta obbligata quindi.
Imbocco il viadotto, saluto il santuario di San Luca che dai colli abbraccia Bologna appena illuminata da una rosea alba e raggiungo l’A1.
L’aria frizzante con un brivido scuote anche me, sotto la giacca di pelle, ma i km devono correre veloci, non posso soffermarmi sui particolari, così che sfido l’asfalto, la moto e me stesso lasciandomi dietro solo il rombo degli scarichi aperti.
Raggiungo le vette, presto, i guanti invernali sarebbero stati una scelta migliore.
Sulle curve dell’A1 la v11 è inesorabile, veloce copre le distanze senza chiedere altro e arrivo rapido a destinazione dove annego tra una lezione e l’altra pensando alle nuove curve che mi aspettano… sinuose mi chiamano.
Probabilmente mi si legge in faccia la distrazione, fatico a stare attento ad una lezione di costruzioni quando Piccolina è a pochi metri, nel cortile.

Passa una giornata, ma le lezioni oggi non durano fino a tardi, 17:45, c’è abbastanza luce e tempo per dedicarsi a più ludiche faccende… tiro uno sguardo alle colline di Fiesole, sorrido e ripeto i gesti che donano vita a Lei, ogni volta.
Appena il tempo di riempire il serbatoio di nuova linfa e raggiungo Via Bolognese, voglioso di curve.
Risalgo le colline che sovrastano la città (che vista da lassù, si vede l’opera del Brunelleschi, bella come non mai) e mi lascio definitivamente alle spalle gli studi, i professori, i compagni e gli impegni toscani,
Passo qualche paesino, poi presto raggiungo Vaglia, svolta a sinistra seguendo la E65, costeggio Barberino e sorrido, davanti a questa strada incredibile, perfetta.
Curve Curve Curve!!!
Una dopo l’altra, senza sosta si susseguono mettendo a dura prova me, non certo Piccolina che da settimane non aspettava altro; lei rumba là sotto, felice, assecondandomi, ora che è bella calda. Lei senza incertezze, io ancora non rinuncio a qualche maldestro tentativo di impostare bene una curva – ormai sono due anni che guido, ma ancora devo farne di strada per imparare davvero e la Futa è il posto migliore dove imparare.
Correndo veloci sull’asfalto i pensieri svaniscono, lasciando spazio ad una maggiore percezione di noi, e della macchina sotto di noi. Aprire gas, percepire la spinta, accompagnandola, chiudere gas prima di una nuova curva e poi lentamente riaprirlo accompagnando la moto rapida nel suo correre verso il nostro nuovo obiettivo ecco, finalmente ci riesco.
Tornanti in successione, poi di nuovo tornanti: uno dopo l’altro ti sfidano ed è bellissimo vincere la sfida e ritrovarsi in cima, e ancora ansiosi proseguire più avanti su nuove curve. Anche qui fa freddo, ma qui si sopporta volentieri e presto abbandono il passo Futa, seguendo per la Raticosa. Ancora curve! Ancora felice – io e la mia moto.
Ora so cos’è l’Anima Guzzista.

Pensieri, parole, opere, missioni

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di Alberto Sala

“La vita è una cosa seria, molto spesso tragica, qualche volta comica”
Carlo M. Cipolla

“Pensavo di passare per Berbenno, da lì salire a Brembilla e poi vediamo”.
L’idea di Mattia mi sorprende e magicamente mette a fuoco un itinerario che desideravo ma che non avevo tracciato altrettanto lucidamente. Avevo in mente la val Brembana ma ipotizzavo da lì il salto alla Seriana via Serina. Ma col nuovo itinerario ho avuto l’impressione che avrei attraversato qualcosa di nuovo: sono luoghi conosciuti e spesso legati alla gioventù più lontana e scoutistica, ma il sentiero d’asfalto tra Berbenno e Brambilla nello schermo interno non si era materializzato nitidamente.
“OK, d’accordo!”

Mi piace il Mattia. E’ uno che non si sottrae al porsi i grandi quesiti esistenziali, quelle domande frutto di inquietudine istintiva, di desiderio di ricerca, di bisogno ardente di conoscere la verità o quantomeno di cercarla avidamente, laddove (come spesso accade) non sia così apertamente manifesta. L’istintivo attimo ti prende inaspettatamente ed è importante se possibile non sentirsi soli di fronte ai tremendi dubbi che ti possono cogliere anche la mattina, di fronte allo specchio, prima di radersi.

“E’ veramente la doppia accensione la via maestra, il vero grande big bang?”
“la via della perfezione passa attraverso quale camma? La OSS, la KS? O la via mediana, la RS?”
“E’ cosa buona e giusta montare i filtri K&N?”

Sono quesiti terribili. Solo gli allocchi, dediti esclusivamente alle umane faccende e appesantiti dai loro pesanti fardelli di guai e miserie, non comprendono l’ardore interiore. E’ bene essere pronti alla chiamata. Chi è già passato (indenne o meno) da questo oscuro tunnel, chi ha già intravisto un bagliore di luce se non quantomeno l’uscita di emergenza venti metri a destra, sente il dovere solidale come la mannaia all’albero motore. Così, col pomeriggio del sabato libero, non ho esitato a chiamarlo, nel compendio della nostra missione.

Lasciata la zona preda dei CentriCommercialisti, dopo S. Omobono (non a caso) si comincia a respirare, noi e i nostri motori. Posso cominciare a focalizzarmi su altro che non abbia più di due ruote e più di due cilindri (volendo anche quattro candele ma aspettiamo a risvegliare i quesiti). Sto a poca distanza da Mattia, diciamo a tre quarti in estasiatica contemplazione, investito dal sano aerosol dei Lafranconi riservato competizione, sì, quelli neri con le eliche, che abbinati al Le Mans producono il suono più bello mai cantato da un motore terrestre. Eppoi, stare dietro al Le Mans è sentire i poli piliferi delle basette risvegliarsi, è sentire sciancrarsi perfino i pantaloni di pelle e scintillarsi la camicia oltre all’animo mentre Sly Stone stridula che è un affare di famiglia e i rimbombi dalle eliche suonano come il basso rotolante della canzone.
Questa moto è un salto nel tempo: è esaltazione infinita, è strappo ad ogni tristezza, è egocentrismo, è egostimolante, è ego_ e ci attacchi qualsiasi cosa. Ecco io mi sarei presentato allo Studio 54 in sella alla Le Mans, con Grace Jones ad attendermi. E’ vero, la V7 è stata la prima icona seventies ma… manca l’immagine sulla Le Mans altrettanto evocativa di quella di Mike Hailwood, con quegli splendidi pantaloni a zampa in tessuto damascato. Chi non avrebbe voluto essere altrettanto iconizzato sulla Le Mans?

Brugarolo, Ravagna, Berbenno, Laxolo, Brembilla. Il sentiero sale senza esagerare, ci divertiamo un poco a far rincorrere i rombi liberi dei nostri cavalli senza cercare troppa ansia di velocità, non solo per il viscido nelle zone ombreggiate. Ci sono sempre i grandi pensieri ancora vaganti. Così lasciamo il bivio per la Val Taleggio a periodi più asciutti, scendendo a sud, lambendo le cave di Sedrina e svoltando a sinistra, su per Zogno per la strada maestra.

Da Bigio a San Pellegrino troveremo riparo e conforto. Le papille gustative saziate di paste, ma soprattutto le retine oculari appagate dalle conferme. Non c’è stata persona di passaggio che non si sia fermata ad ammirare i due strumenti di piacere. Incontriamo anche uno splendido 850 T3 California e una Norton Commando già conosciute dal Mattia, così le chiacchiere per un po’ raddoppiano. Poi, nell’intimità del cappuccio e del caffè, torniamo ai nostri pensieri profondi, purtroppo colpevolmente ignorati dal gotha della psicologia comportamentale, ma tant’è. E’ vero che non c’è una via unica scientificamente provata: ogni ricercatore, che abbia presentato studi o meno, propone la sua via. Chi libera le anime rimappando, chi eleva alesando, chi valorizza valvolando, chi libera semplicemente le anime degli scarichi. Devi dar retta al tuo istinto quando le soavi voci delle sirene si sommano fino a non percepirle più singolarmente, facendo attenzione che alcune voci assieme diventano coro, altre solo rumore disarmonico. Così come l’elevazione dell’orchestra ai palcoscenici più prestigiosi non necessariamente avviene in una sola tappa.

Così, seduti al tavolino al cospetto dei nostri capolavori, il disquisir si rasserena a giocoso funambolismo e a Mattia comincia a delinearsi meglio il destino del suo V11 Cafè Sport. Nel frattempo e ancor più al ritorno ci penseranno le nostre moto a diffondere il nostro credo più intimo, proseguendo la nostra missione: la diffusione per ogni dove e quando, per ogni valle e calle, del verbo di Carlo, del pensiero di Giulio Cesare, della visione di Lino. Nei secoli dei secoli, amen.

Buon Natale Randazzo

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di Valter Veltre
Finalmente e’ il 23 dicembre,siamo tutti stipati all’esterno della fureria in attesa che il tenentino spina milanese ci rilasci i permessi firmati dal colonello Messina per poter trascorrere qualche giorno di festa in compagnia dei nostri cari.

Fa un cazzo di freddo che nessuno di noi qui di Roma si ricordi,pare che l’Arno a Firenze sia ghiacciato e i bergamaschi non fanno altro che prenderci per il culo per come battiamo i piedi in terra,come fossimo prostitute al bordo delle strade intente a non congelarsi i piedi.I sardi sono i piu’ euforici,grazie sicuramennte alla bottiglia di filo e ferru che si passano di mano in mano dopo averne ingollato un tot.C’e’ aria di festa, finalmente, e tutti non vediamo l’ora di uscire da questa caserma che poi e’ la nostra prigione.Siamo Autieri confinati all’8° O.R.E.caserma punitiva. Siamo “guasti” come i veicoli militari che qui transitano per le riparazioni,siamo un centinaio di “fusi”, tutti raggruppati in 5 stanzoni ciascuno dei quali conta 10 brande a castello. Chi piu’ chi meno abbiamo problemi “caratteriali”come risulta dalle nostre cartelle mediche militari e lo Stato ha pensato bene di unirci tutti insieme per non creare casini altrove.Ma noi ce ne fottiamo,va bene anche cosi’,tanto qui non ci facciamo mancare nulla,dalle salsicce calabresi all’erba dei bresciani…

Randazzo e’ il primo ad essere chiamato,questo ci lascia indifferenti perche’ noi sappiamo con chi abbiamo a che fare.Randazzo e’ uno psicopatico con gli occhi neri come la morte,i capelli come la mani unti dal grasso che gli lorda la mimetica con la quale dorme anche di notte.Randazzo parla una lingua tutta sua,e’ sempre incazzato con il mondo e quando incroci il suo sguardo e’ meglio abbassare gli occhi.L’unico con il quale scambia due battute e’ Comparelli,un meccanico di moto, appassionato come nessun altro del suo nuovo Guzzi Le Mans 1000 fresco di pacca, comprato dopo anni di sacrifici a lavorare in officina con il padre.Randazzo non ne vuole proprio sapere che la Honda 750 Four non puo’ reggere il confronto.Per Randazzo le Honda sono le moto piu’ veloci in assoluto e basta!E Comparelli abbozza.

E’ logico che sia il primo ad entrere in fureria e rititare il permesso per tornare a casa… ma… dal tempo che trascorre a rapporto con il tenentino spina milanese capiamo che qualcosa non quadra. Randazzo esce con gli occhi lividi di vendetta,le narici sono come
quelle di un toro irriso nell’arena,le gambe e le braccia piegate come quelle di un manichino scaricato in un immondezzaio perche’oramai inutilizzabile. A Randazzo hanno sterminato tutta la famiglia in un agguato fra cosche rivali.Altro che permessino, altro che buon natale…per la sua incolumita’ ordini superiori hanno deciso che deve rimanere in caserma in attesa di ulteriori sviluppi nelle indagini volute dal magistrato
di turno. Nessuno di noi ha il coraggio di lasciarlo da solo.St’anno Natale lo facciamo tutti insieme qui in caserma e… cazzo Randazzo deve tornare a casa!

Il Guzzi 1000 Le Mans di Comparelli e’ parcheggiato sotto l’altana dove FORTI non e’ di guardia,il piano e’ semplice… brindisi benaugurante con ROIPNOL… ufficiale di turno svenuto in branda Randazzo catapultato al di la’ del muro,noi beati a giocare a tombola.
Cosi fu’.

Di Randazzo,originario della provincia di Cosenza,non sappiamo mai che fine abbia fatto….il Le Mans 1000, Comparelli lo recupero’ dopo che “scontammo” un mese di naja supplementare,come punizione, a Gradisca,in un parcheggio a pochi passi da casa sua.

Buon Natale Randazzo.

Valter Veltre.

Il troppo sdoppia

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di Lupastro

Il troppo sdoppia. Mi riferisco all’alcol ovviamente, e le due ruote non è che siano di grande aiuto, anzi, già mantenerle l’una davanti all’altra pare cosa impossibile….. Per fortuna Calispera conosce la strada e dolcemente mi accompagna cullandomi nel rollio dei pistoni, mi coccola garbatamente trovando traiettorie inimmaginabili tra la nebbia della mente. Il lampeggiare delle frecce, in verità un po’ tardivo, pare il disegno d’un fuoco d’artificio, la bizzarria pirotecnica di un artigiano partenopeo. Dietro il muretto, troppo vicino ai pneumatici, si apre il golfo di Sorrento, davanti a me, ritto e perentorio, il passo dello Stelvio.
Sotto le ruote il duro asfalto e sopra al cupolino la vastità delle stelle, lacrime brillanti, diadema eccentrico mollemente indossato da un cielo nero come il carbone.
Sento una mano percorrermi l’esofago in senso contrario, il rigurgito acido sale i condotti e temo voglia spandere nel casco liquidi salmastri. Trattengo prima il fiato per alcuni secondi e poi sfogo l’impellenza in un rumore assordante, fortunatamente è solo gas che appanna la visiera, un odore acre che pervade l’intercapedine. Devo stare attento se la strada è dritta per troppo tempo credo di potermi addormentare mentre un dubbio mi corrode da alcuni kilometri, temo di aver dimenticato le dita della mano sinistra sul tavolo dell’osteria. So di riuscire a tirare la frizione ma non so come succeda, non sento le dita dentro al guanto, neppure un formicolio….niente, la stessa sensazione provata lustri indietro dopo un robusto tè all’afgano nero, il braccio destro mi si nascose per tutta la notte, “inutile cercarlo – mi disse Asfodeo per tranquillizzarmi – vedrai che quando è stanco torna a casa da solo”. Asfodeo era mitico per alcuni, un coglione per altri, aveva iniziato a stare sui motorini ancora prima di camminare, si narra che la madre lo allattasse a benzina, se lo attaccava al seno che profumava di Castrol e lo teneva a ciucciare per ore con lo sguardo fisso su un calendario tette, culi e bronzine appeso alla parete. Il garage di Toni, il moroso della madre, era la loro casa ormai da tempo immemorabile , ancor da prima del grande sfratto, credo. Divenendo grande Asfodeo iniziò a masticare pezzetti di camere d’aria e, mentre i suoi amici si facevano di colla e mastice, lui sniffava ottani tagliati con acetone alla nitro. Quando era in vena di stramberie prendeva pistola e compressore poi, dopo aver riempito il serbatoio di sverniciatore sparava a raffica bordate contro gli scootter che parcheggiavano davanti al garage. “Odio Vespe e Lambrette” – amava ripetere mentre le colpiva con il cric del camioncino, ma questa è un’altra storia ed è troppo tardi per raccontarla, e poi, in fondo penso non interessi a nessuno, me la tengo per un’altra volta.
Intanto stento a ritrovare anche le dita della mano destra, fortuna che riesco uguale a dosare il gas. Mi domando dove vada a nascondersi il filo dell’acceleratore quando scompare sotto al serbatoio, domani chiamo Murry o Ube e glielo chiedo, adesso è meglio non porsi troppe domande considerate l’ora e il freddo cane che fa.
Minchia ce li ho dietro. Vedo le luci blu roteare sul tetto della macchina dentro allo specchio retrovisore, sono ancora abbastanza lontani, forse riesco a trovare una tagliata prima che mi raggiungano. Cazzo mai un merdoso svincolo quando serve, mi accontenterei anche di uno sterrato, un sentiero, una mulattiera. Se questi mi beccano e mi attaccano all’etilometro mi sparano lì sul posto poi sputano sul mio cadavere, ho sentito parlare di carabinieri e poliziotti che uccidono i motociclisti solo guardandoti negli occhi, è per questo che è sempre meglio indossare occhiali scuri alla guida della moto.
Ecco il biancore di uno sterrato dietro al cipresso sulla mia destra, la curva è stretta ma se riesco a schivare l’albero e derrapo mollemente quel tanto che basta per imboccare il cancello m’infilo dritto come una supposta. Cacchio che comparazione infelice è come se avessi il sentore di infilarmi nella merda, ma il mio non è un eufemismo è proprio merda, è un letamaio e io ci sono dentro a mezza ruota. Il motore fa bloff, la ruota posteriore ruota sul posto e solleva schizzi di caccole e sterco, pianto giù i piedi e lo scarpone scompare nel magma, non fosse per la puzza penserei alle sabbie mobil, forse è qui che hanno girato Anacondai. Probabilmente avrei fatto meglio a dar retta a Bombos e a rimanere chiuso in casa stasera, d’altronde se io dessi retta a Bombos avrei già montato i semimanubri sul Cali, quindi lasciamo perdere.
Fortuna che il contadino ha il vino buono, ho dovuto comprargliene due damigiane per ripagarlo della tirata col trattore. –“Domani torno con la macchina e le vengo a prendere”- il villico mi guarda sorridendo, l’ho fatto felice erano anni che non vedeva una Guzzi – “Sa da giovine avevo un Falcone, poi l’età, la moglie, una cosa e un’altra…….”
Mi allontano, puzzo come un suino, il Cali puzza, se aspiro forte quasi quasi mi accascio come Dida e vomito al bordo della strada, d’altro canto se non ho vomitato fino ad ora perché dovrei farlo nei prossimi minuti? La domanda è interessante, ci penserò sopra.
Riprendo la strada, tutto è come prima, il cielo le stelle, i brillanti e tutte quelle puttanate che ho descritto prima., i vapori dell’alcol iniziano a defluire, meglio trovare un letto prima che svaniscano completamente, la notte è ancora giovane, io e il Cali molto meno.

Diario di Galadriel

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California Special ’99
di Paolo (Squaloguzzi)

 

Le ombre sono ancora chiare nel box angusto dove ho passato la notte. Christabel (1) ammicca con il suo vigile occhietto rosso lampeggiante ed io, ancora non appesantita dai fardelli dei viaggiatori, cerco di riposare in vista della lunga cavalcata. Quando la serranda si apre ed il primo scampolo di libertà si accende con le luci della mattina, il fremito del risveglio mi fa pulsare, come la schiena di un marinaio che osserva le onde di
notte, percorsa da un brivido: troppo vasto il mare, troppe miglia da percorrere, ed io non sono più una ragazzina. Ho gambe forti, certo, ed un cuore d’acciaio, ma la serena eleganza nel passo di una signora, non più l’impulso feroce alla strada di una adolescente.

Quando il bagaglio è caricato, il sole è già alto sull’orizzonte e molte paure si sono sciolte. Si parte, finalmente. Gli spazi si allargano rapidamente, dalle vie semideserte della città alla grande lingua di asfalto delle autostrade, attraverso un panorama neutro ed innaturale. Fa caldo, ed ho sete, ora. Mi fermo e affronto la prima prova, qualcosa va storto, lo sapevo, LO SAPEVO, non ero pronta. Ma il calore intorno a me è ancora quello di sempre, tutti si prodigano per aiutarmi, ed io non sono una di pretese, posso indossare gli accessori di un’altra come me, persino di una completamente diversa da me, senza mai smettere di essere una signora. Ed allora si riparte… Via dalla grande strada nera e lucida, verso i nastri di asfalto chiaro, attraverso paesi, volti, boschi, i profumi della terra.

Acolto il mio cuore che batte più lento, più robusto tuttavia, ritmato, in accordo con l’oscillare dolce delle colline, e punto la montagna che piano piano si definisce sull’orizzonte. Un po’ di riposo, prima di affrontare la scalata, e poi la magia della salita,
quella vera… il cuore su su fino in gola, quasi fermarsi sull’ingresso del tornante, in equilibrio come un pendolo nel suo punto più alto, e poi lo strappo che ti porta su contro la gravità, con la forza della determinazione, il martellare ostinato delle esplosioni e il respiro che si fa più svelto, ma non affannato, in aspirazione. All’inizio mi sento un elefante, inadeguata, carica, sgraziata e pesante; poi il ritmo viene da sè, non è una danza frenetica, è un valzer lento di passione, ed io posso, POSSO DAVVERO BALLARE. Il bosco si fa via via più fitto, i lecci oscillano lenti, la sera ormai sta calando, la strada ridiscende verso i paesi, ed io sono arrivata.

La notte è un trionfo di stelle e carezze di vento, per me è la prima notte fuori da molto tempo.

Io non sono una di città, i giorni delle passeggiate in campagna sono giorni felici. Un incedere lento, misurato, tra gli sguardi ammirati dei pochi passanti, è la mia linfa, l’eco della mia voce nelle vallate silenziose, è il mio sangue. Civettare con la natura, e poi nascondermi silenziosa per diventarne amante e figlia, e catturarne l’essenza.

Ma è già tempo di andare, il richiamo sussurrato del mare invita alla strada ed io sono viva. Una distesa di chilometri attraverso passaggi di montagna ed improvvisi scorci di costa sotto di me, poi la pancia della grande balena che sembra traghettare tra due mondi e l’accoglienza agrodolce delle zagare, nella terra dei mille contrasti. Il Tirreno è appena sotto di me, adesso, posso sentirne il sale nelle folate di vento, percepirne il gusto dello sconfinato, che ridefinisce ogni proporzione.

C’è tempo per gli altri ora, la danza solitaria diventa dapprima di coppia, poi una allegra quadriglia sui fianchi dei Nebrodi, attraverso panorami di una bellezza selvaggia e architetture scolpite nel tempo. Il mondo riempie gli occhi ed i cuori dei cavalli e dei cavalieri, la giostra gira e le mani si stringono.

Poche ore di riposo, poi un altro vento, un altro mare. Si può (si deve!) salire ancora, e danzare, ma l’invadente personalità del mare non mi lascia più, è tutto intorno, è padre e rivale, abbraccia e allontana con gli umori della luna. Alle mie spalle è l’ombra della
Montagna, come la chiamano qui, con la maiuscola che si sente nel tono della voce. Silenzioso, inquietante il Vulcano, vivo in ogni fumoso respiro, in ogni lacrima di fuoco, in ogni nera ferita. Elementale, puro, perfetto. Ci avviciniamo, zigzagando come api, osservando, annusando, eppure non ho mai la sensazione di toccarlo veramente, neppure quando il freddo arriva, le ombre si allungano e il rosso del fuoco diventa più vicino, più vicino… è ora di tornare.

In un ultimo audace approccio con il mare, mi faccio trasportare nella pancia della balena sulla strada di casa, la fettuccia rovente che conduce in città, al tranquillo, sonnolento rifugio delle strade conosciute. Ma non importa, perchè io ora sono Terra, io sono Mare e sono Vulcano, e sono viva.

Io sono Galadriel.

(1) Christabel è il nome della Griso, ed il suo occhietto lampeggiante è la lucina dell’allarme, questo solo per precisare che non sono completamente visionario e che la polverina che mi vendono non è proprio scarsa scarsa.

In missione per conto di Dio

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Report telegrafico di una domenica minchiale
di Samside

Sveglia alle 9.00.

Doccia, barba, scarpa di pelle nera, pantalone di velluto nero, camicia in doppio cotone ritorto, giacca e guanti di pelle, integrale.
Raggiungo la chiesa dove oggi si sposa Matteo, l’ultimo degli ex compagni di classe con i quali c’è ancora qualche rapporto, che ancora non ha la fede al dito (a questo punto manco solo io ….).
Mi guardo intorno e secondo me sono il più figo di tutti.
Anche se gli sguardi di chi ho intorno paiono dire tutt’altro.

Ma non è questo il problema.
Il problema è che io odio le cerimonie tutte, i matrimoni in particolare.
I matrimoni ai quali vado in moto, e quindi non posso bere, sono quelli che proprio non sopporto.
Problema che diventa più grande se la chiesa è proprio di fronte alla rotatoria che unisce la statale alla strada per Urbino.
E dietro ci sono le Capute.
Finite le quali, si fanno un’altra trentina di chilometri di curve, prima della Trabaria.
Problema che diventa gigantesco quando è domenica, il cielo è limpido e l’aria è fresca.

Tolgo il casco, tolgo i guanti, apro la giacca.
Alzo lo sguardo, lo riabbasso.
Mi passano di fronte in rapida sequenza una Ducati, una mucca e una giappa non identificata.
Mi guardo intorno.
Un sorriso, forse un pò desolato, ma sincero.
Mi chiudo la giacca, mi metto i guanti, il casco.
Accendo.

Si avvicina Lorenzo che mi fa “Ma a pranzo vieni ?”
Io gli rispondo “Forse si” e parto ridendo come un imbecille dentro al casco.
Non tanto perchè so benissimo che non ci andrò, quanto perchè mi rendo conto di guidare una Guzzi vestito da mucchista.
Complice il fatto di conoscere le strade a menadito, mi diverto.
Mi diverto da morire.
Mi diverto così tanto che in alcuni momenti ho quasi la sensazione di saper guidare almeno un pò sto ferro maledetto.
Che respira che è una meraviglia, che sta bene, e che mi fa star bene come un bambino con il suo gioco preferito.
Non penso ad altro che a divertirmi e non incontrare posti di blocco.
Il primo me lo segnalano a tempo debito, chiudo e ci passo davanti a 3000 giri.
Occhiataccia il primo, occhiataccia il secondo, sguardo ebete del pirlota, e pedalare.
Il secondo non me lo segnalano affatto, e chiudo nell’ istante in cui vedo l’omino blu in mezzo la strada.

Non una gran mossa, potrà sembrare, ma faccio davvero tanto baccano.
Mi guarda brutto, bruttissimo, ma la paletta non la alza.
Mi guarda bruttissimo, ma ora anche un pò incursiosito, e ‘sta paletta continua a non alzarla.

Sono passato, ma a questo punto non c’è più nessun rumore.
O quantomeno, nulla è percepibile, se non l’odore che lascio in scia.

Arrivo in cima alla Trabaria, e mi fermo, perchè ho bisogno di assorbire un pò di questo sole.
Ho le ossa ghiacciate.
Si, perchè l’aria è fresca quando, sul livello del mare, stai in piedi, fermo, sotto il sole.
L’aria è fresca e tu stai da Dio.
Ma se quel giorno di aria fresca è il 5 di ottobre, e tu con la moto arrivi intorno ai 1300 andando ad andatura arzilla-medio-spedita, è il motore a stare da Dio.
Tu che lo guidi con la scarpina fescion, il pantaloncino figo e sotto la giacca, solo la camicia stilosa, sei un emerito minchia.

Scambio due chiacchiere con il ducatista che mi ha sverniciato senza pietà, e che mi guarda con disprezzo.
Penso tra me e me:
“Si, ok, mi hai dato paga. E allora ?

A parte che io mi stavo facendo gli stramaledetti miei, ma tu ….

Si, dico a te: tu, ti sei visto ?

Hai una moto che fa cagare.
Tutta kittata e tutta personalizzata …. e c’hai lasciato i db killer.
Sei vestito come un fighetta …..”

“………”

“Ah, ecco perchè mi guarda con disprezzo ….. si, dai, la moto non è proprio bella, però due o tre spunti interessanti ci sono”.

Gli spiego il perchè della mia mise, e ne riguadagno il rispetto, prima che mi saluti, per lasciare posto al V-Stronz munito.

Ragazzo simpatico, solare, amante della moto, ma non appassionato.
Apre il bauletto, tira fuori un thermos e si versa un caffettino caldo (bastardo, la moto fa schifo, con il bauletto è inguardabile ….. ma lo invidio parecchio).
Conosce diversi modelli, viene da un Transalp, ma insiste con ‘sto “il monocilindro”, “il bicilindro”,…..
Chiacchieriamo, e intanto vedo che ogni tanto, dietro agli occhiali da sole, allunga gli occhi verso la mia.
GS e Stelvio costavano troppo, così da poco ha comperato il V-Stronz, e ne è più che soddisfatto.
Le Guzzi lo affascinano, ha guidato una Brevina e gli è piaciuta molto, ma costano troppo, e troppo grande è l’incognita affidabilità e assistenza.

E allunga gli occhi.

“Ma guarda che ora le Guzzi sono moto affidabilissime…”
“Ma guarda che ci sono degli ottimi usati ….”
“Ma guarda che quelle che a te sembrano moto affidabili, in realtà hanno tanti problemi …”
“Ma guarda che non ci sono più le mezze stagioni, e se si stava meglio quando si stava peggio, l’importante è unire l’utero al dilettevole ….”.
“E blablabli….e blablabla”.

E allunga gli occhi.

“E allora se lo vuoi proprio, ‘sto colpo di grazia, io te lo do.”

“Ascolta, io me ne vado.
Prima però appoggia il culo sulla mia moto, così capisci perchè ti affascinano”.

Cazzo, non aspettava altro: mi giro per togliere il casco dal serbatoio e i guanti dai coprivalvole (sborone …..) e lui è gia li che scalpita.
Mette una gamba dall’altra parte, la solleva dal cavalletto, e gli si legge la paura in faccia.

“Accidenti, pesa !!”.

“Pesa solo da ferma, poi quando vai in giro non pesa più.
Gira la chiavetta, fai fare il check, e poi accendila”.
Accesa.

Lui cambia espressione e colore.
E non dice niente.
Mani sulle manopole, sguardo perso nel vuoto.

Mi sembra più patacca di me.

“Dai una sgasatina”.

Sgasatina-ina-ina.
Ghigno.

Sgasatina-ina.
Sorriso

Sgasatina.
52 denti.

Sgasata.
Coito non interruptus.

“Ma ascolta, vicino casa mia, dov’è che posso provare una Guzzi ?”.
“Vicino casa tua non so, comunque sabato prossimo prendi tua moglie, fai un giro fino a Macerata, e arrivi in corso Cavour.
Li vedi l’insegna, e mentre tua moglie parla con la Lidia, tu parli con Roberto”.

Io ancora non mi sono ripreso del tutto dal freddo, ma intanto salgo, lo saluto e lo lascio, sorriso ebete e chiazza sui pantaloni.
Se avessi avuto un’ hornet, avrei fatto la strada più breve.
Purtroppo però ho un V11, quindi finisco la Trabaria, un pò di E45, Scheggia fino a Gubbio, Contessa e via a casa attraverso le colline, per saltare la statale.

Era da tempo immemore che non prendevo tutto ‘sto freddo, e il cellulare è pieno di messaggi che vanno dal “Ci sei mancato” al “Non si fa così”.

Li perdono.

Ero in missione per conto di Dio, ma non possono saperlo.

Ed è inutile spiagarglielo.

Non mi capirei.

 

© Anima Guzzista

I monti Dauni visti dai miei occhi

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I monti Dauni

di Carmine Apparente

L’idea di organizzare un tour tra i monti Dauni è venuta dopo aver gironzolato per siti e aver trovato una iniziativa del distretto culturale della Daunia Vetus . Le parole che ho letto e che qui riporto per stralcio, mi hanno generato una nuova curiosità verso quei luoghi che bene o male, a me sono noti.
“ L’Antica Daunia, la terra che diede approdo all’eroe greco Diomede, compagno di Ulisse, oggi riprende vita attraverso un Distretto Culturale.
Daunia Vetus, per i viaggiatori attenti e curiosi, si rivela uno scrigno traboccante di storia, di arte, di monumenti, di colpi d’occhio fascinosi su paesaggi di assoluta originalità. Una campagna fatta di campi di grano ondeggianti, di boschi d’ulivi secolari, di colline dolci solcate da vigne e disseminate di masserie antiche e casolari caratteristici.
Un territorio che ospita alcuni dei borghi più belli d’Italia, dove si conservano rarissime pergamene, cinquecentine, argenti, paramenti sacri e opere di grande valore artistico, storico e devozionale.
Qui imperano il giallo e il verde, ma anche il blu violetto dei carciofi, degli asparagi viola e di quell’uva che dà vita a un vino dal sapore asciutto e dai profumi intensi.
Un lembo di Puglia a ridosso del Gargano che vuole cantare forte i suoi tesori e annunciare con orgoglio tutta la sua bellezza.”
Consultata la solita ed insostituibile cartina, mi sono messo alla ricerca delle strade migliori per poter attraversare in sequenza e senza ripetizioni i dieci comuni del Distretto Dauno e cioè: Lucera, Castelnuovo della Daunia, Pietramontecorvino, Biccari, Alberona, Roseto Val Fortore, Faeto, Orsara di Puglia, Bovino, Troia. Per ragioni legate al tempo a mia disposizione, con grande rammarico, ho deciso di tagliare la visita ai comuni di Lucera, Orsara di Puglia, Bovino, ai quali mi riserverò di ritornarci con gli occhi del “viaggiator attento” una prossima volta.
Partiti di buon ora alla volta di Castelnuovo della Daunia, ci siamo imbattuti in una leggera foschia che ha reso più misterioso il paesaggio si presentava, appena arrivati, ai nostri occhi.
Subito dopo, l’autunnale ma caldo sole Dauno, ha preso il posto della grigia foschia, permettendoci di fotografare in tutto il suo splendore il convento dei Frati Minori del 1579, in chiaro stile romanico, molto ben conservato.

Siamo poi, ripartiti alla volta del bellissimo Comune di Pietramontecorvino, con il suo straordinario centro storico denominata la terra vecchia. Di chiaro stile medioevale, questo bellissimo borgo, custodisce, ben conservato (anzi in questi giorni gli operai sono all’opera per il suo restauro) la bellissima torre Normanna. Pietramontecorvino mi lascia, ogni volta che vado, un impressione positiva, nonostante a fianco di questo ottimo centro storico valorizzato con attenzione, giacciano ancora le ferite del terremoto del 2002.

Ripreso il cammino, destinazione Biccari, la voglia di arrivare al lago Pescara è forte. In autunno i colori delle foglie in attesa della brezza per la loro soave discesa in terra, sono spettacolari. Poi lo specchio d’acqua riflette colori e suggestioni inebrianti. Il sole accompagna ed esalta ancora di più questo magnifico spettacolo della natura. Rifocillati nel corpo e nello spirito, la nostra destinazione è stata Alberona.

Sono molto affezionato ad Alberona, poiché, a parte la salubrità del luogo, in tutti i sensi, mi piace particolarmente quella voglia che hanno gli abitanti e le istituzioni, di mostrare il sempre volto migliore del proprio paese, organizzando feste, sagre, e altri appuntamenti che risultano di forte attrattiva, per turisti in generale e abitanti del circondario. Qui la gente è semplice, affettuosa ed accogliente. L’estate, Alberona con il suo fresco clima, la sua magnifica gente e le tante iniziative accoglie tanti turisti in cerca di una semplice boccata di aria fresca.

Roseto Val Fortore, paese facilmente raggiungibile da Alberona, contiene un gradevole centro storico con una bellissima cattedrale. Rinomato Borgo per il tartufo ed il miele.

Breve trasferimento a Faeto, città del prosciutto crudo. Il paese contiene un centro storico interessante. Purtroppo la condizioni metereologiche peggioravano e la visita al borgo, durò poco tempo.

Dulcis in fundo, la cattedrale di Troia, splendido esempio di architettura romanica con il suo famosissimo rosone che in pratica è il simbolo della città. C’è da restare incantati nell’osservare di quale bellezza è fatto questo edificio.

Ritorno a casa con la convinzione che quello che è intorno a noi, è straordinario. Molto spesso siamo tentati di spingerci al di là per scoprire, dimenticandoci che le scoperte, quelle straordinarie sono sotto i nostri occhi. Provate a vedere con il piglio del “viaggiator attento e curioso” avrete la certezza che sotto al proprio naso esistono bellezze insospettate

 

CLAUDIO GUARESCHI

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a cura di Alberto Sala, con la collaborazione di Mauro Iosca  e Jonathan Padfield

Presentare un personaggio come Claudio Guareschi non e’ una cosa difficile. Non c’e’ da inventarsi molto, perche’ e’ un personaggio che le sue moto le ha vissute tutte, che ha incominciato a respirare l’odore dei motori fin dai calzoni corti, che rappresenta al meglio l’essenza della gente di Parma: genuinita’, schiettezza, grande competenza e rispetto. E naturalmente passione: passione per le moto in generale, e in particolare per le Guzzi, che da decenni cura e prepara amorevolmente. Passione che non ha mancato certo di trasmettere ai figli: Vittoriano lo conosciamo tutti, ma anche Gianfranco non scherza.
Ci accoglie nella sua ampia officina alle porte di Parma, e da subito il clima si fa allegro e cordiale.
Incominciamo ovviamente sbirciando e chiedendo sfrontatamente ogni minimo particolare sulla Scura destinata al figlio Vittoriano:

C: … le pedane arretrate le ho fatte fare da Walter Moto, ma alcuni particolari li ho fatti io con Vittoriano. Li abbiamo finiti oggi.

J: Ma quanto pesa la moto?

C: abbiamo appena finito, non lo so bene. Non possiamo andar sotto del 10% del peso. Duecento chili.

A: Ma il regolamento dove consente di intervenire? Ad esempio l’albero a camme si puo’ modificare?

C: No, e’ li’ il brutto. Io la distribuzione l’ho giocata, ma non con l’albero a camme.

J: non hai messo l’albero di Scola?

No. Perche’ Scola ha le sue moto. Noi abbiamo le nostre. Io sono molto amico con Bruno.
Io l’ho provata la roba di Scola; lui ha delle buone cammes che tirano sotto; noi abbiamo dei clienti che vogliono motori che non sembrano neanche Guzzi; quando girano sembrano Ducati; abbiamo delle curve con 95-96 CV sui 1100 alla ruota, con camme, rapporto di compressione.
Abbiamo dei clienti oggi che hanno Ducati; oggi sono andati a provare Guzzi V11 ma sono clienti che ci ritornano tutti, sono quelli che avevano il LeMans una volta; uno ha Ducati e MV; e’ andato a provare il V11 Le Mans e la Scura oggi (a Varano alla manifestazione ‘Aquile in Strada’ ndr) e rimpiangono i loro Lemans di una volta; ricordati che la clientela l’abbiamo persa … con i ducatisti.

J: questo e’ il grosso problema di adesso: non abbiamo assolutamente una sportiva

C: gia’. Il granturismo l’abbiamo perso con la BMW. Il California non e’ una granturismo: e’ una bella moto, non e’ un custom, non e’ un chopper, e’ una via di mezzo che e’ trent’anni che c’e’…
Io faccio ancora 20mila km all’anno… A Pasqua partiamo per andare a mangiare il pesce, senza sapere ancora dove andremo. Io ho lavorato anche troppo. Sono cinquant’anni che lavoro.

M: da quanto tempo c’e’ la concessionaria?

C: la concessionaria, che era la ditta Sacchetti, che e’ dove sono cresciuto io, coi nonni, l’abbiamo ritirata nel ’67 e ci siamo ripresi la Guzzi. Eravamo in due, Piccinini e Guareschi, poi ho liquidato il socio. Io ho cominciato nel ’53, coi calzoni corti, da giovanissimo. Presto. …ho fatto il sidecar nel film ‘Peppone e Don Camillo’…

J: Domenica vai giu’ all’autodromo?

C: Si, anche domani pomeriggio.

A: Bene, che cosi’ intervistiamo poi Vittoriano a fine gara…

C: Certo, certamente…

A: Cosi’ ci dice finalmente cosa avete fatto nel motore…

C: Nel motore non abbiamo fatto niente. Niente. Solo guardato… (risata generale).

A: Quando ha incominciato a elaborare Guzzi?

C: Eeh, da una vita. Questa qui e’ una elaborazione (ci mostra una foto). Guzzino, Zigolo, il primo Zigolo con le valvole rotanti, non ho le fotografie, gli avevo fatto il serbatoio come la Ducati Marianna, verde, cambio arretrato, uno Zigolo che faceva diventar pazzi i gilerini… per me faceva 105-110 Kmh, prima valvola rotante con il carburatore girato in avanti.

J: Ma tu hai fatto qualche gara?

C: No, mai, mai. I miei genitori non hanno mai voluto. Io ho firmato subito per i miei figli.
Toh, un segreto del Falcone (e ci mostra una guarnizione).

M: Cosa vuol dire quella guarnizione?

C: Rapporto di compressione. Senno’ non ha allungo. Molta ripresa e non prende in velocita’. Questa l’ho rifatta nel ‘62-63.

(ci mostra altri pezzi e alcune moto, e chiacchieriamo informalmente).

C: Queste moto erano leggere…

J: E quelle di oggi? Cosa ne pensa?

C: Queste? Il motore devono alleggerirlo della meta’, perche’ con 100 kg tra motore e cambio… fai poco. E’ inutile che stiamo li’ a raccontarci palle. Poi c’e’ la pesa! Prendi la ruota dietro col cardano, e cosa pesa?

A: Ma e’ solo una questione di peso?

C: Peso, rotazione del motore… che non e’ alta. Non gira alto; e’ nato cosi’. Questo ha un carter indistruttibile, ma il limite e’ li’. Ma comunque dovranno lavorare su un motore nuovo…

A: Cosa ne pensa della nuova dirigenza?

C: Sono stato subito positivo a dir poco, perche’ la risposta che avete trovato su Motociclismo che ho dato a Tartarini e’ mia.

M: Tartarini poteva stare anche zitto…

C: Tartarini vada a pigliare per il culo i suoi concessionari. Le ragnatele le ha lui, la muffa ce l’ha lui, non un concessionario che e’ 50 anni che lavora e che si da’ da fare. Lui poteva dire: ‘certi concessionari’, non far di tutta l’erba un fascio. Io non ho avuto altre marche. Io ho mangiato, ho fatto correre i miei figli, mi sono fatto il capannone a 16-17 ore al giorno, e oggi lo dimostra la mia clientela… ma scherziamo?!? Le mie moto anche se hanno degli anni sono sempre qui… I vigili di qui hanno cambiato dei 500 a 300.000 km, ne hanno ancora 5, hanno gli enduro con 150-160.000 km… La piazza te la guadagni, e quando c’era la crisi non sono andato a piangere.

A: Tornando alla nuova gestione, lei e’ molto ottimista…

C: Si, io sono fiducioso. Se loro mettono le persone giuste al posto giusto il marchio c’e’, e qui la gente ci crede. Se sbagliano sono finiti. Ma se centrano solamente una motocicletta per tirar fuori la testa noi in due-tre anni siamo fuori dalla melma completa. Il nostro marchio risplende ancora, te lo dico io.

A: Ma i suoi clienti che cosa pensa che si aspettino?

C: Per riavere i nostri clienti – non la clientela attuale, alla clientela attuale gli va bene questo (e mostra i modelli attuali); tutto quello che arriva gli va bene, ma non e’ questo: noi dobbiamo andare a pescare gli altri. Noi l’anno scorso abbiamo ritirato dieci moto straniere, gente che si sono stancati e sono ritornati sulla Guzzi, o perche’ l’amico ce l’ha… arrivavano qui insieme; hanno riscoperto questa moto: prima non ne parlavano mai, e noi tutti gli anni abbiamo combattuto, abbiamo continuato a seminare, e siamo contenti; l’hanno scorso abbiamo ritirato in Guzzi circa 50 moto. Quest’anno sono gia’ a 11; pero’ 7-8 grosse, solo due piccole. Abbiamo gia’ tre naked e una Le Mans.

A: la sostanza e’ che bisogna arrivare a pescare gente nuova…

C: Si. Scendere come eta’. Invogliare i 25-26enni.

M: Pero’ i giovani vogliono la moto sportiva…

C: (con enfasi) Quello. Perche’ dico che manca? Perche’ questo (il V11) non aggancera’ i giovani giovani. Qui arrivano dai 30 anni in su. Gente che ha provato Monster, Triumph… arrivano come terza, quarta moto. Non come prima moto. Il ragazzino arriva, ha finito le scuole, puo’ andare in moto a 20-22 anni, difficile che arriva qui. Poi ci manca la moto da panino: la moto di cassetta: un 500-650; non il Nevada: una bella motociclettina, nuda…

J: Un 600 mono?

C: No, il mono e’ ormai passato, che poi ci buttano su il motore Aprilia… (risata generale)

J: Perche’ non avete Aprilia?

C: Ci hanno fatto punto vendita Aprilia; abbiamo venduto una RSV-R… Ma non diventiamo concessionario: ci sono gia’. Continuino loro…

J: Cosa ne pensi della MV Agusta?

C: MV? La piu’ bella che c’e’. Come un bel quadro, una bella donna, che quando la tocchi e’ fragile, fredda (seconda risata generale)… e’ bellissima, come una bella xxx che non ti trasmette niente.

M: All’unanimita’!

A: Siamo tutti d’accordo.

C: Chi le ha le tiene nel cassetto; non va a dire all’amico: ‘prendila’. Ed e’ bellissima: ma tu vai in un parco corse: il 60% sono Ducati. Tamburini e’ stato bravo con quella, pero’ la MV non ha cuore. Hanno sbagliato il cuore. Il cuore delle MV suonava diversamente, anche se erano carrettoni… Tutti i difetti che vuoi, pero’ quando scendevi da quella moto… il rombo… Come queste: possono dire quello che vogliono, ma quando scendi… ti innamori di questo motore, con tutti i difetti che ha, con piu’ strada fai piu’ sul Guzzi ci ritorni.

J: Anche dopo Ducati?

C: Sisi, anche dopo Ducati. Li devo un po’ accontentare, ci dobbiamo un po’ sacrificare per farle andare, pero’ arrivano. Se poi fai la moto giusta arrivano. Quello a cui ho dato Aprilia aveva Ducati; anche lui costava 50 milioni, pero’ l’ha dato via, non c’era il Guzzi e allora ha preso Aprilia.

J: Ma come mai, secondo te?

C: Qui manca l’assistenza a Parma. Qui hanno chiesto a noi. Adesso. Prima gli interessavano quelli con la cravatta; ora gli interessano i coglioni, quelli che lavorano.

J: E’ possibile che tu diventi un Moto Guzzi Store?

C: (silenzio) Io mi sento la Bottega Moto Guzzi. Qui quando abbiamo cominciato non dicevamo ‘andiamo in officina’; dicevamo ‘andiamo in bottega’.

J: Quando ha cominciato a correre Vittoriano?

C: Ha cominciato 15 anni fa. Ha cominciato con una Cagiva. E’ stato uno dei piu’ vittoriosi Honda.

M: E’ vero che ha fatto il contratto con la Ducati, ma ha detto: ‘mio papa’ ha le Guzzi e voglio guidare le Guzzi’, ha fatto mettere nel contratto che voleva guidare una Guzzi

C: Si. Ha detto: ‘sono talmente stanco che prendo la moto di mio padre e vado a fare due impennate’ col V11.

J: quando non corre cosa fa Vittoriano?

C: Lavora qui. Tutti e due.

(intanto la conversazione divaga alquanto in un sacco di stupidate, soprattutto grazie a Jonathan che non scherza…)

A: Insomma: sappiamo che avete cambiato sulla Scura i tubi di scarico, che avete cambiato la forcella…

C: No, la forcella no, e’ andata su questa (e indica quella di serie)

J: Si, ma ci hai fatto qualcosa di strano che nessuno capisce…

C: Dentro e’ stata messa a posto (risata generale)

J: Non e’ un po’ buffo che ora Haga e’ in Aprilia e Vittoriano guida Guzzi? (Vittoriano e Haga erano compagni in Superbike con la Yamaha ndr)

C: Buffo si’…

M: Haga non ha mai provato una Guzzi?

C: Nono… Haga non prova niente. Haga e’ un bombardone, ha la puzzetta sotto il naso, non ti avvicini mica tanto facilmente. Io andavo a trovare mio figlio, ma Haga stava la’, e’ un giapponese, nascosto… Non e’ un uomo da immagine da vendere…

J: Peggio di Biaggi?

C: Si. Valentino e’ uno che trasmette. Io lo conosco bene perche’ e’ amico di mio figlio, il piu’ giovane. Quello che trovavi sulla maglietta quando ha vinto il mondiale, ‘Guaro’ e’ Gianfranco, che oggi corre in Francia. Fanno le ferie insieme… Ma amici veri, non per favori… quando ha vinto il mondiale gli ha pagato il biglietto e via… in quei 4-5 a cui paga il biglietto c’e’ sempre dentro Gianfranco. Quando era ragazzino dormiva nella roulotte con i miei figli. Forse e’ stato quello, perche’ non aveva una lira, e i miei figli l’hanno sempre ospitato, e lui si ricorda sempre. Senza interessi.

Torniamo ancora a chiacchierare sulla Scura che scendera’ in pista a Varano.

M: Come si trova Vitto su questo circuito?

C: Lui ha ancora il record con le 125, ancora imbattuto, con una Aprilia. E mica un giro solo: ha fatto tutta una gara a livelli impressionanti.

(niente da fare: spesso la conversazione scorre divagando alquanto: tra tutti ci si diverte; si divaga parlando di moto inglesi, tedesche, della sua officina che sta sistemando, del Daytona di Mauro e di cosa gli si puo’ fare, e cosi’ via, in un clima sempre cordiale e simpatico)

Il discorso si sposta sul campionato Supersport e sulla Ducati 748, che non corre piu’.

C: …e’ un progetto vecchio. E quando e’ vecchio… come il nostro; puoi ringiovanire, fare… pero’ arrivi fino li’ e basta. Io sono convinto che questo motore puo’ arrivare a 100 cavalli e poi basta. Se vuoi un po’ di durata… e poi e’ gia’ al limite…

J: e il Le Mans?

C: No, beh, quello la’…

J: Di serie aveva 70-75 CV…

C: See, all’albero, non alla ruota. Al massimo puo’ arrivare a 85; ha i carter sottili, i prigionieri… se dopo lo carichi molto… la gente parla molto, ma poi li vedi dopo…

J: Scola parla molto…

C: Non so. Per me e’ un amico. Poi se lui parla… con me e’ molto riservato. Ce ne sono di peggiori, te lo dico io. Se parla sbaglia, perche’ i limiti sono li’, senno’ avrebbero gia’ tirato fuori.

Si riprende facilmente a divagare, e deambuliamo per la concessionaria, chiacchierando anche con la simpatica moglie Loredana, e cosi’ via. E’ un piacere essere loro ospiti. E alla fine una frase chiave dell’intervista ti frulla in mente; quel “con piu’ strada fai piu’ sul Guzzi ci ritorni”.
Anche da lui.

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